3, 2009
 
Saggi    
 
 Abstract


Maria Antonietta Terzoli

Dediche leopardiane III: opere in versi della giovinezza e della maturità (1818-1831) *



Una delle dediche leopardiane più note è quella a Vincenzo Monti delle prime due canzoni pubblicate da Leopardi, All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, uscite a Roma all'inizio del 1819, con data 1818: nota per il nome del dedicatario e per il significativo esordio del giovane poeta con un esplicito (a posteriori davvero singolare) rinvio a uno dei rappresentanti più illustri della poesia italiana di primo Ottocento, ormai nella fase discendente della sua gloriosa carriera. La prima menzione di questa dedica figura in una lettera a Pietro Giordani del 19 ottobre 1818, con la quale Leopardi gli invia il manoscritto delle canzoni chiedendogli di farsi tramite per l'autorizzazione: «Vedrete similmente ch'io dedico il libricciuolo al Monti. Vorrei che gli scriveste perchè me ne desse licenza. Io gli scriverò nel mandargli copia del libercoletto stampato che sarà».1 La richiesta è iterata il 27 dello stesso mese: «vi prego di nuovo che scriviate al Monti, avendo fatto copiare il libricciuolo e mandatolo a Roma, dove non lo farò pubblicare, se prima non saprò che m'abbiate impetrata la licenza che ho detto»; e ancora − in maniera allusiva − il 14 dicembre: «farò che aspettino a Roma tanto che voi mi abbiate risposto così circa questo particolare, come circa quello ch'io vi scrissi del Monti nell'ultima mia».2 L'intera vicenda, con la perdita del manoscritto e la decisione di stamparlo a Roma, è riassunta nella lettera del 25 dicembre, dove il giovane autore ribadisce la richiesta: il Ms. parimenti smarrito del quale vi parlava in una delle passate, era un piccolissimo libricciuolo ch'io vi pregava che faceste stampare a Piacenza o dove meglio vi fosse paruto, e siccome era dedicato al Monti, che m'otteneste licenza da lui di pubblicarlo così, che io gliene avrei scritto, stampato che fosse, nel mandargliene copia. La negligenza delle poste v'ha liberato dal fastidio del primo uffizio, ma non del secondo, perch'io ho fatto ricopiare il libricciuolo, l'ho mandato a Roma, dove credo che sia stampato, a cagione che, come vedete, è molto tempo che ve n'ho scritto. Ma in tutti i modi, non farò che si pubblichi, se prima non avrò risposta da voi su questo particolare del Monti. Vorrei ancora che mi diceste, se ottenendo la licenza che ho detto, conviene che gliene mandi copia p[er] la posta, o vero in qualche altro modo, e se una o più.3 La risposta del Giordani, in data 5 gennaio 1819, contiene una curiosa autorizzazione per quanto riguarda la dedica: «Circa il dedicarlo a Monti, non aspettate già la espressa licenza. Io gliene scrivo: ma so che senza alcun limite posso disporre di lui; onde avendo questa licenza da me, fate conto esser più che se l'aveste da lui stesso; nè perciò state a perder tempo».4 Proprio a questa anomala autorizzazione farà riferimento, con qualche impaccio (attenuando tra l'altro «esser più che» in «nello stesso modo»), lo stesso Leopardi, inviando il libretto al Monti il 12 febbraio 1819: Dirò solo che non volendomi arrischiare in nessuna maniera di porre il suo nome in fronte al mio libricciuolo senza sua licenza, scrissi al Giordani acciò con meno fastidio di V.S. me l'impetrasse scrivendole in mia vece. Ma smarrita la lettera [...] dopo molto tempo mi rispose che scriveva in questo proposito a V.S. ma fra tanto che io mi poteva fidare di far quello che avessi creduto, nello stesso modo che se avessi impetrato effettivamente il consenso ch'io domandava, e ch'egli considerando la bontà e l'amicizia di V.S. s'assicurava che non gli potesse mancare. Dopo di che, avendo atteso molti altri giorni, non ho avuto da lui nessun'altra risposta in questo particolare.5 Su questa lettera dovremo tornare. Ma vediamo ora da vicino la dedica, preceduta da un'intitolazione epigrafica, che esibisce in apertura il nome di entrambi: AL CHIARISSIMO
SIG. CAVALIERE VINCENZO MONTI
GIACOMO LEOPARDI.6
Segue una lunga parte epistolare, scritta interamente in corsivo secondo una pratica non infrequente in questo genere di testi. A una prima lettura la dedicatoria appare come una nobile lettera da discepolo a maestro, rivolta dal già agguerrito esordiente all'ultimo maestro delle generazioni precedenti. Quasi un simbolico passaggio di testimone tra diverse generazioni di poeti, citati insieme fin dall'intestazione. Il più giovane chiede il parere del più anziano, più importante di quello di ogni altro lettore: Di queste Canzoni, se eguaglino il soggetto [...], sarà giudizio non tanto dell'universale quanto vostro; giacchè [...], si può dire che nessuno scrittore italiano, se non altro, di quanti non ebbero la vista impedita né da scarsezza d'intelletto, né da presunzione e amore di se medesimi, stimò che valessero punto a rifarlo delle riprensioni vostre le lodi dell'altra gente, o lodato da voi riputò mal pagate le sue fatiche, o si curò de' biasimi o dello spregio del popolo. Dopo un'ulteriore richiesta di giudizio, «Di questo mio fatto, se sia stato coraggio o temerità, sentenzierete Voi, Signor Cavaliere, e altresì, quando vi paia da tanto, giudicherete della seconda Canzone»,7 la dedica si conclude con un'offerta esplicita, «la quale io v'offro umilmente e semplicemente insieme coll'altra», accompagnata da insistite dichiarazioni di modestia («mediocrità mia», «indegnità e miseria del donativo», «povera e vile», «vanità del dono», addirittura «dispregevole» come ultima parola) a cui si contrappone l'elogio intellettuale e umano del dedicatario («eccellenza del vostro ingegno», «dolcezza del cuor vostro», «benignità vostra»): Nè temo se non ch'altri mi vituperi e schernisca della indegnità e miseria del donativo; che quanto a Voi non ignoro che siccome l'eccellenza del vostro ingegno vi dimostrerà necessariamente a prima vista la qualità dell'offerta, così la dolcezza del cuor vostro vi sforzerà d'accettarla, per molto ch'ella sia povera e vile, e conoscendo la vanità del dono, a ogni modo procurerete di scusare la confidenza del donatore, forse anche vi sarà grato quello che non ostante la benignità vostra, vi converrà tenere per dispregevole.8 Tuttavia l'inizio della dedica, che chiarisce la ragione della scelta del dedicatario, pur ricorrendo a una consuetudine non rara, sembra alludere a una storia più complessa: «Quando mi risolsi di pubblicare queste Canzoni, come non mi sarei lasciato condurre da nessuna cosa del mondo a intitolarle a verun potente, così mi parve dolce e beato il consacrarle a Voi, Signor Cavaliere». Anzitutto rovescia, tre anni più tardi, l'attacco della dedica al cardinale Alessandro Mattei, voluta probabilmente da Monaldo («Il fregiare le opere proprie col nome di un personaggio illustre fù spesso orgoglio, interesse, costume. L'umiliare all'Em˜za v˜ra R˜ma questo mio componimento è rispetto amore riconoscenza»),9 dichiarando orgogliosamente, e mostrandolo concretamente con la diversa scelta, la raggiunta autonomia da ogni imposizione in materia. Questa lettura sembrerebbe confermata dal fatto che nella seconda versione della dedica al Monti, fortemente rimaneggiata nel 1824 per l'edizione bolognese delle dieci Canzoni, questo inizio − insieme programmatico e giustificatorio, che in negativo serba forse l'eco di contese familiari non più attuali − sarà eliminato a favore di un inizio più diretto e solenne nella sua assoluta semplicità, «Consacro a Voi, Signor Cavaliere queste Canzoni»,10 che richiama tra l'altro quello della dedica ad Andrea Mustoxidi («Dedico al merito e alla fama vostra questa mia piccola opera») e anticipa l'attacco di quella dei Canti del 1831, «Sia dedicato a voi questo libro».11 Tuttavia non è escluso che l'esordio della dedica al Monti entri in relazione diretta e antitetica con l'operato del dedicatario stesso, tra i più abili firmatari di dedicatorie a potenti protettori e mecenati.12 Significherebbe allora una correzione rilevante rispetto al comportamento dell'illustre predecessore, in direzione di un'assoluta autonomia morale della poesia e degli studi: da sottrarre sia ai ricatti affettivi e familiari sia alle pressioni e ai favori politici. La dedica del giovane Leopardi al vecchio Monti si configurerebbe allora come un'orgogliosa dichiarazione di intenti e di poetica: inviata a un poeta e lettore d'eccezione e, per questo tramite, a tutti i possibili lettori. Questa lettura trova conferma in alcuni elementi, tra loro correlati, che anche spiegano meglio la scelta del dedicatario, al di là della ragione esplicitamente dichiarata e a lui non esclusiva: Voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l'ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studi, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anco non si può dire che l'Italia sia morta.13 Occorre partire da lontano e notare anzitutto che la dedica riguarda in prima istanza la canzone All'Italia (qui intitolata Sull'Italia), di cui fornisce una mirata esegesi, e solo in seconda battuta l'altra canzone: «Voi, Signor Cavaliere, e altresì, quando vi paia da tanto, giudicherete della seconda Canzone, la quale io v'offro umilmente e semplicemente insieme coll'altra, acceso d'amore verso la povera Italia». Il componimento leopardiano si inserisce nella tradizione delle canzoni di ispirazione politica sulla decadenza italiana, almeno a partire da Italia mia di Petrarca, ma fa anche tesoro, come è stato mostrato, della grande lezione civile dei Sepolcri.14 Non so se il lontano Foscolo, ormai esule in Inghilterra, possa essere annoverato tra i pochissimi a cui si applica la reticenza di Leopardi («i quali tacendo non vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando»). Non è escluso. Ma certo accanto ai Sepolcri un altro modello − che non mi pare sia stato fin qui segnalato − appare ben presente all'autore di questa canzone. Si tratta della visione composta dal Monti nel 1805 per l'incoronazione di Napoleone a Re d'Italia, che va sotto il titolo vulgato di Beneficio ed ebbe una straordinaria diffusione in tutta la penisola.15 Non è questa la sede per analizzare in maniera capillare il rapporto tra i due testi: qui basti notare alcune consonanze accostando semplicemente i versi. La canzone leopardiana si apre sull'immagine dell'Italia derelitta e seduta per terra con le vesti squarciate sul petto:
        [...]      Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite, dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange
 
  (All'Italia, vv. 6-17).16  
È difficile non riconoscere in questa figura una somiglianza con la donna di forme alte e divine, ma umiliata e coperta di catene, descritta nella visione montiana:
    Una Donna di forme alte e divine,
Per lungo duolo attrita, e di squallore
Sparsa l'augusto venerando crine
 
        [...].  
    Era un sasso al bel fianco duro letto,
La sinistra alla gota; e scisso il manto
Scoprìa le piaghe dell'onesto petto.

  Insultavan superbe al suo gran pianto
Stranie Donne scettrate, e la strignea
Or questa or quella di catene, [...]
 
        [...].  
  E crescean strazio ed onta alla meschina.
Io le guardava, e d'ira il cor fremea.
 
  (Beneficio, vv. 1-15).17  
L'opposizione quasi tecnica tra «donna» e «ancella»,
  Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
 
  (All'Italia, vv. 24-27),18  
sembra memore dei versi di Monti, dove il termine «ancelle» era messo in bocca a un'Italia definita «donna» proprio nell'incipit («Una Donna di forme alte e divine», v. 1):
  Ma l'afflitta, che pur nella ruina
Delle prime fortune alma serbava
Sdegnosa, e dentro si sentía regina,
 
    − Ricordivi, lor disse (e il capo alzava),
Ricordivi, che tutte io v'ebbi ancelle
 
  (Beneficio, vv. 16-21).19  
Persino il grido di dolore con la menzione dei figli lontani,
  Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli
 
  (All'Italia, vv. 41-44),  
sembra riecheggiare la richiesta di aiuto rivolta dall'Italia ai suoi figli nella visione montiana:
    Poi le luci nel pianto ancor più belle
Girando ai figli, chi di voi m'aita?
Sclamava. E i figli forsennate e felle
 
    Volgean l'arme in se stessi  
  (Beneficio, vv. 22-25).20  
Anche il tema della caduta presente nei versi leopardiani, «Come cadesti o quando / Da tanta altezza in così basso loco?» (All'Italia, vv. 34-35), trovava già spazio nella visione: «dolorosi / Quei divi Spirti di sì gran caduta» (Beneficio, vv. 44-45).21 Se in Monti era evocato un antico poeta italiano, Dante, che pronunciava una lunga esortazione all'Italia (farcita di echi danteschi), in Leopardi è evocato un antico poeta greco, Simonide, che a sua volta intona il suo canto sulle tombe degli eroi caduti alle Termopili. Si potrebbe continuare, ma tanto basti a spiegare come mai la canzone Sulla Italia potesse essere indirizzata, come a lettore privilegiato, proprio al Monti. A questo punto non è senza interesse ricordare che la visione montiana era offerta, con ampia dedica, proprio a un «potente», niente meno che a Napoleone imperatore e re, al colmo della sua gloria.22 In tal senso la scelta stessa del dedicatario da parte di Leopardi (un poeta e non un potente), nel suo preciso scarto rispetto al modello, suona di nuovo come una sottile correzione di quell'illustre precedente: comprensibile al Monti ma probabilmente anche a molti suoi contemporanei. Questa possibile lettura della dedica leopardiana sembra confermata dal ringraziamento che Monti inviò a Leopardi il 20 febbraio 1819. La lettera, pur nella sua brevità e asciuttezza, va tutta a merito dello straordinario intenditore, che − nonostante l'irrimediabile differenza tra la propria poesia e quella del geniale esordiente − non mancava di coglierne non solo la straordinaria qualità attuale ma anche, con la sapienza del grande maestro, le potenzialità a venire: «Ben vi dico, che dell'onor fattomi vi ringrazio, e che il core mi gode nel veder sorgere nel nostro parnaso una stella: la quale se manda nel nascere tanta luce, che sarà nella sua maggiore ascensione?».23 Ma è certo degno di nota che la maggior parte della breve lettera riguardi proprio la inusuale scelta del dedicatario: Io le ho lette e rilette [le canzoni] con piacere incredibile; e non so vedervi altro difetto che l'averle voi intitolate a chi meno lo meritava. Lodo il nobile vostro proponimento di non intitolarle a verun potente: ma temo non vi torni a lode egualmente l'averle sacrificate a un meschino quale son io. Pel vero amore che i vostri talenti m'ispirano io desidero che niuno vi biasimi di questa tanta gentilezza e benevolenza. La dedica al Monti ha anche una forte funzione prefatoria rispetto al testo della canzone. Serve a mettere in primo piano, sotto forma di spiegazione ai lettori («non per Voi, ma per li più de' lettori, e domandandovi perdono di questo, ch'io mi fo coraggio e non mi vergogno di scriverlo a Voi»),24 l'evocazione di un antico poeta greco, Simonide di Ceo, a cui sono messi in bocca suoi frammenti superstiti e un canto − scritto in sua persona da Leopardi − rivolto agli eroi greci delle Termopili: Per la qual cosa dolendomi assai che il sovraddetto componimento fosse perduto, alla fine presi cuore di mettermi, come si dice, nei panni di Simonide, e così, quanto portava la mediocrità mia, rifare il suo canto, del quale non dubito di affermare, che se non fu maraviglioso, allora e la fama di Simonide fu vano rumore, e gli scritti consumati degnamente dal tempo. Il topos di modestia è riferito qui all'orgoglioso tentativo di comporre ex novo un canto splendido e perduto nella lontananza dei tempi, collegando così in maniera strettissima la propria poesia a quella dell'antico poeta. L'indicazione di questo rapporto è così importante che resta anche nelle edizioni successive all'interno dei Canti, dove della dedica è eliminata invece tutta la parte relativa all'offerta vera e propria. È stato notato come il modello di questo finale con una pseudo-citazione antica sia il Foscolo dei Sepolcri, che si chiudono nel nome di Omero, evocato da Cassandra in un canto rivolto, negli ultimi versi, a un eroe, Ettore, morto per la patria.25 Ma anche un altro elemento mi pare degno nota, perché tocca il sistema poetico stesso di Leopardi: il passaggio da un falso inno greco, l'Inno a Nettuno pubblicato nel 1817 − composto in italiano e indicato come traduzione (con tutto ciò che questo comporta) − che segnava la sua prima uscita pubblica,26 a un inno scritto dichiaratamente in persona di un antico poeta («mettermi, come si dice, nei panni di Simonide», «rifare il suo canto») e come tale presentato già nella dedica, per evitare che la cosa possa sfuggire: non al Monti (appunto), ma al «più de' lettori», come non manca di precisare l'autore («io significhi non per Voi, ma per li più de' lettori»).27 Quello esibito nella dedica è in effetti il tentativo di un recupero, o rifacimento, di frammenti antichi nella linea del più alto neoclassicismo, caricato però ormai di quel «furore onninamente indicibile e sovrumano» che l'autore attribuisce a Simonide. Il passo successivo di Leopardi poeta sarà scrivere in lingua italiana e moderna versi simili a quelli degli antichi poeti, utilizzando fonti greche e latine come elementi compositivi del tutto naturali all'interno della propria lirica: il ricorso sistematico alla tradizione greca e latina per fondare la moderna lirica italiana.28 È interessante accostare ora questa dedica alla lettera con cui Leopardi, il 12 febbraio 1819, inviava al Monti il libretto delle canzoni. La lettera reale − che si è già ricordata a proposito della richiesta di autorizzazione − appare tanto più impacciata e faticosa, e insieme tanto più topica nella sua formulazione di quanto non sia la dedica stampata in apertura. Basterà citarne qualche frammento per mostrare il ricorso insistito a elementi topici del genere dedicatorio, come l'abbassamento del dedicatario e dell'opera tramite l'aggettivo «piccolo» e l'uso dei diminutivi («mio libricciuolo», «l'offerta è la più piccola», «è uffizio di noi piccoli»), accompagnato dall'innalzamento del dedicatario («risplendano le virtù de' pari suoi») anche tramite il ricorso ai superlativi («loro nobilissime qualità»). La perorazione finale, riprendendo la dichiarazione di inadeguatezza («farò uso di quella stessa confidenza c'ho usata nel dedicarle cosa tanto sproporzionata alla dignità di V.S.»), moltiplica fin quasi al paradosso il topos di modestia riferito all'autore e quello dell'indegnità riferito all'offerta: Come presentemente, s'io le offrissi cosa degna di Lei, non avrebbe luogo a manifestarsi la sua benignità, la quale si dimostrerà splendidamente se V. S. non rifiuterà un dono così volgare d'un povero come son io. E tanto più s'Ella, quantunque povero, non si sdegnerà ch'io mi tenga per cosa sua, né mi vieterà di chiamarmi Suo Dev˜mo Obbl˜mo Servitore.29 Può essere produttivo confrontare la prima versione della dedica al Monti, che effettivamente accompagnò l'offerta delle due canzoni (dunque nel caso di una dedica il testo che più conta), con la successiva versione della stessa, pubblicata nel 1824, insieme con la ristampa delle canzoni stesse: riproposta perché così usa, come ricorda Leopardi in una lettera a Pietro Brighenti del 7 aprile 1820 («essendo una dedicatoria di un'altra edizione, e qui solamente ristampata come si costuma»).30 Non entrerò nel merito di un confronto che meriterebbe un saggio a parte: per le implicazioni culturali e poetiche legate alle correzioni introdotte tra il 1818 e il 1824, che comportano cambiamenti di giudizi e di prospettive a cui non resta estraneo il giudizio sul Monti stesso. Vale tuttavia la pena di notare alcune modifiche significative, oltre a quella dell'inizio che si è già indicata. Nella parte della dedica dove Leopardi dichiara il tentativo di comporre un canto simile a quello di Simonide, alcune precisazioni della seconda versione, mentre rendono esplicita la coscienza della perdita irreparabile del testo antico («non ch'io presumessi di riparare a questo danno»), sottolineano piuttosto la differenza che l'inferiorità del poeta moderno: da «quanto portava la mediocrità mia»31 si passa a «salva la disuguaglianza degl'ingegni». Soprattutto è interessante che quel testo sia ora indicato con il termine di «canzone», cioè con la stessa parola che definisce, tecnicamente, quello di Leopardi: riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza fossero perdute, non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell'animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl'ingegni, tornare a fare la sua canzone: della quale io porto questo parere, che o fosse meravigliosa, o la fama di Simonide fosse vana e gli scritti perissero con poca ingiuria. È una dichiarazione di notevole significato, riferita alla prima poesia pubblicata a suo nome da un autore che, molti anni più tardi, avrebbe chiuso la sua raccolta poetica − aperta sempre da quella canzone All'Italia − proprio con due frammenti tradotti da Simonide.32 Nella seconda versione si assiste inoltre a un deciso ridimensionamento delle formule di modestia. Alcune cadono del tutto: è il caso di «domandandovi perdono di questo, ch'io mi fo coraggio e non mi vergogno di scriverlo a Voi» e di «Nè temo se non ch'altri mi vituperi e schernisca della indegnità e miseria del donativo».33 Altre vengono modificate: «io v'offro umilmente e semplicemente» diventa «io v'offro [...] candidamente»; «per molto ch'ella sia povera e vile, e conoscendo la vanità del dono» è sostituito da «quantunque siate per conoscere al primo tratto la povertà del donativo»; «a ogni modo procurerete di scusare la confidenza del donatore, forse anche vi sarà grato quello che non ostante la benignità vostra, vi converrà tenere per dispregevole» è corretto in «m'assicuro che lo accetterete in buona parte, e forse anche l'avrete caro per pochissima o niuna stima che ne convenga fare al vostro giudizio».34 Quest'ultima correzione lascia al sostantivo «giudizio», invece che all'aggettivo «dispregevole», il compito di chiudere la dedica. Ma il valore del giudizio attribuito al Monti è severamente ridotto rispetto a quello della prima versione: l'esclusività («sarà giudizio non tanto dell'universale quanto vostro») lascia ormai il passo a un paritetico «mi rimetto del quanto e del come al giudizio vostro, non altrimenti ch'io faccia a quello dell'universale».35 Simmetricamente ne escono ridimensionati il giudizio e l'adesione emotiva dell'autore stesso nei confronti del destinatario: l'«eccellenza del vostro ingegno» e la «dolcezza del cuor vostro» della prima versione sono sostituiti dal più asciutto e sintetico «umanità dell'animo vostro».36 Tra la prima versione della dedica e la successiva, conservata per una sorta di scrupolo filologico ma fortemente modificata, il giudizio sul Monti è radicalmente mutato, come si può evincere anche dalla dedicatoria a Leonardo Trissino, di un anno e mezzo più tarda, della canzone Ad Angelo Mai, e come si ricava in maniera inequivocabile dalle pagine dello Zibaldone. Nei mesi precedenti la stesura della prima versione lo Zibaldone attesta in effetti un giudizio straordinariamente positivo, certo rafforzato dal contatto epistolare con il Giordani e dal soggiorno di quest'ultimo a Recanati nel settembre di quell'anno. In una pagina senza data, ma da collocare nel 1817, in ogni caso prima del gennaio 1818 (data di uscita sullo «Spettatore italiano» delle Osservazioni del Di Breme discusse nella pagina successiva), Leopardi sembra quasi anteporre Monti allo stesso Dante.37 È necessario citarne un ampio stralcio per rendere conto di quale emozione fosse legata alla decisione di aprire nel nome del Monti la propria carriera poetica: Nelle poesie del Monti (specialmente nelle Cantiche) sono osservabili la bellezza novità efficacia delle immagini, particolarmente sublimi, ma anche di ogni altro genere, la mollezza e dirò così sveltezza, agilità, disinvoltura dell'espressione; la gran felicità nell'esprimere cose e imagini difficilissime, la disinvolta e spedita nobiltà dello stile, e quella data colla scelta e collocamento delle parole (o coll'uno o l'altra separatamente) a cose e imagini per se stesse ignobili o quasi; la sublimità e grandezza delle imaginazioni fantastiche, la grazia e forza del dipingere, la facilità e felicità di certe rime disparatissime, [...] l'efficacia di molte espressioni acquistata colla novità ec. ec. le quali cose tutte fanno uno stile suo proprio, elegante, [...] efficace, nobile, proprio, e un genere di poesia che si può dire originale, avendo molte tinte che non si vedono in quello di Dante sempre più feroce, e quanto allo stile, di rado così molle e pieghevole e armonioso e disinvolto e grazioso e anche delicato.38 Solo una ventina di pagine più avanti si legge invece una durissima requisitoria contro lo stesso Monti, che sembra opporsi in maniera sistematica a tutti i motivi di elogio evocati in precedenza − novità, originalità, sublimità e grandezza − rovesciando puntualmente tutte le argomentazioni: Nel Monti è pregiabiliss. e si può dire originale e sua propria la volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa, o dignitosa grazia del verso, e tutte queste proprietà parimenti nelle immagini, alle quali aggiungete scelta felice, evidenza, scolpitezza ec. [...]. Ma tutto quello che spetta all'anima al fuoco all'affetto all'impeto vero e profondo sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun modo, e ogni volta che o per iscelta come nel Bardo, o per necessità e incidenza come nella Basvilliana è portato ad esprimere cose affettuose, è così manifesta la freddezza del suo cuore che non vale punto a celarla l'elaboratezza del suo stile e della sua composizione anche nei luoghi ch'io dico, nei quali pure egli va bene spesso anzi per l'ordinario con ributtante freddezza e aridità in traccia di luoghi di classici greci e latini, di espressioni di concetti di movimenti classici per esprimerli elegantemente lasciando con ciò freddissimo l'uditore.39 Giuseppe Pacella nella sua preziosa edizione dello Zibaldone ritiene questa pagina quasi contemporanea alla prima versione della dedica, notandone la forte differenza: «severa condanna della poesia e dell'arte del Monti, al quale Leopardi indirizzava, quasi nello stesso tempo in cui scrisse questo pensiero, le due canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, con una Dedicatoria piena di elogi».40 In realtà mi pare che questa pagina dello Zibaldone sia da ritenere di vari mesi più tarda e possa spiegare proprio le notevoli rettifiche introdotte nella seconda versione della dedica. La nota sul Monti risulta in effetti sicuramente posteriore non solo al dicembre 1818 − data di note registrate varie pagine prima − ma addirittura alla metà di febbraio del 1819, perché si trova in una pagina successiva a quelle in cui Leopardi commenta un'opera (la Medicina di Celso), letta appunto in quel mese, come si ricava da una lettera al Giordani del 12 febbraio 1819.41 Si potrebbe anche supporre che questa dura critica al Monti sia da collocare nel momento della grave crisi della primavera 1819 e del fallito tentativo di fuga da Recanati, che corrisponde anche a un deciso cambiamento ideologico e poetico del giovane Leopardi. In ogni caso quella presa di distanza non è contemporanea alla prima versione della dedica, già scritta prima del 19 ottobre 1818, data in cui Leopardi, come si è visto, inviava al Giordani il fascicoletto con le canzoni e con la dedica chiedendogli di farlo stampare.42 Di pochi mesi successivi è la dedica, sempre in forma epistolare, della canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale indirizzata alla protagonista stessa della poesia e destinata alle tre canzoni inviate a Pietro Brighenti il 4 febbraio 1820 perché le facesse stampare a Bologna (Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, Ad Angelo Mai e Per una donna inferma).43 Da un'altra lettera allo stesso destinatario, del 17 marzo 1820, si ricava che la dedica era stata poi riferita alla sola terza canzone nel momento in cui l'autore aveva accettato di pubblicare, insieme con le tre inedite, anche le due edite (All'Italia e Sopra il monumento di Dante), già offerte, come si è visto, al Monti: «Desidererei ancora che a pagg. 43. dove si legge, non voglio che queste Canzoni sieno intitolate ad altri che a voi; Ella si compiacesse di scrivere in vece così, voglio che questa Canzone vi sia dedicata in maniera anche più speciale».44 L'edizione anche in questra forma fu tuttavia tenacemente osteggiata da Monaldo, segretamente informato dallo stesso Brighenti a cui Leopardi si rivolgeva come a persona fidata. Quando Giacomo, esasperato e impotente di fronte alla censura paterna, decise di pubblicare soltanto la canzone Ad Angelo Mai sacrificando le altre due, anche la dedica − strettamente collegata a una delle canzoni escluse − rimase inedita. L'intitolazione recita «A quella di cui parla questa Canzone», con una formulazione che è insieme criptica (il nome della donna è taciuto) e definitoria di una dedicataria molto particolare, protagonista dell'opera offerta e insieme evocata come lettrice imprevista e privilegiata: «Dov'io piangendovi sconsolatamente come meno che morta, potete pensare se giudicassi di dovervi mai leggere questi miei lamenti, e parlare seco voi di quelle angosce, e di quei presso ch'estremi saluti, e di quelle amarissime lagrime mie».45 La dedicataria, salvata da un pericolo mortale, appare qui come la riprova vivente di una volontà superiore, i cui interventi nella vita umana superano ogni possibile congettura. L'attacco sembra avvicinare la dedica a un testo di meditazione religiosa, aperto nel nome di un Dio che nel suo imperscrutabile volere sovrasta e cambia ogni umana previsione: Poi ch'è piaciuto a Dio consapevole del nostro dolore, di concedervi la memoria di quella calamità che secondo ogni giudizio parea l'ultima di vostra vita, e, contro ogni speranza umana restituirvi al pianto de' vostri e alla disperazione mia, voglio che questa Canzone vi sia dedicata in maniera anche più speciale.46 A questo inizio, dominato da un lessico religioso quasi tecnico − «è piaciuto a Dio», «nostro dolore», «calamità», «ultima di vostra vita», «contro ogni speranza umana» − corrisponde una conclusione dove il tema della vanità dell'esistenza si declina nei termini di una vanitas vanitatum di sapore devozionale, fino all'evocazione di una preghiera per la donna inopinatamente salvata, rivolta a Dio dall'autore e dai suoi lettori: Queste cose le ho volute scrivere in questo luogo acciocchè se mai qualcheduno, leggendo il mio povero canto, si fosse doluto con me della morte che vi sovrastava, debba anche venire a parte della contentezza che ho provata e provo ora che Dio v'ha salvata. E sgombrandosegli il cuore in un punto, e salutandovi con tutto lo spirito come dolcissima cosa perduta e pianta, e improvvisamente recuperata, vi preghi da Dio, com'io fo, in compenso delle sventure passate, la perpetua gioventù del cuore, e di quegl'indicibili affetti che soli confortano e ricuoprono quest'acerbissima nullità delle cose. Il livello stilistico sembra adeguarsi alla solennità di un ringraziamento all'Onnipotente: con una sintassi complicata dall'uso di un doppio gerundio in apertura di frase («E sgombrandosegli il cuore in un punto, e salutandovi») e da un'insistita ricorrenza di polisillabi («qualcheduno», «sovrastava», «contentezza», «dolcissima», «improvvisamente recuperata», «confortano e ricuoprono», «acerbissima»). In questo contesto anche la «perpetua gioventù del cuore» sembrerebbe da ascrivere a un lessico di tipo religioso. Si noti che nella dedica appare rovesciato, per imperscrutabile volontà divina, il tema stesso della canzone (malattia mortale vs guarigione) e l'unico topos di modestia, riferito all'opera offerta («il mio povero canto»), suona come abbassamento non tanto rispetto alla dedicataria, quanto rispetto a un'entità infinitamente superiore che domina ogni umano destino. È questo, mi pare, un testo straordinariamente prezioso, perché vi si coglie in maniera molto evidente − come non accadrà più nel séguito − la matrice religiosa e l'originaria componente devozionale del sentimento leopardiano della vanitas e del nulla. La successiva dedica di componimenti in versi è quella di forte ispirazione civile premessa alla prima edizione della canzone Ad Angelo Mai (1820) e riproposta con varianti nell'edizione delle Canzoni del 1824, prima della canzone stessa.47 È indirizzata al conte Leonardo Trissino, nato a Vicenza nel 1780 e ivi morto nel 1841, generoso protettore di artisti e letterati, con il quale Leopardi entrò in contatto nella primavera del 1819 tramite il Giordani.48 Nelle edizioni all'interno dei Canti (1831, 1835 e 1845) ne saranno conservate solo alcune parti.49 Anche per questa dedica, come per quella al Monti, conta soprattutto la prima versione, pubblicata quando il testo aveva un preciso valore funzionale, e non la successiva, rivista più tardi dall'autore e riproposta per scrupolo filologico. Tanto più che l'ultima lettera nota tra Leopardi e Trissino è del 19 febbraio 1821, dunque precedente di ben tre anni la seconda versione. La dedica è legata, per quanto riguarda la genesi e in certo senso l'anomalia rispetto alle consuetudini, a quella indirizzata alla protagonista della canzone Per una donna inferma. Converrà dunque tenere ancora presente la vicenda, ricordata sopra, che portò infine alla stampa della sola canzone Ad Angelo Mai. L'anomalia riguarda anzitutto il mancato rispetto di una prassi vincolante nelle dedicatorie di Antico Regime e osservata ancora almeno fino a tutta la prima metà dell'Ottocento: la richiesta preliminare di consenso al dedicatario. Lo si deduce dallo stupore manifestato da quest'ultimo in una lettera del 28 luglio 1820, successiva alla tiratura del libretto: In questo stesso momento ho ricevuto una lettera del Signor Pietro Brighenti. Ella intende, Signor Conte, cosa si sa da me presentemente. Credo con difficoltà, ch'Ella possa persuadersi di quanto confuso e maravigliato mi trovo. Nessuna espressione mia basterebbe a dirlo. [...] Di un tanto dono non meritato per niente sarebbe delitto anche un po' di compiacenza. Che mi resta dunque? Di essere grato senza fine. Lo sarò esattamente.50 Lo conferma anche una dichiarazione esplicita dello stesso Leopardi, nella lettera del 31 luglio: «Forse oramai le saranno giunti o staranno per giungere da Bologna alcuni esemplari a stampa di una mia canzone intitolata a V.S. Se il nostro commercio epistolare non fosse tanto difficile per la negligenza de' mezzi, non mi sarei mai deliberato a stampare il suo nome senza suo beneplacito espresso».51 L'infrazione è tanto più significativa se comparata all'insistita richiesta, attestata dall'epistolario, per la dedica di pochi mesi prima al Monti. La mancata richiesta al Trissino, per la quale Leopardi adduce ragioni pratiche di difficile comunicazione postale, comporta però una rottura delle convenzioni, e a mio parere ha motivazioni più complesse. Come si è anticipato, in un primo tempo la canzone Ad Angelo Mai, priva di dedica specifica, avrebbe dovuto essere stampata insieme con altre due canzoni (Nella morte di una donna e Per una donna inferma), offerte tutte insieme alla protagonista dell'ultima. Il 7 aprile 1820, nell'eventualità già ricordata di una pubblicazione con cinque canzoni (tre inedite e due edite) e persino con una dedica dello stampatore la cui «bassezza» ricadesse però solo su di lui («io non troverei difficoltà di accordargliene il diritto, quando 1. la bassezza ricadesse tutta sopra di lui, vale a dire la dedica fosse fatta intieramente a suo nome, 2. non pregiudicasse alle mie prose»),52 la dedica al Trissino non è ancora menzionata e con ogni evidenza non ne esiste neppure il progetto, dal momento che si parla solo di due prose, la dedica al Monti e quella alla donna protagonista dell'ultima canzone. Leopardi precisa anche che la prima «non può fare ostacolo, essendo una dedicatoria di un'altra edizione, e qui solamente ristampata come si costuma», e la seconda non interferirebbe con quella dello stampatore perché riferita ormai solo alla canzone direttamente implicata, dopo la correzione indicata nella lettera già menzionata del 17 marzo: «essendo una dedica particolare dell'ultima canzone (secondo la correzione ch'io le raccomandai nell'ultima mia 17. p.p.) fatta dall'autore e non dallo stampatore, anzi come una lettera d'accompagnamento». Nella lettera del 28 aprile, con amaro sarcasmo, Giacomo comunica infine al Brighenti la decisione di non pubblicare nessuna delle canzoni, né quelle contestate dal padre, né quelle autorizzate:«Restano due canzoni [Ad Angelo Mai e Per una donna inferma]. Per queste, per cui finalmente e a caso tocca a parlare a me, dico che non occorre incomodare gli stampatori, e così finisca quest'affare, e la noia che le avrò recata».53 Si può dunque ipotizzare che la dedica al Trissino fu scritta di getto tra il 17 maggio − data della lettera in cui il Brighenti si dichiara dispiaciuto della rinuncia alla pubblicazione − e il 26 maggio 1820, data dell'invio della dedica stessa per la stampa esclusiva della canzone Ad Angelo Mai: «Rimane ch'io stampi col mio denaro la Canzone al Mai, e per questo motivo la prego ragguagliarmi della spesa occorrente per pubblicarla nella forma e condizioni già convenute per le altre, con premettervi la Lettera che le accludo».54 L'ipotesi che questa dedicatoria sia nata tardi, in un impeto di rivolta contro la difficile situazione creata dalla censura paterna e dall'ambiguo ruolo svolto dal Brighenti, è confermata anche dal fatto che, contro le consuetudini, l'autore offre ad altro destinatario un testo già indirizzato a una persona reale e vivente (e non a un'entità astratta) con un titolo dedicatorio ben circostanziato: «Ad Angelo Mai, / quand'ebbe trovato i libri di Cicerone / Della Repubblica».55 È interessante notare che, pur nel diverso e più ridotto progetto di stampa, la nuova dedica − rivolta a un dedicatario maschile invece che a quello femminile originariamente previsto − conserva tuttavia, come un'eco di quella prima forma, il carattere di «lettera d'accompagnamento» sottolineato dall'autore per quel testo. La dedica al Trissino, molto breve e in forma epistolare, è una delle ultime di Leopardi, la penultima se si esclude quella epigrafica e latina al Niebuhr di incerta datazione (forse del 1825, analizzata nella seconda parte di questo studio),56 ed è decisamente anomala: diversissima da quella rivolta al Monti meno di due anni prima, benché ad essa collegata per alcuni aspetti, ma diversa anche da quella Agli amici suoi di Toscana, che nel 1831 aprirà la prima edizione dei Canti. Piuttosto che come dedica, questo testo si configura in effetti come epistola, lettera d'invio tra interlocutori di pari grado, uniti da un'ideale complicità di passioni intellettuali e artistiche, indicati − come già in quella al Mustoxidi − dai pronomi personali Voi / Io. L'intestazione epigrafica, giacomo leopardi
al conte
LEONARDO TRISSINO,
con il nome del dedicante in prima posizione, appare più vicina a quella di una lettera piuttosto che a quella di una dedica, dove il dedicante, quando compare, figura solitamente in seconda posizione. Così accade del resto in altre dediche di Leopardi: oltre a quella al Monti appena vista, basti ricordare quelle (pure analizzate nella seconda parte di questo studio) ad Andrea Mustoxidi, al chiarissimo signore andrea mustoxidi
giacomo leopardi,
e ad Angelo Mai: al chiarissimo sig. dott. angelo mai, scrittore
di lingue orientali nella biblioteca ambrogiana
giacomo leopardi.57
Nella dedica al Trissino non sono rispettate neppure altre convenzioni della prassi dedicatoria: manca, per esempio, sia l'elogio del dedicatario sia l'abbassamento del dedicante. Lo stesso topos di modestia − ridotto a semplice restrizione di quantità − è relegato nell'unica frase che indica l'offerta dell'opera, espressa per giunta in forma imperativa e non, come di consueto, ottativa con il verbo al congiuntivo o con perifrasi di cortesia: «E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando».58 Anche «mando», invece di «dono», «offro», «consacro», «dedico», trasforma l'offerta in una sorta di invio poetico tra pari. La rottura del codice è così forte che Leopardi sente il bisogno di scusarsene con il Trissino in una lettera del 31 luglio 1820: «Oltracciò V.S. mi dovrà perdonare se nella dedica l'ho trattata con quella certa familiarità che s'usa nelle lettere, alle quali non par che s'adattino le cerimonie che richiede il commerzio civile».59 In effetti risponde di più alle convenzioni questa lettera privata, che è quasi un autocommento e insieme essa stessa una sorta di dedica: ben più topica nel lessico, nelle formule di offerta e di congedo, nell'uso dei superlativi e nell'insistito appellativo «Vostra Signoria» in luogo del paritario «Voi»: Ma stante queste difficoltà, e considerando l'infinita gentilezza e l'affetto dimostratomi in altre occasioni da V.S., ho preso confidenza, e sperato che V.S. mi perdonerebbe tanto la libertà quanto la piccolezza del dono. [...] Torno a raccomandarmi alla benignità di V.S. perch'Ella mi perdoni, e non si voglia chiamare offesa della mia franchezza; e se giudicherà di riprendermi, lo faccia, ch'io mi pentirò dell'ardire, ma confiderò che V.S. non m'abbia privato per questo della sua benevolenza, nè lasciato di tenermi per suo
Dev˜mo Obbl˜mo Servitore
Giacomo Leopardi.
Sembrerebbe quasi che nel giovane Leopardi la rottura in pubblico delle convenzioni del genere dedicatorio, a lui perfettamente noto e sperimentato in molteplici variazioni fin dalle scritture infantili, richiedesse in privato una sorta di compenso: con una domanda, letterale, di perdono e di eventuale riprensione («ella mi perdoni», «se giudicherà di riprendermi», «io mi pentirò»), e con una riscrittura, quasi in forma di palinodia, della dedica stessa. Timori e scuse ulteriori per l'eccessiva familiarità della dedica (attribuita curiosamente a una pretesa legittimazione 'letteraria') tornano del resto anche in altre lettere di Leopardi, come per esempio in quella del 28 agosto 1820 al Brighenti: Ma bisogna che io vi confidi un timore che mi passa per la mente. Nella Dedica io trattai quell'ottimo Signore, con una certa familiarità che par si costumi nelle cose letterarie. La sua de' 28 Luglio era piena di estrema gentilezza. Ma egli non aveva ancora ricevuto il mio libretto. Mi affanna il pensare che vedutolo, egli possa aver trovata eccessiva la mia confidenza. Gli domandai già perdono scrivendogli, e torno a scrivergli. Ma poichè facilmente la mia lettera andrà smarrita, fatemi il favore d'informarlo di questi miei sentimenti, e domandategli perdono in mio nome.60 E in un'altra dello stesso giorno al Trissino, oltre alla richiesta di perdono, con il rinvio alla lettera precedente, ricompaiono di nuovo topoi e consuetudini della pratica dedicatoria: Neanche m'accerto che le sia stata renduta la mia de' 31 dello stesso [luglio], nella quale domandava perdono a V.S. tanto della presunzione avuta di stampare il suo nome in fronte a così piccola cosa, quanto della familiarità usata nella lettera Dedicatoria. Riconosco dalla benignità di V.S. che m'abbia voluto scrivere in modo come se la mia confidenza fosse piuttosto degna di ringraziamento, che bisognosa di perdono. Ma ora ch'Ella ha veduto il mio libricciuolo, temo forte che non mi condanni di troppo ardire, e d'essermi abusato della libertà che si concede nelle cose letterarie. V.S. si compiaccia di perdonarmi o di riprendermi.61 Il Trissino vedrà l'opuscolo − proibito in tutto il Lombardo-Veneto anche per intervento del Brighenti che era un informatore segreto della polizia austriaca − solo a fine settembre e commenterà la dedica in una lettera del 29 settembre 1820, riprendendo quell'ideale dialogo con il giovane poeta e formulando su di lui un giudizio che, nel suo impaccio espressivo, ha però i toni di un'impressionante chiaroveggenza: Signor Conte, è vero, ho detto, che chi dirà di questi giorni non potrà encomiarci che nelle lettere e nelle scolture; e io avea l'occhio alle cose sue e di Canova; e sempre più ho ragione di confermarmi nella mia sentenza. Le lagnanze, che da Lei si fanno, che perduta sia qualunque speranza di potere immaginare novellamente, e che più non si sappia nè di affetto, nè di eloquenza, non troveranno maggiori obbiezioni che nelle stesse scritture sue.62 Nonostante la sua genesi tarda, successiva di vari mesi alla stesura della canzone, e la sua accidentalità in certo modo non prevista, la dedica al Trissino entra tuttavia in stretto rapporto tematico e formale con il testo che offre e sembra quasi continuare − in un registro di alto respiro retorico e stilistico − l'ideale conversazione con i grandi Italiani messa in atto nella canzone: quasi un'ultima strofa in prosa dopo le dodici in versi. Vediamola da vicino, trascrivendola interamente qui di séguito: Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de' nostri tempi non darà lode agl'italiani altro che nelle lettere e nelle scolture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io non vedo in che pregio ne dovremo esser tenuti dai posteri, considerando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia, ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza. E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch'ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che 'l pianger giova. Io non posso dir questo, perchè il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna.63 Si noti anzitutto l'elaborato tessuto formale di questa concentratissima scrittura, in un unico ampio paragrafo, dove a volte le frasi sono costituite da una successione di versi veri e propri, o suggellate da perfette clausole versali: «maggiori volse l'animo alla gloria» è un endecasillabo (con accenti di 4a, 6a, 8a e 10a), e presenta la stessa scansione ritmica dell'ultimo verso di una delle canzoni funebri («Che nostro male o nostro ben si cura», Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, v. 109);64 «E voi non isdegnate questi pochi / versi ch'io vi mando» è un endecasillabo più senario. La chiusa, di stile sublime, è modulata su un settenario, tre ottonari (il primo tronco) e un novenario: «Io non posso dir questo, / perchè il piangere non è / inclinazione mia propria, / ma necessità de' tempi / e volere della fortuna». Andrà notata inoltre l'elaboratissima frase «ed è secca ogni vena / di affetto e di vera eloquenza», costituita da settenario più endecasillabo (quest'ultimo con accenti di 4a, 6a e 10a; e doppia dialefe tra 3a e 4a, e tra 7a e 8a), e complicata dal legame paronomastico tra il sostantivo «vena» e l'aggettivo «vera». È probabile eco da RVF ccxcii, vv. 13-14, «secca è la vena de l'usato ingegno, / et la cetera mia rivolta in pianto»,65 con il recupero, più avanti, della parola «ingegno» e del tema del pianto, che con citazione di dichiarata ascendenza petrarchesca («Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che 'l pianger giova») chiude di nuovo il periodo con un endecasillabo, entrando anche in relazione con i versi della canzone riferiti al Petrarca:
    [...]  o sfortunato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
L'italo canto. E pur men grava e morde
Il mal che n'addolora
Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto!
 
  (Ad Angelo Mai, vv. 68-73). 66  
Anche la costruzione retorica della dedica presenta rigorose simmetrie. È notevole in particolare quella che, attraverso l'intero testo, articola il rapporto tra i due interlocutori (voi / io) collocati nella prima e nell'ultima frase («Voi per animarmi», «Io non posso»), all'estremo di un'esatta costruzione speculare, che coinvolge le due frasi avversative aperte dal Ma («Ma eziandio nelle lettere», «Ma ricordatevi»), e si riproduce chiasticamente a partire dalla congiunzione E (che apre una frase verso la metà: «E contuttociò quello che»), costituendo così una sorta di chiasmo logico e sintattico con calcolate variazioni interne («e io non vedo», «E voi non isdegnate»): Voi − Ma − e io non − E − E Voi non − Ma − Io. La parola «lettere», tema centrale e unica possibilità di gloria rimasta agli Italiani contemporanei, è ripetuta ben tre volte nella breve prosa; l'altra parola ripetuta è «fortuna», nel senso classico e cinquecentesco di "sorte, destino", che anche chiude il testo: entrambe torneranno nella dedica dei Canti del 1831. Come ricorda Leopardi nella lettera già citata del 31 luglio 1820 («V.S. s'accorgerà che nel principio della dedica ho adoperato un sentimento che V.S. mi significava nell'ultima sua»), l'inizio rinvia a una lettera del Trissino stesso: Che sono a questo momento, rispettabilissimo Signor Conte, i profondi suoi studj? E quai doni promette Ella a chi ha tutto il diritto di aspettarne da Lei? E quanto dovranno essere aspettati? Si ricordi, che della Italia presente la storia non potrà far discorso che di sculture, e di un po' di lettere. Queste sperano in Lei fortemente: guai se fossero tradite.67 Ma la puntuale esortazione, affidata a una lettera privata, è trasformata da Leopardi in una sorta di esortazione atemporale quasi da dialogo morale («mi solete ricordare»), colloquio ideale, rafforzato dalla patina cinquecentesca − forse anche in omaggio al nome del destinatario − di alcune parole e locuzioni come «scolture» (in questa forma costante nella trattatistica artistica di Quattro e Cinquecento; poi corretta per l'edizione del 1824 delle Canzoni nella più classica forma «sculture»), «tributari», «eziandio», «contuttociò», «quanto portano le nostre forze».68 Nella frase che segue il lamento sulla perdita dell'immaginazione, «la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia, ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza», rinvia anzitutto a quello, anche più radicale, che nei versi della canzone riguarda l'umanità intera, ormai lontana dalla sua fanciullezza:
    [...]  A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar; da te s'apparta
Nostra mente in eterno
 
  (Ad Angelo Mai, vv. 100-103). 69  
Il lamento sembra poi investire tutta la letteratura italiana contemporanea, benché la facoltà dell'immaginare, seppur in maniera restrittiva, sia ancora parzialmente riconosciuta al Monti e all'Arici in una pagina dello Zibaldone dell'8 marzo 1821: «tutte le opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, nell'Arici. Ma oltre che questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena».70 Non è escluso anzi che il giudizio negativo espresso nella dedica si riferisca − come al più emblematico rappresentante di quella letteratura − proprio al Monti, per il quale Leopardi di lì a poco, il 20 settembre 1823, utilizzerà parole molto simili: «Nel sentimento poi la vena del Monti è al tutto secca, e provandocisi, il che fa ben di rado, non ci riesce punto».71 Tanto più che sembra riprendere, con ulteriore restrizione, le considerazioni, già ricordate, affidate alla dedicatoria delle canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante: Stante che oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, [...] sostenete l'ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studi, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'Italia sia morta.72 In tal senso la dedica al Trissino si configura quasi come una correzione retrospettiva e pubblica, benché criptica, dell'entusiastico elogio rivolto al Monti meno di due anni prima, e già corretto, come si è visto, nella dura requisitoria affidata dello Zibaldone nella primavera del 1819. Nella frase centrale della dedica è collocata la dichiarazione della differenza irrimediabile tra antichi e moderni, che prolunga e quasi commenta i vv. 40-42 della canzone («al vostro sangue è scherno / E d'opra e di parola / Ogni valor»): E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria.73 La coppia dilettare / giovare è cara a Leopardi, che la userà per esempio, riferita alla sola letteratura, in un altro testo liminare e programmatico, l'avviso Ai lettori della Crestomazia della prosa uscita nel 1827: «il proposito mio è stato che questa Crestomazia, non solo giovasse, ma dilettasse; e che dilettasse e giovasse, non solo ai giovani, ma anche agli uomini fatti».74 La frase potrebbe essere anche la variazione di una frase della dedica Alla Libertà del trattato alfieriano Della Tirannide: «io, che per nessun'altra cagione scriveva, se non perché i tristi tempi mi vietavan di fare».75 Soprattutto si rivela una forte ripresa foscoliana, sia dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove più volte ricorre la tematica dello scrivere come unica possibilità in tempi nei quali non è consentito l'agire, sia dalle Poesie: opere entrambe ben presenti a Leopardi proprio in quei mesi, se un'edizione del 1819 delle Poesie foscoliane è richiesta al Brighenti in una lettera del 17 luglio 1820, e l'Ortis è menzionato come modello compositivo negli Abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno del 1819.76 Dell'Ortis si può ricordare in particolare la lettera del 23 dicembre: «quando i tempi vietandogli d'operare, non gli lasciano che lo scrivere», e quella del 4 dicembre che narra l'incontro col Parini: «Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la forza, perchè almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? [...] Se avete le braccia in catene [...]. Scrivete. [...] Scrivete a quei che verranno».77 Per le Poesie va ricordato proprio l'ultimo sonetto, Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, che si chiude con i versi: «A chi altamente oprar non è concesso / Fama tentino almen libere carte» (vv. 13-14), ripreso tra l'altro al v. 196 della canzone Sopra il monumento di Dante («Che stai? levati e parti»).78 A conferma della matrice foscoliana di questa frase, si noti che ben cinque parole di notevole peso semantico − «lettere», «ingegno», «animo», «fortuna», «gloria» (quest'ultima in fine di periodo come in Leopardi) − si leggevano già nella dedica delle Poesie a Giovan Battista Niccolini. Era una dedica che per tante ragioni non doveva lasciar indifferente il giovane Leopardi e che lascerà qualche traccia anche in quella dei Canti: A te, giovinetto di belle speranze, io dedico questi versi: [...]. Ti saranno bensì monumento della nostra amicizia, e sprone, ad onta delle tue disavventure, alle lettere, veggendo che tu sei caro a chi le coltiva, forse con debole ingegno, ma con generoso animo. E la sola amicizia può vendicare gli oltraggi della fortuna, e guidare senza adulazione gl'ingegni sorgenti alla gloria.79 L'ultima dedica leopardiana è quella Agli amici suoi di Toscana, premessa alla prima edizione dei Canti, uscita a Firenze nel 1831. È anticipata da un'intestazione epigrafica, collocata sulla pagina dispari precedente, che mette subito in evidenza anche graficamente, con un carattere più grande e marcato, il motivo principale dell'offerta e definisce la collettività a cui è rivolta, senza menzionare nessun nome in particolare: AGLI AMICI SUOI
di Toscana.
Sul verso della pagina figura un'epigrafe petrarchesca, di uso fortunato in contesti di amori infelici e in tal senso già impiegata da Rousseau nella Nouvelle Héloïse e da Foscolo nel primo Ortis, dove figura addirittura come una delle possibili citazioni incise sul cipresso presso il quale è sepolto il protagonista:
  La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.
 
  petrarca.80  
Anche in Leopardi, come già notava Peruzzi, questa epigrafe ha quasi valore di epitaffio, e sembra anticipare la dichiarazione di Tristano nel Dialogo di Tristano e di un amico, composto a Firenze nel 1832: «così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita».81 La dedica vera e propria è di nuovo aperta da un'intestazione emotivamente carica, che reitera l'indicazione dei dedicatari, «Amici miei cari,», addirittura seguita dalla virgola: a sottolineare anche formalmente il carattere epistolare del testo, quasi lettera affettuosa e privata. A questo contribuisce anche la data che la precede, «Firenze 15 Dicembre 1830.», e la firma che la chiude «Il vostro Leopardi.». Vale la pena di trascriverla qui per intero:   Amici miei cari, Firenze 15 dicembre 1830. Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il vostro Leopardi. Sul piano stilistico è notevole anzitutto l'iterazione di alcune parole di particolare peso semantico: «infermità» ripetuta due volte, «cari», «beni» / «bene», «studi» tre, «tutto» / «tutti» quattro. A questo si aggiunge la ripetizione di sintagmi e costruzioni simili, rafforzate dal parallelismo e riprese con minime variazioni: «Amici miei cari» / «miei cari amici»; «io cercava, come si cerca», «dalle lettere e dagli studi»; «di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni»; «avere acquistato un bene» / «ho acquistato voi»; «da nessuna forza, da nessuna sventura»; «mi fosse tolto» / «mi è stato tolto del tutto», «privandomi» / «mi priverà»; «in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza». L'avverbio «non» scandisce infine l'intero testo con un'iterazione ossessiva, di ben otto occorrenze, una delle quali di particolare peso perché collocata in apertura di frase: «Non mi so più dolere». L'inizio pur formulare, «Sia dedicato a voi questo libro», è però trasformato dall'uso del verbo al passivo e privato di ogni segnale di modestia: si dedica un «libro», non un «piccolo libro», tanto meno un «libretto» o un'«operetta». Manca inoltre ogni forma di abbassamento del dedicante e di innalzamento dei dedicatari: definiti proprio e solo sulla scorta di un rapporto di amicizia e di amore, che appare decisamente più importante dell'indicazione di nomi e titoli di qualunque genere. I pronomi e gli aggettivi di prima persona dominano fin dalla prima frase: «io» è ripetuto cinque volte, «miei» / «mia» / «mio» otto, «mi» tredici (una delle quali quasi pleonastica: «mi rimarrà tuttavia, e mi durerà»). A questo corrisponde, ma in misura decisamente inferiore, l'iterazione di pronomi e aggettivi di seconda persona: «voi» e «vostra» / «vostro» ripetuti rispettivamente due e tre volte. In questa sublime altezza del dolore e dell'amicizia sembra non esserci più posto per nessuna formula inerte. Nelle mani di Leopardi si sono consumate, purificate al calor bianco della poesia e del dolore, la retorica e l'enfasi pur così resistenti e tenaci nei testi di dedica: anche quelle alle quali egli stesso, appena dodici anni prima, ancora ricorreva nell'offrire le sue prime canzoni a Vincenzo Monti. Nella lettera che apre i Canti del 1831 resta ormai solo una parola assoluta, pronunciata per un fermo commiato dalla vita, che si conclude «a mezzo gli anni», nel pieno della maturità. Questa età non è menzionata esplicitamente, ma si ricava, per sottrazione, dalle altre età − fanciullezza, gioventù e vecchiezza − evocate nella dedica: «Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto».82 Il forte autobiografismo di questa pagina consente tuttavia all'autore di fornire in apertura di libro indicazioni anagrafiche precise: «io non aveva appena vent'anni», «due anni prima dei trenta». La dedica dei Canti appare in effetti come una vera e propria lettera privata, esibita all'inizio dell'opera per un atto di estremo congedo. Non stupirà allora ritrovare qui elementi tematici e lessicali che, lungi dall'appartenere al genere dedicatorio, rinviano invece a un altro genere di scrittura: quello della lettera di addio, scritta da chi si accinge ad abbandonare la vita. In ambito letterario uno dei grandi modelli può essere quello delle lettere che chiudono le già ricordate Ultime lettere di Jacopo Ortis, il più celebre romanzo italiano che mette in scena il suicidio del protagonista. In effetti la dedica dei Canti sembra risentire di non poche suggestioni dalle due lettere finali dell'Ortis, dove il protagonista, deciso a morire, si congeda dall'amico Lorenzo e dalla donna amata. La prima, aperta dall'appellativo, «E tu, Lorenzo mio − leale ed unico amico», si chiude sulla parola «addio», come qui la dedica di Leopardi, suggellata da una parola davvero anomala nel lessico dedicatorio e assolutamente impossibile in chiusura: «L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio».83 Anche l'insistenza sul lessico doloroso («lacrime», «dolore», «sventura», «infermità», «dolere», «infelicità», «querele») e persino funebre («sepolti», «cenere») è del tutto inconsueta nella pratica dedicatoria, ma si trova naturalmente nel romanzo foscoliano che finge di raccogliere le lettere di un suicida. Elementi lessicali di questo genere si addensano in particolare nelle ultime pagine del libro, dove figurano proprio molti dei termini impiegati poi da Leopardi in questa dedica. Così nell'ultima lettera all'amico Lorenzo, Jacopo, ormai votato alla morte, utilizza la parola «lagrime» e ricorre al termine «cenere» per designare il proprio corpo («Pur troppo ti pagherei a ogni modo di lagrime! or tu non proferire su le mie ceneri»), menziona l'antitesi vita-morte («Vedi come la vita mia, sarebbe a tutti voi più dolorosa che la mia morte»), persino fa riferimento alle proprie «carte» («Queste carte le darai tutte al suo padre»):84 sono tutte parole che tornano nella dedica leopardiana. Nella lettera di Jacopo alla donna amata compare inoltre, oltre a «lagrime», «ceneri» e «addio», il riferimento − anche lì in chiusura − all'amore della destinataria («ti lascierò gli ultimi addio, e prenderò da te le tue lagrime, unico frutto di tanto amore!»). Non manca, come poi in Leopardi, la dichiarazione del volontario congedo: «non t'avvedevi tu nella mia tremenda tranquillità ch'io voleva prendere da te gli ultimi congedi, e ch'io ti domandava l'eterno addio?».85 Persino la perdita di ogni speranza e felicità in Leopardi, «Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. [...] in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza quasi compenserebbe i miei mali», sembra riecheggiare una frase della stessa lettera dell'Ortis, in cui Jacopo rifiuta di prolungare una vita ormai disperata: «dopo mille speranze ho perduto tutto! ed inutile agli altri, e dannoso a me».86 Quest'ultima frase, firmata da un candidato al suicidio, non doveva lasciare indifferente Leopardi, che nella dedica lamentava una «infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte». Se per questa specialissima, e anomala, dedica leopardiana si volessero indicare rapporti interni al genere dedicatorio si dovrebbe evocare ancora il nome del Foscolo, rinviando alla dedica della Chioma di Berenice offerta all'"amico toscano" Giovan Battista Niccolini. Qui figura, in particolare, un riferimento esplicito alla imprevedibilità della fortuna: estesa a ogni umana attività, anche a quella apparentemente da essa più immune come il sapere e gli studi: «Se non che de' nostri studj, come di tutte le mortali cose, tocca a decidere più alla fortuna che a noi. Onde accogli frattanto questo piccolo dono, e vivi memore dell'amico tuo, com'io vivo sempre pieno di te».87 Proprio quei «cari studi» con i quali il giovane Leopardi aveva sperato, invano, di sostentare la sua vecchiezza, acquistando un bene «che da nessuna forza, da nessuna sventura» potesse essergli tolto. Dopo questa dedica, che ha un valore di sublime congedo, non è possibile firmarne altre. Leopardi infatti non ne scriverà più nessuna, per nessuna delle opere e stampe successive. Ne riaffiorerà solo qualche frammento nella corrispondenza dei mesi successivi con gli amici toscani, come nella lettera a Gian Pietro Vieusseux del 6 ottobre 1831, scritta appena arrivato a Roma da Firenze, dove i dedicatari sono ricordati in un saluto collettivo: vi scrivo per darvi le mie nuove, e per domandarvi le vostre, e quelle de' cari amici che ho lasciati nella cara Firenze. [...] Come sta Colletta? Salutate infinitamente Gino, Montani, Forti, Capei, e Cioni se lo vedete. Assicurateli tutti, ch'io non mi dimentico mai di loro, e ch'io considero la mia dimora in Roma come un esilio, e non miro che al ritorno. Assicuratevi voi stesso dell'amore ch'io vi porto e vi porterò sempre, come a rarissimo amico, che avrò perpetuamente nel cuore. [...] Addio, Addio con tutto l'animo.88 Ma questa dedica rimarrà anche nella memoria di molti contemporanei come una pagina altissima sull'umana infelicità. Vincenzo Gioberti il 4 ottobre 1831 scriveva a Leopardi: «La lettera premessa alle vostre poesie stampate ultimamente, mi ha stracciata l'anima».89 Molti anni più tardi chiuderà la sua opera più importante, Del primato morale e civile degli Italiani, con un capitolo intitolato Degli scrittori italiani, dove il rinvio all'infelicità del sapiente è compensato dall'auspicio di una sopravvivenza nell'amore dei posteri, utilizzando − non so se consapevolmente o per inevitabile memoria − parole vicinissime a quelle con cui nel 1831 Leopardi aveva chiuso la dedica dei Canti: Ma il vero sapiente non si contrista né avvilisce, vedendosi manomesso od abbandonato: imperocché egli è sicuro che le sue parole gioveranno ai posteri e otterranno da essi quel tributo spontaneo di amore e di gratitudine, che vien loro disdetto dall'età corrente. E se egli allora, già fatto cenere, non potrà udire quelle tarde benedizioni, prevedendole se ne compiace, e compensa la lontananza dell'esito colla certezza dell'aspettativa; giacché nel disprezzare il presente è riposta la magnanimità dello scrittore.90 L'amore degli amici auspicato da Leopardi − «L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere» − è diventato ormai, nel finale del Gioberti, l'amore tributato da tutti gli Italiani e dai posteri allo scrittore grande e infelice.

M. A. T.






Note

* La prima parte di questa ricerca, introduttiva all'argomento e relativa alle dediche dell'infanzia e dell'adolescenza, è uscita in «Margini. Giornale della dedica e altro», 1, 2007: Dediche leopardiane I: infanzia e adolescenza (1808-1815), http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_1/saggi/articolo1/leopardi.html. La seconda, relativa a quelle dell'adolescenza e della giovinezza, ivi, 2, 2008: Dediche leopardiane II: lavori eruditi e falsi dell'adolescenza e della giovinezza (1815-1825), http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_2/saggi/articolo1/leopardi.html.torna su
1 Lett. 149, del 19 ottobre 1818, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (d'ora in avanti Epistolario), vol. i, pp. 212-13, la cit. a p. 212.torna su
2 Rispettivamente lett. 154, del 27 ottobre 1818, e lett. 159, del 14 dicembre 1818, ivi, pp. 217-19 e 225-26; le cit. alle pp. 218 e 225.torna su
3 Lett. 160, del 25 dicembre 1818, ivi, pp. 226-27.torna su
4 Lett. 162, del 5 gennaio 1819, ivi, pp. 231-34, la cit. a p. 232. Mio il corsivo: così nel séguito, salvo indicazione contraria.torna su
5 Lett. 176, del 12 febbraio 1819, ivi, pp. 251-52; la cit. a p. 251.torna su
6 CANZONI / di / giacomo leopardi / roma mdcccxviii. / Presso Francesco Bourliè, pp. 3-7 (riprodotta in Id., Canti, Edizione critica e autografi, a cura di D. De Robertis, Milano, Il Polifilo, 1984, vol. ii, pp. 11-15; e ora disponibile con tutte le stampe e i manoscritti relativi ai Canti nella riproduzione digitale su CD allegata a G. Leopardi, Canti, Edizione critica diretta da F. Gavazzeni, a cura di C. Animosi, F. Gavazzeni, P. Italia, M. M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini, Firenze, Accademia della Crusca, 2006); ora in Id., Poesie e prose, vol. i, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori, 19987 (1a ed. 1987), pp. 155-57; la cit. a p. 155; così la successiva. Su questa dedica si veda C. Genetelli, Agonismi leopardiani. Per una rinnovata esegesi di 'All'Italia', in «Studi e problemi di critica testuale», 72, 2006, pp. 71-96, in partic. pp. 80-96.torna su
7 Ivi, p. 156; così la successiva.torna su
8 Ivi, pp. 156-57; la successiva a p. 155.torna su
9 Lett. 12, del 28 dicembre 1815, in Epistolario, vol. i, p. 16; si veda in proposito di chi scrive Dediche leopardiane II cit.torna su
10 CANZONI / del conte / GIACOMO LEOPARDI / BOLOGNA / Pei tipi del Nobili e Comp°. / 1824, pp. 7-12; ora in Id., Poesie e prose cit., vol. i, pp. 157-59; la cit. a p. 157.torna su
11 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 152-53, la cit. a p. 152; la precedente in Id.., Poesie e prose, vol. ii, Prose, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 19987, pp. 634-35, la cit. a p. 634. Per l'analisi di questa dedica si veda qui più avanti; per quella al Mustoxidi cfr. di chi scrive Dediche leopardiane II cit.torna su
12 Così ritiene anche Genetelli, Agonismi leopardiani cit., p. 93. Per questa pratica nel Monti si veda S. Garau, Dediche di Vincenzo Monti, in Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. iii, Monti nella Milano napoleonica e postnapoleonica, a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 263-82.torna su
13 Poesie e prose cit., vol. i, p. 155; la successiva a p. 156.torna su
14 Si vedano i commenti ai Canti di A. Straccali (Firenze, Sansoni, 1892; poi corretto e accresciuto da O. Antognoni, ivi, 1912), M. Fubini (Torino, Utet, 1930; poi rifatto con la collaborazione di E. Bigi, Torino, Loescher, 1964), G. e D. De Robertis (Milano, Mondadori, 1978), F. Gavazzeni e M. M. Lombardi (Milano, Rizzoli, 1998). Tra gli studi si veda almeno L. Blasucci, Sulle due prime canzoni leopardiane, in GSLI, cxxxviii, 1961, pp. 39-89 (poi in Id., Leopardi e i segnali dell'infinito, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 31-80); D. De Robertis, Leopardi e Foscolo, in Id., Leopardi. La poesia, Bologna, Clueb, 1998, pp. 87-105 (fonde due saggi del 1978 e del 1979); C. F. Goffis, La canzone 'Ad Angelo Mai' ed il suo antagonismo con i 'Sepolcri', in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, vol. iv, Tra Illuminismo e Romanticismo, Firenze, Olschki, 1983, pp. 677-702; M. M. Lombardi, Allusioni montiane e foscoliane nelle «Canzoni» di Leopardi, in «Strumenti critici», n.s., XIX, 2004, 2 (n. 105), pp. 273-85; P. Italia, Foscolo in Leopardi: i 'Sepolcri' e le canzoni "patriottiche", in 'Dei Sepolcri' di Ugo Foscolo, Gargnano del Garda (29 settembre - 1 ottobre 2005), a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, vol. ii, pp. 721-40; M. A. Terzoli, Un lettore dei 'Sepolcri' ostinato e d'eccezione: Giacomo Leopardi, in I Sepolcri, la poesia e la fortuna, Firenze, Gabinetto Vieusseux e Biblioteca degli Uffizi, 28-29 marzo 2008, a cura di A. Bruni, Bologna, Clueb, 2009 (in corso di stampa).torna su
15 Alla Maestà di Napoleone I. Imperator de' Francesi coronato Re dell'Italia il dì 23 Maggio 1805. Visione del professore V. Monti, Milano, dai Torchj di Luigi Veladini Stampatore Nazionale, 1805, pp. 3-4 nn. (dedica) e pp. 5-16 (visione). Dedica e visione, con il titolo di Beneficio, si leggono in Canti e poemi di V. Monti, a cura di G. Carducci, Firenze, Barbèra, 1891, pp. 101-13 (ripresi in http://www.bibliotecaitaliana.it); testo e immagine della dedica sono riprodotti nella banca dati AIDI, in http://www.margini.unibas.ch (scheda redatta da S. Garau).torna su
16 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 5-9; la cit. a p. 5.torna su
17 Alla Maestà di Napoleone I. cit., p. 5.torna su
18 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 5.torna su
19 Alla Maestà di Napoleone I. cit., pp. 5-6; la precedente a p. 5.torna su
20 Ivi, p. 6; la precedente e la successiva in Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 6.torna su
21 Alla Maestà di Napoleone I. cit., p. 7.torna su
22 Su questa dedica e i suoi rapporti con la visione mi sia consentito rinviare al mio saggio, Monti e l'iconografia celebrativa napoleonica: considerazioni sulla 'Visione' per Napoleone Re d'Italia, in Vincenzo Monti nella cultura italiana cit., vol. iii, pp. 187-217.torna su
23 Lett. 186, del 20 febbraio 1819, in Leopardi, Epistolario, vol. i, p. 263; così la successiva.torna su
24 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 155; la successiva a p. 156.torna su
25 Si vedano in proposito i saggi e i commenti ai Canti già ricordati nella nota 14.torna su
26 Sull'importanza degli elementi paratestuali nella costruzione di questo falso, si veda di chi scrive Dediche leopardiane II cit.torna su
27 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 155; la successiva a p. 156.torna su
28 Come ha mostrato benissimo G. Lonardi, L'oro di Omero. L''Iliade', Saffo: antichissimi di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2005. Per il rapporto e l'immedesimazione di Leopardi con Simonide, si veda E. Peruzzi, Il canto di Simonide, in Studi leopardiani II, Firenze, Olschki, 1987, pp. 7-74; D. De Robertis, Le canzoni o "l'inganno del desiderio", in Id., Leopardi. La poesia cit., pp. 27-85, in partic. pp. 42-44; M. Gigante, Simonide e Leopardi, in Id., Leopardi e l'antico, Napoli, Società Editrice Il Mulino, 2002, pp. 81-118, in partic. pp. 110-18; Italia, Foscolo in Leopardi cit., pp. 733-35.torna su
29 Lett. 176 cit., in Epistolario, vol. i, p. 252; dalle pp. 251-52 i frammenti citati sopra. La dedica appare anche come diffratta e disseminata nelle lettere d'invio del libretto a vari destinatari (Dionigi Strocchi, Angelo Mai, Bartolomeo Borghesi, Massimiliano Angelelli, Filippo Schiassi, Giuseppe Montani): cfr. le lett. 177-79, 181, 183, 216 (ivi, pp. 252-56, 260-61, 296-97).torna su
30 Lett. 292, del 7 aprile 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 388-90; la cit. a p. 389.torna su
31 Ivi, p. 156; la precedente e le due successive a p. 158.torna su
32 Sempre Simonide di Ceo (e non Simonide d'Amorgo) secondo Leopardi: cfr. Gigante, Simonide e Leopardi cit., p. 81.torna su
33 Poesie e prose cit., vol. i, p. 156; la precedente a p. 155.torna su
34 Le prime due citazioni ivi, alle pp. 156 e 158; le altre rispettivamente alle pp. 157 e 159.torna su
35 Ivi, rispettivamente pp. 155 e 157.torna su
36 Ivi, rispettivamente pp. 156-57 e 159.torna su
37 Cfr. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. i, p. 19 [15]: «Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n. 91. le Osservaz. di Lod. Di Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo chiamare».torna su
38 Ivi, p. 17 [13-14].torna su
39 Ivi, pp. 49-50 [36].torna su
40 Cfr. ivi, vol. iii, pp. 487-88. Tale datazione è generalmente accettata: cfr. per esempio Genetelli, Agonismi leopardiani cit., p. 90, nota 1: «delle pp. 36-37 (del 1818)».torna su
41 Cfr. lett. 175, del 12 febbraio 1819, in Epistolario, vol. i, pp. 250-51. La datazione di Pacella (Introduzione, ivi, vol. i, pp. XI-XXXIV, in partic. p. XIV), si basa su un'indicazione generica e incerta di Leopardi, che nel settembre del 1823 indica la pagina 43 scritta «sul principio, se non erro, del 1819». Si noti anche che la data fornita da Leopardi non impedisce di collocare in quel periodo (1819 e non 1818) anche la nota sul Monti (pagina 36), tanto più se si considera che la pagina 29 dell'autografo porta già una data piuttosto avanzata («Decembre 1818», ivi, p. 39).torna su
42 Cfr. sopra nota 1.torna su
43 Cfr. lett. 277, del 4 febbraio 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 366-67.torna su
44 Lett. 289, del 17 marzo 1820, pp. 383-84, la cit. a p. 384; il corsivo è dell'autore. Per la ricostruzione dell'intera vicenda si veda D. De Robertis, Storia del libro, in Leopardi, Canti, Edizione critica cit., vol. i, pp. XXIII-LXVIII, in partic. pp. XXVIII-XXXIX.torna su
45 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 633-34; la cit. a p. 634, la precedente a p. 633.torna su
46 Ivi, pp. 633-34; la successiva a p. 634.torna su
47 Cfr. CANZONE / di / GIACOMO LEOPARDI / ad / ANGELO MAI / bologna. mdcccxx / per le stampe di iacopo marsigli / con approvazione, pp. 3-4; il facsimile della stampa (con correzioni autografe) è riprodotto in Leopardi, Canti, Ediz. critica cit., vol. ii, pp. 73-74; e CANZONI (1824) cit., pp. 37-38. Entrambe si leggono ora in Id., Poesie e prose cit., vol. i, pp. 160-61. Le osservazioni su questa dedica riprendono quelle proposte in un saggio di commento, presentato all'Università di Ginevra nell'ottobre 2007: Esercizio di commento sopra un testo di dedica: 'Giacomo Leopardi al conte Leonardo Trissino', in Per leggere i classici. Saggi di commento ai classici italiani, antichi e moderni. Atti del Convegno di Ginevra, 23-24 ottobre 2007, a cura di G. Bardazzi, R. Leporatti e E. Manzotti, Lecce, Pensa Multimedia (in corso di stampa).torna su
48 Sul suo rapporto con Leopardi si veda G. Auzzas, Giacomo Leopardi e Leonardo Trissino, in Leopardi e la cultura veneta. Edizioni, autografi, fortuna, Catalogo della Mostra bibliografica, a cura di G. Ronconi, Padova, Biblioteca Universitaria, 1998, pp. 86-87 e 183-86; A. Serafini, Leopardi e Vicenza, in «Odeo olimpico», xxiii, 1996-1999, pp. 197-209. Se ne veda l'elogio in una lettera inviatagli da Leopardi il 23 agosto 1819, successiva al soggiorno del Giordani a Recanati, dove già compare il tema della decadenza dell'Italia: «Io non mi posso dimenticare di un giovane signore italiano così amorevole, nè di sentimenti così magnanimi, nè di tanti pregi e virtù d'ogni sorta, che se fossero meno singolari in questa povera terra, non sarebbe stoltezza lo sperar bene della nostra patria» (lett. 253, Epistolario, vol. i, p. 338).torna su
49 Se ne lamenterà il Gioberti in una lettera del 4 ottobre 1831, pur commentando entusiasticamente l'edizione del 1831: «Mi spiace altresì che ci abbiate frodati in questa ristampa delle due bellissime dediche al Monti, e al Trissino» (lett. 1653, Epistolario, vol. ii, pp. 1822-25; la cit. a p. 1824).torna su
50 Lett. 318, del 28 luglio 1820, ivi, p. 424.torna su
51 Lett. 320, del 31 luglio 1820, ivi, p. 425.torna su
52 Lett. 292, del 7 aprile 1820, ivi, pp. 388-90; la cit. a p. 389; così le due successive. Dietro lo stampatore si celava in realtà il Brighenti, che avrebbe voluto dedicare il libretto al tenore Matteo Babini, come si deduce da due lettere del Giordani del 12 e del 15 marzo 1820 al Brighenti stesso (lett. 655 e 657, in Opere di P. Giordani, Epistolario, edito per A. Gusalli, compilatore della vita che lo precede, Milano, Borroni e Scotti, 1854, vol. v, pp. 47 e 57): cfr. De Robertis, Storia del libro cit., pp. xxxii-xxxiii.torna su
53 Lett. 299, del 28 aprile 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 399-401, la cit. a p. 399.torna su
54 Lett. 304, del 26 maggio 1820, al Brighenti, ivi, pp. 406-408, la cit. a p. 407. La lettera del Brighenti del 17 maggio 1820 (lett. 302), si legge ivi, pp. 403-404.torna su
55 Un piccolo indizio della percezione di questa anomalia si trova forse nella lett. 304, del 26 maggio 1820, con cui la dedica è inviata, dove la canzone Ad Angelo Mai è chiamata curiosamente (quasi correzione involontaria) «la Canzone del Mai» (ivi, p. 407), mentre nella lett. 292, del 7 aprile, era indicata come «quella al Mai» (ivi, p. 389; così la successiva).torna su
56 Cfr. Dediche leopardiane II cit..torna su
57 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. ii, p. 933; la precedente a p. 634 (reintegro la scansione fornita in Id., Tutte le opere. Le poesie e le prose, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 19658, vol. ii, pp. 217-18, la cit. a p. 217).torna su
58 Id., Poesie e prose cit., vol. i, 160.torna su
59 Lett. 320 cit., in Epistolario, vol. i, p. 425; così la successiva.torna su
60 Lett. 327, del 28 agosto 1820, ivi, pp. 434-36; la cit. alle pp. 435-36.torna su
61 Lett. 328, del 28 agosto 1820, ivi, pp. 436-37.torna su
62 ett. 336, del 29 settembre 1820, ivi, pp. 444-45; la cit. a p. 445.torna su
63 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 160. Si noti la curiosa dichiarazione di genere («ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri»), forse da leggere come un implicito rinvio − come a modello non dichiarato − al testo funebre e sepolcrale per eccellenza, i Sepolcri foscoliani, dei quali si trovano echi e suggestioni nella canzone.torna su
64 Ivi, pp. 107-10; la cit. a p. 110.torna su
65 Cito da F. Petrarca, Canzoniere, Testo critico e introduzione di G. Contini, Annotazioni di D. Ponchiroli, Torino, Einaudi, 1974, p. 366. La successiva da RVF xxxvii, 69, pp. 51-54, la cit. a p. 53.torna su
66 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 16-21, la cit. a p. 18.torna su
67 Lett. 256, del 10 settembre 1819, in Epistolario, vol. i, pp. 342-43; la cit. a p. 343. La precedente lett. 320 cit., ivi, p. 425.torna su
68 Locuzione, quest'ultima, attestata in scritture quattro-cinquecentesche: per esempio nel Proemio di Cristoforo Landino al volgarizzamento della Sforziade di Giovanni Simoneta, «immortale amicizia per la quale la Casa sua è stata aditta e devota al nome sforzesco sommamente desideroso quello quanto portano le sue forze propagare e per ogni parte distendere» (in C. Landino, Poemi programmatici, a cura di R. Cardini, Roma, Bulzoni, 1974), o in una relazione del 1559 di Leonardo Mocenigo, «l'altro teme di aver spesa ordinaria maggior di quella che portano le sue forze» (L. Mocenigo, Relazione di Germania, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, Tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, a cura di L. Firpo, Torino, Bottega d'Erasmo, 1965); cito entrambe le occorrenze da http://www.bibliotecaitaliana.it. torna su
69 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 19; la precedente ivi, p. 160.torna su
70 Id., Zibaldone cit., vol. i, pp. 461-62 [725].torna su
71 Ivi, vol. ii, p. 1817 [3479].torna su
72 Id., Poesie e prose cit., vol. i, p. 155.torna su
73 Ivi, p. 160; la precedente a p. 17.torna su
74 Id., Crestomazia italiana. La prosa, Introduzione e note di G. Bollati, Torino, Einaudi, 1968, pp. 3-5; la cit. a p. 4.torna su
75 V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d'Alfieri, 1951, vol. i, pp. 7-8; la cit. a p. 7; su cui cfr. M. A. Terzoli, Dediche alfieriane, in I margini del libro. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura della stessa, Padova, Antenore, 2004, pp. 263-89, in partic. pp. 268-69; per il rapporto con Leopardi si veda Genetelli, Agonismi leopardiani cit., p. 94.torna su
76 Si vedano rispettivamente la lett. 316, del 17 luglio 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 420-21, in partic. p. 421; e gli Abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, in G. Leopardi, Autobiografie imperfette e Diario d'amore, a cura di M. A. Terzoli, Firenze, Cesati, 2004, pp. 63-74, in partic. pp. 69 e 71 (con il titolo vulgato Ricordi d'infanzia e di adolescenza si leggono in Leopardi, Poesie e prose cit., vol. ii, pp. 1187-99).torna su
77 Ultime lettere di Jacopo Ortis, Testo stabilito e annotato da M. A. Terzoli, in U. Foscolo, Opere, vol. ii, Prose e saggi, Edizione diretta da F. Gavazzeni, con la collaborazione di G. Lavezzi, E. Lombardi e M. A. Terzoli, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, rispettivamente pp. 33-34, la cit. a p. 33; e pp. 93-99, la cit. alle pp. 98-99.torna su
78 Rispettivamente U. Foscolo, Poesie e carmi. Poesie - Dei Sepolcri - Poesie postume - Le Grazie, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Edizione Nazionale delle Opere, vol. i, Firenze, Le Monnier, 1985, p. 98; Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 15; cfr. De Robertis, Canti cit. (1978), p. 37, nota 5.torna su
79 Foscolo, Poesie e carmi cit., p. 71; riprodotta in AIDI, http://margini.unibas.ch, scheda redatta da chi scrive.torna su
80 CANTI / del conte / GIACOMO LEOPARDI. / FIRENZE / presso guglielmo piatti / 1831, pp. 3-7 nn., la cit. a p. 4 nn.; la precedente a p. 3 nn. (se ne veda l'anastatica, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1997; dedica riprodotta in AIDI, http://margini.unibas.ch, scheda redatta da chi scrive); ora in Id., Poesie e prose cit., vol. i, pp. 152-53, le due cit. a p. 152. Sulla fortuna sette-ottocentesca dell'epigrafe petrarchesca e sul suo impiego nel primo Ortis si veda di chi scrive, Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale tra politica e censura, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 195-96.torna su
81 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. ii, pp. 212-21; la cit. a p. 220; cfr. E. Peruzzi, Agli amici suoi di Toscana, in Id., Studi leopardiani II cit., pp. 169-81, in partic. pp. 174-75. Nel saggio è studiato l'autografo della dedica e sono indicate possibili consonanze (in apertura e in chiusura) con la dedica della fortunata romanza di Giovanni Berchet, La Fantasie, uscita a Parigi presso Delaforest nel 1829.torna su
82 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.torna su
83 Poesie e prose cit., vol. i, p. 153; le precedenti in Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 133-34. Mi è noto solo un altro caso in cui la parola «addio» ricorre in questo genere di testi: si tratta della dedica di Gabriele D'Annunzio a Mario Pelosini premessa alla Contemplazione della morte (Milano, Treves, 1912), a cui potrebbe non essere estraneo proprio il precedente leopardiano, come sembrerebbe suggerire anche la sua collocazione identica in chiusura (cfr. in AIDI, http://www.margini.unibas.ch, la scheda redatta da M. Ingletti).torna su
84 Tutte queste citazioni ivi, p. 133.torna su
85 Ivi, p. 134; la precedente a p. 135.torna su
86 Ibid.; la precedente e la successiva in Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.torna su
87 U. Foscolo, La Chioma di Berenice, in Id., Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Ediz. Nazionale cit., vol. vi, 1972, pp. 267-447, in particolare pp. 270-71; la cit. a p. 271. La successiva in Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.torna su
88 Lett. 1656, del 6 ottobre 1831, in Epistolario, vol. ii, pp. 1826-27; la cit. a p. 1827. La lettera è successiva a quella del Colletta del 1 aprile 1831 (lett. 1607, ivi, pp. 1786-87), che comunicava a Leopardi la fine del sostegno finanziario da parte del gruppo degli amici toscani. La reazione qui attestata è ben lontana, nella sua nobile amicizia, dalle parole che, secondo il Ranieri di molti anni più tardi (con la grossolana se pur involontaria deformazione che riguarda tutta la figura di Leopardi nei Sette anni di sodalizio), avrebbe pronunciato Leopardi in proposito: «Il generale Colletta volle trarmene; e, raccogliendo intorno a se molti di questi signori, mi fece un peculio per un anno. Si aspettava che io componessi e dedicassi. Non ho potuto la prima cosa, e non ho mai voluto la seconda; ed il peculio non sarà rinnovato» (A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Con un'introduzione di G. Cattaneo e una nota di A. Arbasino, Milano, Garzanti, 1979, p. 29, cit. da Peruzzi, Agli amici suoi di Toscana cit., p. 173). Si noti che l'affermazione «non ho mai voluto la seconda» non è neppure vera nei fatti, come mostra anche questo studio sulla lunga e articolata pratica dedicatoria di Leopardi.torna su
89 Lett. 1653 cit., in Epistolario, vol. ii, p. 1823.torna su
90 Del primato morale e civile degli Italiani, a cura di U. Redano, Edizione Nazionale delle opere edite e inedite di V. Gioberti, promossa dall'Istituto di studi filosofici Enrico Castelli e dal Centro internazionale di studi umanistici, Milano, F.lli Bocca, 1938-1939; cito da http://www.bibliotecaitaliana.it. La citazione successiva in Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.torna su