13, 2019
 
Wunderkammer    
 

Maria Antonietta Terzoli

Due piccole dediche di Giovanni Bardazzi e qualche ricordo



È un grande piacere per me essere qui stasera a festeggiare Giovanni Bardazzi con il dono di una ricca miscellanea di studi in suo onore a cui hanno partecipato tanti colleghi e amici. Ringrazio dunque Marco Sabbatini, Roberto Leporatti e Francesca Serra dell’invito a dire due parole in questa bella occasione. Ho visto che nella locandina ufficiale sono l’unica persona per la quale è indicata l’Università di provenienza (Fig. 1). Giustamente, dal momento che insegno all’Università di Basilea e non all’Università di Ginevra, come invece gli altri relatori della serata. Eppure questa precisazione indica solo una parte della mia appartenenza, quella attuale − importantissima e ormai della durata di quasi trent’anni −, ma non dice un’altra appartenenza, per me non meno significativa, che è quella all’Università di Ginevra, dove prima come assistente e poi come chargée de cours ho insegnato per dieci anni, dal 1981 al 1991 quando sono partita per Basilea. Ginevra è stata anche l’Università dove nel maggio del 1987 ho discusso la tesi di dottorato. Credo anzi che a questo titolo sia stata invitata questa sera, come testimone dei primi tempi della presenza di Giovanni a Ginevra, fin da quando l’Unité d’Italien, o meglio il Département des Langues romanes si trovava in un piccolo appartamento di rue de Candolle, sopra la brasserie Landolt, e poi con altri istituti nel grande bâtiment del Boulevard des Philosophes. Ho trovato una fotografia di fine Ottocento-inizio Novecento (Fig. 2), un po’ più antica del tempo che ricordo qui stasera… ma che dà comunque un’idea della topografia degli anni Ottanta: sulla destra si vede la posizione dell’edificio dove si trovava l’istituto di italianistica e in fondo il bâtiment des Philosophes (a quell’epoca École de chimie). Con l’avvertenza che la ragazza con la treccia sulla sinistra non sono io e il signore di spalle, seduto sul calesse, non è Giovanni Bardazzi… Vengo al nostro primo incontro, che come tutti i primi incontri − nella vita e nei romanzi − contiene in nuce i segnali degli sviluppi successivi. Tutto sta a saperli riconoscere. Ma, come sappiamo, la maggior parte di questi segnali ci sfugge e dunque si può leggere piuttosto a posteriori, con sguardo retrospettivo. La prima volta che vidi Giovanni Bardazzi fu in rue de Candolle, in una delle piccole sale della nostra biblioteca d’istituto, seduto a un tavolo intento a leggere. Stava aspettando di andare alla sua lezione di prova. Era l’11 aprile 1983. La lezione, che si sarebbe tenuta di lì a poco nell’aula A 213 (non so se si chiama ancora così), e con cui Bardazzi avrebbe vinto il concorso, si intitolava La lettura del ventunesimo capitolo dei Promessi sposi (prima parte). Se la scena si svolgesse adesso sarei certamente impressionata dalla calma con cui aspettava questo evento per lui decisivo. E naturalmente decisivo per l’Università, come tutte le scelte di un professore, che nel bene e nel male determinano la vita e l’evoluzione di un istituto universitario per molti decenni. Allora la prima cosa che mi colpì fu la sua giovinezza rispetto ad altri candidati, la gentilezza riservata, e l’abbigliamento − una giacca blu sopra un paio di jeans − decisamente inconsueto per una lezione di prova, che era allora estremamente formale. Col senno di poi possiamo dire che Giovanni era molto avanti in fatto di abbigliamento e prevedeva l’attuale stile informale… Ma soprattutto le altre cose che notai − la cortese riservatezza e l’amore per la lettura − dovevano poi rivelarsi tratti caratteristici del suo carattere, che avrebbero segnato negli anni la sua presenza all’istituto di italianistica, contribuendo a garantire un clima di simpatia e di collaborazione, unito a un’intensa attività di ricerca e di studi di cui tutti abbiamo approfittato. Ancor oggi gli sono grata della grande disponibilità che ebbe subito con noi assistenti, di poco più giovani di lui, e del suo equilibrio pacato, in grado di alleggerire anche le inevitabili tensioni accademiche. Il suo tono misurato e la sua discrezione li ho ritrovati ancora oggi rileggendo le brevissime dediche con cui accompagnò il dono di due suoi libri. Il primo era l’importante edizione critica del Conte di Carmagnola di Manzoni, uscita nell’ottobre del 1985 presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, che porta la dedica «Ad Antonietta, / con profonda amicizia / Giovanni / 12.III.1986» (Figg. 3.1 e 3.2). Il secondo era la deliziosa raccolta di Dieci lettere private di Machiavelli, commentate e elegantemente introdotte per un volume tascabile dell’editore Salerno, uscita nel marzo del 1992: «Un caro saluto. / Fatti viva! / G. / Ginevra, 17 ottobre 1992» (Figg. 4.1 e 4.2). Quest’ultima, come si vede, addirittura più stringata come dedica, benché svolga anche funzione di brevissima lettera di richiamo. In ogni caso possiamo dire che le due dediche contengono tutti gli elementi essenziali di questo micro-genere testuale: nome del dedicatario, nome del dedicante, data e eventualmente luogo. Di nuovo lo stile essenziale, ma non evasivo di Bardazzi… Gli anni di vita accademica condivisa con Giovanni a Ginevra sono stati anni ricchi di incontri, di esperienze intellettuali e di iniziative, come per esempio l’importante convegno del 1985 per il centenario manzoniano e gli inviti di autori contemporanei. Tra gli scrittori che vennero a Ginevra in quelle occasioni ci furono per esempio Vincenzo Consolo, Daniele Del Giudice, Carlo Fruttero, Giovanni Orelli. Ma sono stati anche anni di grande impegno didattico e amministrativo, svolto insieme per allestire piani di studio e programmi di corsi. Ricordo per esempio i sabati mattina passati in un bistrot della vieille ville, a controllare e rivedere i nuovi piani di studio, conclusi a volte da un plat du jour e da una visita alla libreria vicina, dove stavano svendendo i volumi ottocenteschi dalla Società Tipografica dei Classici italiani. Ma quegli anni ginevrini sono stati per me anche anni importanti di formazione, di cui il dottorato è solo il risultato più evidente. Giovanni Bardazzi era uno dei cinque membri della commissione, insieme con Guglielmo Gorni, direttore di tesi, Giovanni Pozzi, Franco Gavazzeni e Emilio Manzotti. E come tale nel marzo del 1987 ebbe a redigere un rapporto sulla mia tesi, che conobbi solo dopo la discussione. Era un rapporto di grande qualità, che dimostrava una simpatetica e coltissima lettura del mio lavoro, come anche quello di altri commissari, ma solo il suo non era battuto a macchina, bensì scritto − come ho avuto modo di vedere quando l’ho ricevuto − nella sua bella e regolare calligrafia (Fig. 5): una forma di resistenza pacifica, ma tenace all’incipiente invasione tecnocratica dell’università. Anche dopo la mia partenza da Ginevra non sono mancati contatti e incontri, soprattutto in occasione di quel Terzo ciclo per dottorandi che le università della Svizzera Romanda, con Berna e Basilea, avevano costruito in maniera molto libera, ma efficace, nel corso degli anni, prima che la Conferenza svizzera dei rettori, verso la metà degli anni Duemila, ne decretasse la fine e la sostituzione con programmi più strutturati e più rigidi. Quegli incontri, organizzati a turno dalle diverse università, erano momenti di intenso scambio intellettuale e personale, che certo non sono stati inutili per tanti di noi che hanno poi percorso i gradi della carriera accademica. Posso mostrare qui una foto di gruppo che riprende un momento di pausa dei lavori, a Bigorio in Ticino, nell’ottobre del 1986. Oltre a Giovanni Bardazzi e a me, si riconoscono Guglielmo Gorni, Luca e Massimo Danzi, Marco Sabbatini, Maurizio Palma di Cesnola. Alcuni dei partecipanti di allora, ritratti in questa vecchia fotografia, purtroppo non sono più tra noi, ma altri sono qui stasera a festeggiare Giovanni (Fig. 6). Al di là del rapporto tra colleghi, i nostri comuni anni ginevrini sono stati anche segnati da momenti più personali, da una solidarietà e un’amicizia più profonda. Gli episodi sono tanti, moltiplicati anche dalla vicinanza delle nostre abitazioni in quegli anni, Boulevard de la Cluse e Rue Dancet, ma mi piace ricordare un solo episodio, per me molto importante. Fu quando nel 1989 Giovanni Bardazzi, con sua moglie Pierangela, mi accompagnò nel viaggio verso una città dove dovevo tenere, a mia volta, una lezione di prova per un un concorso a cattedra. L’ambiente non era favorevole, la mia tensione era altissima, ma la presenza di Giovanni nelle ore immediatamente precedenti riuscì a darmi la forza di cui avevo bisogno per affrontare quella difficile prova. Se mi è permesso riprendere le parole usate da Carlo Dionisotti in una lettera del 17 dicembre 1989 a Giovanni Pozzi, quella con Giovanni Bardazzi è stata «una degna amicizia, buona per entrambi»,1 cresciuta negli anni e ancora oggi ricca di significato e di affetti. Grazie, Giovanni!

M. A. T.



  Immagini


Il testo che qui si pubblica è stato pronunciato all’Università di Ginevra il 3 ottobre 2018, durante la presentazione della Miscellanea di studi in onore di Giovanni Bardazzi (a cura di G. Fioroni e M. Sabbatini, Lecce, Pensa MultiMedia, 2018). Si è conservata la forma colloquiale e informale propria dell’occasione e della presentazione orale.