4, 2010
 
Saggi    
 
 Abstract


Chiara Schiavon

Una via d'accesso agli epistolari. Le dediche dei libri di lettere d'autore nel Cinquecento. Seconda parte



Nella prima parte di questo lavoro, pubblicato sul terzo numero della rivista,1 si erano analizzate le dediche degli epistolari d'autore dal punto di vista del dedicante e del dedicatario; in questa seconda parte si approfondirà un altro importante elemento di queste dediche, ossia le riflessioni sull'opera e sull'epistolografia in volgare, un genere letterario che nel quarto di secolo preso in considerazione per questo lavoro (grosso modo dalla fine degli anni quaranta alla metà degli anni sessanta) è protagonista di vertiginoso sviluppo editoriale.
Le parole per dirlo
Un primo aspetto che si prenderà in considerazione è il modo in cui gli autori della dedica si riferivano all'opera che stavano dedicando. Come era prevedibile, ma non scontato, molti di loro si riferiscono alla propria opera con il nome di «lettere», a partire da Aretino che così manifesta il dono del suo Primo libro di lettere al Duca d'Urbino: «vi porgo alcune lettere».2 Di «lettere», senz'altra specificazione, parlano riferendosi alla propria opera anche Anton Francesco Doni nella dedica del suo primo libro a Lodovico Domenichi (ed è l'unico modo in cui l'opera viene nominata in questa dedica), Nicolò Martelli (che la prima volta stampa «lettere» in maiuscoletto), Bernardo Tasso (che nel Primo volume per tre volte fa riferimento a «queste mie lettere» e nel Secondo volume parla di «questa seconda parte delle mie lettere»), Pietro Lauro in due occasioni nel Primo libro, Valerio de' Paoli nella dedica dell'epistolario di Giovanni Camillo Maffei, Baccio Martelli nella dedica delle Rime e lettere dello zio Vincenzo («alcune sue lettere»), Giovan Francesco Lucchi nella dedica dell'edizione postuma delle Lettere di Girolamo Muzio. Nelle dediche esaminate sono pochi i casi in cui la denominazione «lettere» viene precisata con un aggettivo: si tratta di «volgari» usato da Orazio Brunetto e da Paolo Manuzio, di «familiari», usato da Girolamo Parabosco, da Luca Contile nella dedica del suo Primo volume e da Giovan Battista Caro nella dedica del Volume primo delle lettere di Annibal Caro, e di «secolari», usato da Muzio. L'aggettivo accompagnava già il sostantivo lettere nel titolo delle opere di Girolamo Parabosco e Paolo Manuzio, intitolati rispettivamente Il primo libro delle Lettere famigliari di M. Girolamo Parabosco e Tre libri di Lettere volgari di Paolo Manutio; la specificazione era probabilmente motivata nel primo caso dalla necessità di distinguere le lettere di questa raccolta dalle Lettere amorose, di cui Parabosco aveva già pubblicato due volumi nel 1545 e nel 1548 e che avevano già riscosso un certo successo,3 e nel caso di Manuzio dalla volontà di ricollegare la sua raccolta personale con l'antologia di Lettere volgari, curata dallo stesso editore, che nel 1542 aveva aperto la stagione delle raccolte di lettere di diversi autori.4 Per lo stesso motivo Girolamo Muzio, che nella dedica dell'edizione del 1551 parlava semplicemente di «lettere», nella dedica dell'edizione Sermartelli del 1590 specifica che si tratta di «lettere secolari» dal momento che nel 1571 erano state stampate anche le sue Lettere catholiche.5 Nel caso di Contile, invece, la specificazione di «familiari» anticipa una lunga riflessione proprio su questo tipo di lettere e sul loro valore letterario; Giovan Battista Caro, infine, parla a sua volta di «lettere familiari» per distinguerle da «quelle de' negotij», che egli ha ritenuto opportuno non pubblicare.6
Più spesso, in ogni caso, il sostantivo lettere specifica il contenuto del volume donato con la dedica: «il presente libro di lettere» e «il mio secondo libro di lettere» nella dedica del Secondo libro delle lettere del Doni e «il mio terzo libro di lettere» in quella del terzo, appunto; «un libro di lettere volgari» per Orazio Brunetto; «un volume di lettere mie» per Girolamo Muzio (nell'edizione del 1551); «libro delle sue lettere» per Giovan Francesco Lucchi (nella dedica dell'edizione del 1590 delle Lettere di Muzio); «un volume di lettere di Mons. Paolo Giovio» per Lodovico Domenichi curatore dell'epistolario postumo di Giovio; il «Secondo & presente Volume de le mie Lettere» per Luca Contile; «questo primo volume de le sue lettere familiari» per Giovan Battista Caro, curatore del Primo volume delle lettere di Annibal Caro, suo zio; «un volume di lettere secolari» per Muzio nell'edizione del 1590. In alcuni casi si fa riferimento alle lettere per indicare il loro confluire nella raccolta in oggetto: «le poche lettere raccolte nel presente volume» (Nicolò Franco), «ho raccolto molte lettere da varie parti, non senza molta fatica; et nel presente volume le ho lasciate pubblicare sotto il nome di V. S.» (Ortensio Lando 'curatore' delle lettere della Gonzaga); in altre dediche, ancora, all'opera si fa riferimento con il titolo riportato sul frontespizio o con una formula molto simile: Girolamo Scotto parla del «vago, piacevole, & arguto volume delle lettere di M. Antonfrancesco Doni Fiorentino»; Valerio Dorico, nella dedica del Primo volume dell'epistolario di Bembo, presenta «un volume di Lettere scritte a sommi Pontefici et a Cardinali, et ad altri Signori et persone ecclesiastiche, distinto secondo l'ordine delle dignità et de gradi loro»; Gualtiero Scotto nomina il Terzo volume delle lettere del medesimo autore dapprima con il titolo abbreviato, «il Terzo Volume delle lettere del uostro Eccellentiβ.o M. Pietro Bembo», e poi con il titolo per esteso («Questo libro è intitolato il terzo volume delle lettere di M. Pietro Bembo, a Prencipi & Singori & suoi famigliari amici scritte»); anche nella dedica del Quarto volume, sempre firmata dallo stampatore, la prima occorrenza riporta il titolo («il presente quarto volume delle lettere da S. S: Ill.ma in diversi tempi a diverse nobili donne & a V. M. medesima scritte»), la seconda si riferisce all'opera semplicemente come «questo quarto volume»; Girolamo Parabosco parla di «questo mio primo libro di lettere famigliari, scritte a diverse persone, in diversi soggetti» e Lepido Caro de «il secondo volume de le lettere Familiari del Commendatore Annibal Caro mio Zio». Sono però numerosi anche i riferimenti all'opera nella sua materialità senza la specificazione della sua natura epistolare: «libro» (nel Primo libro dell'Aretino, nella dedica del Doni del Primo libro, nel Secondo volume del Bembo − in questo caso «libri», perché il volume è composto da più libri, nell'edizione Sansovino del Secondo volume del Bembo), «volume» (nel Primo, quarto e quinto libro di Aretino, nella dedica dell'intero volume e quella del Terzo libro dei Tre libri di Lettere del Doni − con un riferimento molto materiale e topico alla «fronte del volume», nella dedica della raccolta di Nicolò Martelli, nella dedica del Secondo volume dell'epistolario di Bembo, e del Quarto volume nell'edizione Sansovino, nella dedica di Muzio della seconda edizione delle sue lettere, che vengono nominate così due volte, la seconda con riferimento ancora alla fronte del volume che dovrà portare iscritte la «memoria» e la «fede» della generosità del dedicatario), «scritti» (nel Primo e quarto libro di Aretino, nella dedica della raccolta di Nicolò Franco, nel Primo libro delle lettere di Lauro), «opera» (nel Terzo e quinto libro di Aretino − nel Quinto libro il termine ricorre due volte e nella variante «opra», nel Primo volume di Bernardo Tasso, nel Primo libro di Lauro, nel Primo e secondo volume dell'edizione Sansovino dell'epistolario di Bembo, nel Primo volume di Contile), «carte» (Nicolò Franco). Solo in due casi, ancora, si ricorre a un diminutivo per definire l'oggetto del dono e della dedica: Orazio Brunetto, in un passo della dedica a Renata di Francia, definisce il suo epistolario «questo mio libretto» e l'epistolario di Minturno recuperato ed edito da Federico Pizzimenti è chiamato da quest'ultimo «operetta di lettere»; probabilmente questi diminutivi, pur non esenti da un certa sfumatura di modestia, fanno riferimento principalmente alla consistenza materiale delle opere (che contengono rispettivamente 155 e 232 lettere). Sono invece sicuramente professioni di modestia (ma sulla sostanza di questa modestia ci si può permettere di dubitare) quelle di Aretino nella dedica di Lettere v a Baldovino del Monte («l'opra di familiare eloquenza, e senz'arte») e di Bernardo Tasso che definisce il suo Primo volume «questo mio piccolo libro». Un certo understatement mostra anche l'appellativo «le cose mie» riservato da Pietro Lauro al suo Primo libro di lettere. Le definizioni metaforiche, invece, sono rare: Aretino si riferisce metaforicamente alla sua opera nella dedica di Lettere ii a Enrico VIII: l'unica volta che nomina il suo libro lo definisce «questo mio piccolo parto», l'immagine nel parto7 torna anche nella dedicatoria delle Pistole vulgari di Nicolò Franco, pubblicate, come sappiamo, in aperta competizione con il suo protettore, l'Aretino, e con il suo Primo libro di lettere, che proprio il Franco aveva curato.8 Sempre metaforico è il modesto «ciancie», usato da Aretino nella dedica del Primo libro a Francesco della Rovere, e forse non casualmente ancora una volta dal suo primo imitatore, Nicolò Franco («le mie ciancie, benché indegnissime»); nella dedica di Doni a Costanza Vitelli Baglioni, invece, l'appellativo «ciancie» si riferisca alla dedicatoria stessa: «Io non battezzerò questa Epistola altrimenti dedicatoria, percioché le mie ciancie non meritano tanta riputazione».9 Una visione riduttiva della propria opera è espressa anche dal termine «giovanezze» (cioè prodotte da uno scrittore ancora giovane) usato da Orazio Brunetto, che però allo stesso tempo sottintende che il risultato va commisurato all'età e alla poca esperienza dell'autore e deve essere perciò tanto più apprezzato. Due sineddochi piuttosto comuni per definire un lavoro d'ingegno sono «fatiche» − usato da Lauro (nella dedica Secondo libro) e da Contile (nella dedica Primo volume), in entrambi i casi nel sintagma «queste mie fatiche» − e «impresa», usato da Lapini.
Sulla formazione della raccolta
Nel presentare l'opera che hanno scritto (o curato, o stampato), gli estensori della dedica possono fornire notizie sulle modalità di composizione della stessa. Non è detto, ovviamente, che queste notizie corrispondano sempre alla verità dei fatti, ma risulta comunque interessante osservare come la preistoria di queste raccolte venga narrata dai protagonisti.
Anton Francesco Doni, nella dedicatoria del Primo libro (rivolta a Lodovico Domenichi nella prima edizione e ai lettori quando il libro confluirà nei Tre libri di lettere) ricorre all'immagine del pellegrino Ungaro indeciso sulla strada da percorrere per rappresentarsi come timoroso di «precipitarsi nella poca discretion di molti linguacciuti». Si sarebbe tentati di vedere come oggetto di questa indiscrezione il contenuto personale delle missive, ma è più probabile che l'autore alluda in generale ai 'critici' pronti ad attaccare le opere letterarie, ai quali tanto spesso si fa riferimento delle dediche. Questa dedica del Doni è cronologicamente la prima nella quale vengono descritte nel dettaglio le fasi preparatorie del volume con il recupero delle missive (fino a quel momento si trovavano notizie di queste operazioni solo all'interno degli epistolari):10 Io, che le mie lettere con non poca fatica ho raccolto parte richiedendone a molti, cui l'havea scritte, & parte da coloro, che n'havean ritenuto copia, pensando, ch'elle fossero qualcosa, n'ho fatto un libretto più per fuggir l'otio, ch'aspettarne fama, Poi mi sono inviato (cosa, ch'io non ho desiderato giamai, benché nelle mie lettere più volte l'habbia accennato)11 a farle stampare. Doni prosegue elencando i rischi che egli teme quando pensa di pubblicare la sua opera; accanto alle insidie che possono essere riferibili generalmente a qualsiasi opera d'intelletto, come quello di essere oggetto di plagio o furto d'idee («per mala sorte io potrei dare una urtata in qualche malandrino, che mi svaligiasse»)12 o di essere giudicato con minor favore per il solo fatto di essere poco noto;13 se ne evidenzia una che sembra riferibile specificamente al fatto che l'opera pubblicata è una raccolta di lettere, se non altro per il riferimento ai cancellieri (le parti in corsivo sono aggiunte della versione del 1552): «io facilmente intopparei in una mandria di questi che fan professione di cancellieri; i quali arrotato il rasoio della loro prosopopeia mi daran fiancate, che fumeranno de' vocaboli, dello stile, dell'Ortographia, & altre cose secondo i loro humori». Ancora Doni così racconta alla dedicataria dei Tre libri di lettere (Marcolini 1552) la storia editoriale del volume: Alcuni anni sono, [...] che io scrissi certe lettere familiari, & di quelle feci un libro, & senza dedicarle a persona alcuna le diedi alla stampa, le quali lettere m'hanno fatto acquistar la gratia di molti nobili spiriti (la mercé loro) & cosi furono ristampate la seconda volta, per la piacevolezza che tengono nel dir loro. [...] Poi in alcuni mesi ne ho scritte qualche un'altra, & ho imbrattata tanta carta che pur n'ho messo insieme tre libretti in un solo volume, et havendole tutte rappezzate il meglio che ho saputo, l'ho fatte stampare. Si noti, oltre alla questione della dedica del primo libro «a persona alcuna» (per la quale vedi Prima parte), l'accenno al successo e alla ristampa dello stesso; del secondo libro, uscito nel 1547, Doni invece non fa esplicita menzione in questa dedica. In effetti le lettere pubblicate nel 1547 non sono confluite nella raccolta marcoliniana, salvo due eccezioni;14 è curioso che tra queste ci sia proprio la dedica ad Agostino Bonucci; si viene così a configurare un caso di riutilizzo di dedica per un testo diverso da quello originario, perché i due libri, pur avendo lo stesso titolo (Libro secondo delle lettere del Doni), hanno contenuti affatto diversi. Nella dedica delle Lettere di Minturno, il curatore Pizzimenti narra con molta vivacità le disavventure dei libri di Minturno, coinvolti nei dissidi tra spagnoli e napoletani (vedi Prima parte), e mette in luce la propria opera salvatrice: egli infatti restituisce tutti i libri al Cossa, che aveva ricevuto dal Minturno l'incarico di conservarli, ma tiene per sé e salva dall'oblio «questa sì bella e sì leggiadra operetta di lettere disciolta e quasi rovinata tutta». L'opera gli pare «dolcissima, dottissima e veramente degna d'esser letta», così decide di darla alle stampe, dopo aver «radunate insieme tutte queste lettere, et aggiontevene alcune altre bellissime pur del medesimo autore, havute col mezo d'un suo fratello, ch'hor nei servigi di lui dimora». La designazione del materiale da lui recuperato come «operetta di lettere» lascia intendere che la sistemazione della raccolta fosse già stata intrapresa dall'autore almeno in parte. Lodovico Domenichi, nella dedica a Matteo Montenegro, racconta che, avendo deciso di pubblicare le lettere come testimonianza dell'eloquenza volgare di Giovio, si diede «a raccogliere da più parti molte delle sue lettere Volgari»; in questa operazione Domenichi, legato al Giovio da rapporti non solo lavorativi ma anche e soprattutto di discepolanza, si paragona a Tirone «il quale l'epistole famigliari di M. Tullio raccolse», paragonando così implicitamente Giovio a Cicerone.15 Nella dedica trova spazio anche una menzione di ringraziamento al nipote di Giovio, Giulio, vescovo di Nocera come lo zio, «il quale havendomene donate alcune [lettere], s'è contentato, ch'Io le publichi tutte al mondo, per fare ogni dì più viva & più celebre la fama dell'immortale suo Zio». Nella dedica a Lodovico Capponi della seconda edizione delle sue Lettere, Muzio, che quando aveva dedicato per la prima volta l'opera all'amico Vincenzo Fedeli aveva incentrato l'epistola quasi esclusivamente sulla figura del destinatario, si sofferma fin dall'incipit sulla composizione dell'opera: L'anno cinquantesimo oltra 1500 dal nascimento del nostro salvatore andai a Venetia per dare alle stampe diverse opere mie, & fra le altre vi fu un volume di lettere secolari cominciando dal tempo, che io era stato in Ferrara, havendone per a dietro scritte molte altre, delle quali non ne trovava copia. Muzio rivela quindi che la stampa delle sue lettere rientrava in una più ampia operazione editoriale (e in effetti tra il 1550 e il 1551 Muzio stampa per Giolito ben otto sue opere),16 indica inoltre da quale periodo inizia la raccolta, e rivela che la scelta è dovuta al fatto che delle lettere precedenti non aveva trovato la copia.17 Muzio fornisce poi la motivazione della nuova edizione, decisa non per il successo della prima edizione, come nel caso del Doni, ma più modestamente perché dopo più di vent'anni la prima edizione era difficile da reperire. Muzio annuncia inoltre l'aggiunta di alcune lettere che ritiene degne di pubblicazione: Hora da poi che io veggo che quelle già sono smarrite, & posso dir fuori della memoria de gli huomini, non mi par fuor di proposito di farne questa nuova publicatione, aggiungendovene alcune altre; le quali credo che V. S. approverà che star debbiano in luce. Più frequentemente però le notizie sulla composizione del volume vengono date per rapidi cenni: Orazio Brunetto racconta che «nel termine di duo mesi» ha «poste insieme [le sue lettere], & a questo essere ridotte, facendo di molti membri riuscire un corpo solo» (in questo caso oltre all'indicazione sulla brevità dell'operazione di raccolta, forse topica, si noti la consapevolezza dell'unitarietà della raccolta, resa con l'immagine paolina dell'unità nella diversità delle membra nel corpo); anche Ortensio Lando accenna all'operazione di recupero delle lettere: «ho raccolto molte lettere da varie parti, non senza molta fatica; et nel presente volume le ho lasciate pubblicare sotto il nome di V. S.», anche se in realtà in questo caso la millantata fatica non sarà stata probabilmente di inventio, di scoperta e raccolta, ma di vera e propria invenzione di finte lettere femminili;18 Lapini invece sostiene che l'impulso a pubblicare le sue lettere gli venne dalla famiglia Kraffter, che le conservava amorosamente («havendo io consentito si dessero a stampa alcune mie lettere, che appresso di loro carissime tenevano»);19 ancora per cenni, Giovan Francesco Lucchi ci svela la seconda fase della vicenda editoriale dell'edizione Sermartelli delle lettere di Muzio (per la prima fase, descritta nella dedica dell'autore, vedi sopra): Poi che il Signor Mutio di F. M. quasi presago della Morte sua haveva poco innanzi all'ultima infermità fatta la lettera dedicatoria al Libro delle sue lettere [...] Io [...] volentieri ho preso carico di effettuare in questa parte l'ultima sua volontà, procurando che le dette lettere riacquistino vita in cotesta nobilissima Patria, ove egli finì la sua. Il Lucchi, infine, giustifica il ritardo con cui l'edizione era stata pubblicata, ben 15 anni dopo la morte dell'autore: «Et questo ho fatto come prima per alcune mie occupationi mi è stato conceduto, se bene non così tosto come la memoria di lui [...] pareva che richiedesse».
Le motivazioni delle raccolte
Interessanti, anche se non molto frequenti, sono le indicazioni sulla motivazione che ha spinto l'autore, o l'editore, a pubblicare le lettere.
Federico Pizzimenti, nel 1548, sottolinea l'utilità della raccolta di lettere del Minturno come modello per chi voglia comporre lettere, in particolare per i giovani: Ben dirò solamente che potranno gli studiosi giovani parimente diletto della soavità del dire, & utilità grandissima pigliarne, inquanto che potrà ciascuno conoscere la forma de l'ornato raggionar per lettere, & apparare il modo di scrivere o di respondere in qualunque materia gli si farà inanzi. Può sembrare strano, ma la proposta di una raccolta d'autore come modello dal quale apprendere «la forma dell'ornato raggionar per lettere» non era mai stata avanzata così esplicitamente in nessuna delle dedicatorie degli epistolari d'autore pubblicati fino a quel momento, anche se a quell'altezza cronologica erano già stati stampati due degli epistolari più importanti e influenti del periodo, quello di Tolomei nel 1547 e il Primo volume delle lettere di Bembo. Si trova invece nella dedicatoria premessa da un importante editore-tipografo, Paolo Manuzio, alla raccolta delle proprie lettere volgari, il tema della stampa delle singole lettere all'insaputa dell'autore come motivo che spinge il riluttante autore alla pubblicazione:20 non haverei giamai pensato di mandare in luce [le mie lettere], se non havessi temuto, che si come già alcune senza mia saputa, con poco riguardo dell'honor mio, si sono stampate, cosi della maggior parte dell'altre il medesimo dovesse avenire. Manuzio poteva ben permettersi di lamentarsi del poco rispetto degli stampatori nei confronti dell'onore dell'autore: infatti anche se le antologie epistolari in volgare che spesso si servivano di materiale recuperato senza il consenso e il controllo dell'autore hanno come loro capostipite proprio le sue Lettere volgari di diversi di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni, egli, da parte sua, nella raccolta ed edizione di lettere altrui, sembra avere sempre cercato non solo il consenso, ma anche la collaborazione dei diversi autori, come risulta anche da alcune lettere antologizzate nella silloge.21 Nella seconda edizione, del 1560, comunque, il passo qui riportato viene cassato ed è l'unica variante sostanziale apportata alla dedica. Anche Frosino Lapini, che si rappresenta titubante al pensiero di pubblicare le sue lettere sentendosi «indegno che di tanto honore giudicato fosse meritevole» ricorda nella dedica le motivazioni che alla fine l'hanno convinto a pubblicare la raccolta: da una parte l'insistenza degli amici Kraffter e la volontà di esaudire il loro desiderio, dall'altro il «tedio e'l fastidio di quelli, che spesso nel concederne altrui copia haveavano grandissimo, né sicuro dal pericolo d'esser lacerate, & in altra maniera trascritte, che non era l'originale a essi prestato». La frase, che descrive bene come la circolazione manoscritta delle lettere continuasse anche nel periodo della stampa degli epistolari d'autore e antologici (ne aveva fatto cenno anche il Doni nella dedica del Primo libro, vedi sopra), sottintende anche, pur senza dirlo apertamente, che le lettere di Lapini erano piuttosto richieste.
Riflessioni sul genere
Nonostante tutti gli autori di raccolte epistolari, a partire dall'Aretino, fossero ben consapevoli del fatto che si stavano cimentando in un genere del tutto nuovo,22 nelle epistole dedicatorie, almeno all'inizio, quasi nessuno lascia spazio a riflessioni sull'epistolografia e sulle raccolte di lettere.
Solo Girolamo Scotto nella sua dedica del primo libro delle Lettere di Anton Francesco Doni sostiene, con evidente intento promozionale, che non s'hanno a sdegnare di leggerlo i più esperti secretarij & cancellieri della Corte Romana: perché leggendolo troveranno in quello mille modi nuovi, & belli di dettar lettere per altra via non più usata. La qual cosa s'ha ingegnato l'auttore di fare affine di levarsi una volta da quelle minute triviali, invecchiate, che in cambio di piacere altrui hanno hoggimai fastidito gli animi degli huomini ingeniosi. Un precoce esempio di consapevolezza della funzione di modello, o meglio di serbatoio di formule e costruzioni, che queste raccolte assumono fin da subito. Bisognerà invece attendere il Primo volume delle lettere di Bernardo Tasso (1549) per trovare in una dedica un esplicito riferimento al successo che questo tipo di pubblicazioni aveva riscosso fin dal suo apparire: Né voglio che vi cada nell'animo, che a guisa di famelico, in cui, se altri vede a mangiare, più cresce la fame, tirato da la gloria, che molti rari, & pellegrini spiriti con il mandare in luce le loro lettere se hanno guadagnata, a questo fare posto mi sia. La gloria alla quale Tasso fa riferimento era probabilmente soprattutto quella che si era conquistata Aretino, con i tre libri di lettere pubblicati fino a quel momento, già oggetto di numerose ristampe; erano però già usciti anche i primi due libri delle lettere di Doni, e, nei due anni precedenti, l'epistolario di Tolomei (1547, già ristampato nello stesso anno dell'uscita dell'epistolario di Tasso) e il primo volume di quello di Bembo (1548). La dedica del Secondo volume delle lettere di Tasso, invece, sarà tutta incentrata sulla destinataria, Giulia Estense della Rovere, e al libro si farà solo un rapido riferimento.23 Forse questa discrezione nei confronti della propria opera, confermata anche dal fatto che mentre il Primo volume era corredato di un'imponente apparato di preliminari (per i quali vedi sotto) questo volume si limita alla sola dedica, è dovuta semplicemente al fatto di aver già stabilito la propria posizione rispetto al genere e all'opera appunto nel Primo volume. Una breve riflessione di tono umanistico sullo scrivere lettere apre la dedica a Vincenzo Fedeli della prima edizione delle Lettere di Girolamo Muzio: «Certissima cosa è che lo scrivere lettere non per altro è stato introdutto se non per mantener viva la humana conversatione, la quale, dalla lontananza essendo interrotta, senza quelle se ne verrebbe del tutto a morire».24 Nella dedicatoria del terzo volume della sua edizione delle Lettere di Bembo, diretta a Girolamo della Torre, Francesco Sansovino tematizza la questione delle lettere familiari e in particolare di quelle scritte da autori illustri: Dilettevole & cara lettione è quella delle lettere famigliari Illustrissimo Sig. Conte, & spetialmente de gli scrittori, i quali essendo eccellenti nelle buone arti, arrecano a' lettori non solamente consolatione ma giovamento anchora per le materie ch'essi trattano. Sansovino fa poi riferimento alla grande diffusione degli epistolari in quegli anni, suggerendo anche che gli autori di questi epistolari componessero le loro lettere già con l'intenzione di vederle pubblicate: La onde essendo rivolto il Mondo da un tempo in qua per questa cagione a procurar di havere cose elette & singolari in questa maniera di scrivere, gli huomini dotti disponendosi volentieri a dilettare & giovare altrui hanno partorito scrivendo belle & honorate cose. Siamo già, a questo punto, nel 1560; sono passati più di vent'anni dalla pubblicazione del Primo libro dell'epistolario dell'Aretino, e Sansovino non sta più osservando una situazione nel pieno del suo svolgersi e dall'interno, come faceva Tasso, ma può permettersi una visione un po' distanziata nel tempo («da un tempo in qua») e da una posizione doppiamente distaccata, in quanto editore di un'opera già collaudata e non autore che pubblica per la prima volta la sua raccolta. Nel 1564 Luca Contile pubblica quella che si può considerare l'ultima raccolta d'autore di questa stagione (perché quella del Caro, postuma, si può di fatto ascrivere al tempo in cui è stata composta); significativamente la stagione degli epistolari d'autore, aperta dal «secretario del mondo»,25 un letterato che voleva tenacemente vivere dei suoi soli scritti e delle relazioni che, anche grazie ad essi, riusciva ad intessere, viene chiusa da un segretario vero e proprio, «uomo di lettere e di negozi», secondo la calzante definizione di Abd-El-Kader Salza.26 Nella dedica del primo volume delle sue Lettere a Giovan Battista Spinola, Contile, sostenendo la legittimità della dedicazione di «volumi di lettere familiari», intesse una vera e propria difesa del genere, accusato di essere poco dignitoso: «alcuni stimano in quelle [scil. le familiari] non contenersi mai se non suggetti domestici, [...] & peggio questi dicono, cioè non potersi né doversi in scritture familiari communicare se non ciò che convenga a un padre di famiglia». È evidente che le lettere familiari vanno ben oltre quei limiti, e Contile per dimostrarlo traccia una rapida storia delle familiares,27 a partire dai greci e dai latini, sempre finalizzata a dimostrare che le lettere familiari possono trattare una gran varietà di argomenti, anche molto elevati: i sette sapienti di Grecia si scrissero l'un con l'altro di cose altissime. non si legge nelle lettere di Platone quasi qual si voglia materia di difficil notitia? Timeo a Pithagora non scrisse di soggetto maraviglioso? Tullio nelle sue Epistole non trattò de' governi di stato? de' maneggi di guerra? & d'altri concetti civili non che domestichi? Si passa poi agli umanisti e alle loro familiares in latino: il Pico della Mirandola huomo celeste, non ha copiosamente a suoi amici scritto di materie profonde? il Politiano, il Merula & altri di quei tempi, non hanno tocco & parlato più d'ogni altra cosa che de' fatti di casa? il Sadoleto & il Bembo Cardinali sappiamo pure quante cose degne di notitia habbiano familiarmentte scritto. Della rapida carrellata di epistolografi in volgare, che stabilisce un canone di 'ottimi autori', da accostare a greci e latini (antichi e umanisti) si dirà nel paragrafo successivo; le conclusioni di Contile sono le seguenti: Per tanto chi non dirà che la maniera di scriversi l'un l'altro non sia di tutte l'altre scritture la più necessaria, la più frequentata, la più giovevole & la più dilettevole? conciosia che maravigliosa dolcezza & incomparabile giovamento s'acquisti hora nella materia grave, hora nella giocosa, hora nella mista? & chi niega che in simigliante usanza di scrivere non ci si senta la natura del genere deliberativo, demostrativo & giuditiale? & in tutto non ci si vegga la somiglianza del Dialogo? Anzi in niuna altra scrittura di può leggere & guadagnare tanto conoscimento di diversi disegni degli huomini & di varie opinioni, hora per amicitia, hora per odio, hora per pietà, hora per qual si sia passione che nella humana natura habbia il suo luogo publicati. La onde ho io sentito uscir di bocca a huomini Eccellenti in ogni dottrina & a persone capi di provincie & de Regni & de Esserciti, che niuna lettione più gli aggradi quanto le lettere familiari leggiadramente & dottamente scritte. La superiorità del genere epistolare («di tutte l'altre scritture la più necessaria, la più frequentata, la più giovevole & la più dilettevole») è quindi dovuta, secondo Contile, alla sua possibilità di esprimere materie diverse, e di conseguenza di impiegare stili diversi. La questione della somiglianza di questa «usanza di scrivere» con i diversi generi di oratoria (deliberativo, dimostrativo e giudiziale) e con il dialogo ricollega questa dedica al dibattito sulla collocazione retorica del genere epistolare, proseguito per secoli, prima e dopo il Cinquecento.28 Infine Contile sancisce la vittoria delle familiari con l'argomento della doxa, dell'opinione comune, ponendo come auctoritates i dotti («huomini Eccellenti in ogni dottrina») e i potenti («persone capi di provincie & de Regni & de Esserciti»), che ammettono il piacere dell'ammaestramento delle lettere familiari purché siano «leggiadramente & dottamente scritte». Un'ultima breve osservazione su questioni che riguardano il genere epistolare, si trova nella dedica del Primo libro delle lettere di Annibal Caro, dove il nipote Giovan Battista, curatore del volume, spiega al dedicatario Girolamo da Correggio (e ai lettori) che per il momento pubblicherà solo le lettere familiari dell'illustre zio: «Perche quelle de' negotij sono forzato di ritenere appresso di me, fin a tanto ch'io vegga, che col pubblicarle, non si pregiudichi al servitio de' Padroni, per chi elle furono scritte». In verità, la distinzione, con motivazioni molto simili, era già stata operata dallo zio, che nel 1558 scriveva a Ruscelli: «De le lettere, che mi domanda, scritte a signori, ella sa che quelle de' negozi sono le più considerate, e per questo non mi è lecito a darle, l'altre sono di cerimonie, che sono di poco momento, di queste se ne vorrà qualcuna vedrò di satisfarla».29 Precedentemente solo Bernardo Tasso aveva operato una distinzione (che però rimane implicita e si può arguire dalla composizione dei due volumi) tra le lettere scritte come uomo pubblico e segretario di principe, che compongono il primo volume, e quelle più 'private' che sono contenute nel secondo;30 in seguito invece la distinzione tra lettere familiari e lettere di negozio diventerà sempre più esplicita sia nella teoria che nella pratica epistolografica.31
Il canone degli epistolografi in volgare
Come accennato nel paragrafo precedente, Contile, dopo aver portato a sostegno della sua tesi sull'eccellenza del genere epistolare (e della lettera familiare in particolare) l'esempio di alcuni importanti autori classici (Platone, Timeo, citato in quanto corrispondente di Pitagora, e ovviamente Cicerone) e umanisti (Pico della Mirandola, Poliziano, Merula, Sadoleto e Bembo), accosta a questi un gruppo di autori di lettere in volgare. Mentre le precedenti auctoritates erano state proposte per la varietà e l'elevatezza del contenuto delle loro lettere familiari, questo manipolo di autori contemporanei è anche definito da un'aggettivazione che ne precisa lo stile, rappresentando quindi non più la varietà dei contenuti bensì quella dei modi:
Molti altri poi nella nostra lingua materna non hanno con artifitioso stile a più & più amici & gran Signori scritto come il Bembo ornato, il Guidoccione sonoro, il Caro giocondo, il Ruscelli sensato, il Domenichi puro, il Dolce accorto, il Tasso leggiadro & il Tolomei facondo & dotto: leggendosi nelle sue Epistole quasi ogni suggetto, o ver particolare auuertimento di tutte le scientie? Come giustamente osserva Quondam,32 i tre autori di un proprio epistolario qui citati, Bembo, Tasso e Tolomei, sono di fatto i protagonisti della stagione dei «libri di lettere» e la preminenza loro accordata dal Contile è pienamente condivisibile e comprensibile, come sono comprensibili i motivi per cui non sono stati nominati gli altri autori di raccolte in proprio, perché si tratta di «edizioni spesso anche occasionali e geograficamente remote rispetto alla stanzialità tutta padana del Contile degli anni sessanta».33 Giovanni Guidiccioni e Annibal Caro, pur non avendo pubblicato i loro epistolari,34 erano entrambi presenti con un considerevole numero di lettere in tutte le maggiori raccolte antologiche: Guidiccioni è presente con 10 lettere nei due libri di Lettere volgari dei Manuzio, 2 nel Novo libro di lettere di Paolo Gherardo, 4 nelle Lettere scritte al Signor Pietro Aretino, ben 25 nelle Lettere di tredici huomini illustri di Dionigi Atanagi, e addirittura 33 nelle Lettere di diversi eccellentissimi huomini raccolte da Lodovico Dolce;35 Caro con 10 lettere nella raccolta Manuzio, 5 nella raccolta Gherardo (anche se due delle lettere vengono eliminate nell'edizione del '45), una nelle Letere di diversi autori raccolte da Venturin Ruffinelli,36 una nelle Lettere a Pietro Aretino, 13 nei Tredici huomini illustri e 18 nella raccolta del Dolce. Anche Lodovico Dolce era presente in numerose antologie epistolari, pur non arrivando ad eguagliare i numeri dei due illustri letterati: troviamo 5 sue lettere nelle raccolte Manuzio, 5 nella raccolta Gherardo (nell'edizione del '45 vengono soppresse quattro sue lettere ma ne vengono aggiunte 7 di nuove), 3 nella raccolta di Ruffinelli e 15 nelle Lettere a Pietro Aretino; nel suo caso avrà sicuramente contato come titolo di merito anche la redazione della raccolta antologica uscita presso Giolito, nella quale peraltro non aveva incluso alcuna sua lettera. Sono invece sporadiche le presenze nelle raccolte antologiche degli altri due poligrafi citati da Contile: di Lodovico Domenichi troviamo solo 11 lettere nella raccolta Gherardo (9 delle quali aggiunte nell'edizione del '45)37 e 2 nelle Lettere a Pietro Aretino; quest'ultima raccolta è anche l'unica a contenere lettere di Girolamo Ruscelli (solo 3). Se il punto di riferimento principale sono comunque le raccolte citate, l'inserimento di Ruscelli e Domenichi, che sono presenti con poche (o, nel caso di Ruscelli, pochissime) lettere in due sole raccolte, sembra suggerire che la fama di epistolografi si poteva ancora guadagnare anche al di fuori della pubblicazione a stampa. Più facile è invece vedere rispecchiata nelle opere a stampa la fama degli autori che, vent'anni prima, Anton Francesco Doni, nella dedica a Lodovico Domenichi del suo primo libro delle Lettere, aveva scelto come suo personale canone di eccellenti epistolografi: «M. Annibal Caro, [...] M. Francesco Torre, [...] M. Iacopo Bonfadio»; i tre sono gli autori più rappresentati nella raccolta di Paolo Manuzio (rispettivamente con 12, 30 e 18 lettere), che nel 1544, quando Doni scrive la sua dedica era di certo il punto di riferimento principale.38 Riscrivendo la dedica del suo primo libro per l'edizione dei Tre libri di lettere del 1552 Doni inserisce tra Caro e Della Torre due epistolografi che nel frattempo avevano pubblicato le loro raccolte personali: Claudio Tolomei (1547) e Bernardo Tasso (1549); non viene invece accolto tra i suoi modelli il Bembo, il cui epistolario pure era stato pubblicato dagli esecutori testamentari tra il 1548 e il 1552. Confrontando questa lista con quella che Contile compilerà dodici anni dopo si nota l'aggiunta da parte di Contile dei tre poligrafi e di Guidiccioni, che pur essendo presente già nelle prime raccolte diventa uno degli autori più rappresentati nelle raccolte dell'Atanagi e del Dolce, entrambe pubblicate per la prima volta nel 1554, quindi dopo l'uscita dei Tre libri di lettere del Doni (vedi sopra). Ma ancor di più si nota l'assenza, rispetto alla lista di Doni, di Francesco Della Torre e Jacopo Bonfadio, che, come si è visto, tra tutti gli autori presenti in questi elenchi erano i più rappresentati nelle antologie manuziane, mentre nelle raccolte successive la loro fama segna un po' il passo, anche se il Della Torre, che è assente nella raccolta Ruffinelli e nelle Lettere a Pietro Aretino, è presente con 2 lettere nella raccolta Gherardo, è tra i Tredici huomini illustri dell'Atanagi con 18 lettere (16 nell'edizione del '56), ed è tra gli autori antologizzati dal Dolce, con 13 lettere; il Bonfadio, assente nelle Lettere scritte a Pietro Aretino e nella raccolta dell'Atanagi, è rappresentato con 3 lettere nella raccolta Gherardo (solo una però è conservata nell'edizione del '55), con 6 nella raccolta Ruffinelli e con ben 26 lettere nella raccolta del Dolce.39 Colpisce, ma non stupisce, l'assenza in entrambi gli elenchi di Pietro Aretino, iniziatore ma non modello di questo genere. Il convitato di pietra è nominato solo in una delle dediche esaminate (quella di Nicolò Martelli per la quale vedi sotto) e non come modello ma come sostegno per un'affermazione sul genere epistolare. Lo stesso Aretino peraltro, in una lettera a Girolamo Molin dell'ottobre 1549, aveva proposto, polemizzando con il Tasso, che sosteneva che «niuno autore di lettere è degno ch'altri lo imiti al dì d'oggi»,40 il suo elenco di epistolografi imitabili, raggruppati intorno a due teste di serie, che aveva già proposto come modelli imprescindibili al Tasso nella lettera precedente, cioè Bembo e Tolomei; i due gruppi comprendono dunque: «il Bembo, il Molza, il Castiglione, il Guidiccione, Giulio Camillo» e «il Tolomeo, il Fortunio, il Caro, il Dolce, il Cesano».41
Sulla lingua e sullo stile
Molte delle dediche esaminate contengono una breve descrizione delle qualità e dei pregi del volume che introducono; anche in questo caso l'intento è evidentemente promozionale: per esempio Doni, nella dedica del suo Secondo libro di lettere ad Agostino Bonucci, priore dell'ordine dei Serviti, decanta il suo libro come «honesto diporto» per quando il Servita volesse passare «da suoi gravissimi pensieri a più piacevoli cure»; oppure Pizzimenti descrive l'epistolario di Minturno come opera «dolcissima, dottissima e veramente degna d'esser letta» e aggiunge: «quanta sia la dottrina di queste lettere, che leggiadria, che ornamenti di parole, e di sentimenti, con che giuditio, con che ordine, con che stile sieno scritte, ciascun da se leggendole se ne potrà informare»; per Lando le lettere di Lucrezia Gonzaga «meritano di essere anteposte à molte scritte à nostri tempi da letterati ed accorti ingegni».
L'argomento sul quale ci si sofferma maggiormente nel descrivere le caratteristiche del libro che si sta dedicando è la lingua; l'adozione del volgare per l'epistolografia colta e la considerazione in cui sono tenute queste lettere, che vengono ritenute degne di essere raccolte e stampate e di confrontarsi quindi con i grandi epistolari latini (classici e umanistici) è infatti il tratto distintivo di queste raccolte. Non va dimenticato inoltre che il periodo della fioritura delle raccolte d'autore coincide con l'affermarsi del modello bembesco a livello teorico e a livello pratico.42 Non sarà un caso se il primo epistolario proposto esplicitamente come modello di lingua è proprio il Primo volume delle lettere di Pietro Bembo: nella dedica al cardinale di Santafiora, lo stampatore Valerio Dorico sottolinea che l'opera è un «pretioso et sacro thesoro della nostra volgar lingua» (con l'ultimo sintagma che richiama il titolo delle Prose); compito del dedicatario sarà «comunicarlo et parteciparne gli studiosi della medesima lingua: i quali per essere hoggimai senza numero; infinite gratie et col cuore et con gl'inchiostri, per lo giovamento et prò, che di tanto dono uerrà loro, ogni giorno gli renderanno». Da notare, oltre all'identificazione del destinatario privilegiato dell'opera negli studiosi della «volgar lingua», anche l'osservazione, condivisibile, che a quei tempi (1548) essi fossero molto numerosi. Nella dedica delle Lettere del Minturno, uscite l'anno dopo il Primo volume delle lettere di Bembo (nel 1549), si trova un'affermazione molto simile (e forse non si può escludere il desiderio di emulazione da parte del Pizzimimenti): «Sì che non d'altra caggione sospinto che da l'amore e da l'affettion ch'io porto a' giovani studiosi di questa lingua, deliberai col darla in luce (che che avvenirmene debba), farne ciascun partecipe». Più avanti però, dopo aver nuovamente lodato il libro per il suo contenuto e la sua forma («Quanta sia la dottrina di queste lettere, che leggiadria, che ornamenti di parole, e di sentimenti, con che giuditio, con che ordine, con che stile sieno scritte, ciascun da se leggendole se ne potrà informare»), Pizzimenti specifica che la sua utilità per i «giovani studiosi» (e si noti l'aggiunta dell'aggettivo) è di fare in modo che possano «conoscere la forma de l'ornato raggionar per lettere, & apparare il modo di scrivere o di respondere in qualunque materia gli si farà inanzi».43 L'interesse non sarà quindi, come nel caso del Bembo, la lingua dell'opera in generale, ma specificamente l'uso della lingua volgare nella scrittura delle lettere. Al di là degli intenti, va ricordato che l'affermazione di Dorico corrisponde certamente alla realtà (non c'è dubbio che molti acquistassero il volume per vedere come scriveva le sue lettere l'autore delle Prose e degli Asolani), mentre riesce difficile pensare che qualcuno abbia davvero acquistato l'epistolario di Minturno, che teorizza un ibridismo linguistico molto vicino alla teoria cortigiana,44 con lo scopo imparare a scrivere buone lettere in volgare. Anche Francesco Sansovino, quando ripubblicherà nel 1560 i quattro volumi dell'epistolario bembiano ricorderà, nella dedica del Terzo volume a Girolamo dalla Torre, l'importanza dell'autore per la storia di quella lingua volgare che si era ormai decisamente affermata tra i letterati, definendo Bembo con la perifrasi «vero suscitatore & sostenitor della lingua volgare»; anche nel motivo dell'eccellenza di Bembo tra gli altri autori di epistolari torna il dato linguistico, con l'avverbio toscanamente: «percioché & facilmente, & dolcemente, & Thoscanamente trattando le cose ch'egli prese a trattare, si ha di gran lunga lasciato a dietro molti altri maravigliosi intelletti de nostri tempi». Più spesso però, più che semplici osservazioni sulla scelta della lingua volgare e sulla valenza di modello (di lingua in generale o di lingua epistolare) rivestita da queste raccolte, si trovano nelle dediche osservazioni sullo stile epistolare. Nella dedicatoria di Nicolò Martelli a Maddalena Bonaiuti, accanto alla non trascurabile rivendicazione dell'autenticità delle lettere («e tanto più quanto e quelle e l'altre son proprie vere & non finte come l'occasioni che in esse intervengono; né potranno fare ad altrui indubitata fede»), troviamo un'orgogliosa dichiarazione della «naturalezza», intesa in senso aretiniano, dello stile della raccolta: «né mi sono curato in ciò di imitare i Ciceroni, e i Demostheni, né usare arte alcuna di color Rettorici, ma le ho scritte proprio nello stile che la natura, la favella ne porge». La dichiarazione di antiretorica è motivata proprio da una presunta caratteristica intrinseca del genere epistolare: «Perché uno è scriver lettere, altro è scrivere novelle − disse il gran Profeta Pietro Aretino».45 La dichiarazione di rinuncia ad «usare arte alcuna dei colori Rettorici» è retoricamente esagerata: le lettere del Martelli infatti, anche se mantengono effettivamente una certa fresca immediatezza che le rende più realistiche di tante missive di suoi contemporanei nelle quali il labor limae è evidente, sono tutt'altro che prive di retorica; ecco, a titolo di esempio, alcuni passi dalla seconda lettera della raccolta, indirizzata al cardinale di Lorena: «Poiché la fortuna in Roma mi porse la prima volta la fronte lieta, et io non la seppi tenere, nondimeno l'animo nel quale viverete sempre mio Signore, di continuo vi ha osservato e osserva»: e ancora: «& se l'augurio del velluto volto in cremisi le indovinasse salire al grado, il quale meritaste prima che voi aveste il cappello, saria quello che non pure io solo, ma tutto il mondo vorria».46 Anche Bernardo Tasso dedicando il Primo volume delle sue lettere ad Antoine Perrenot de Granvelle propone la sua dichiarazione di antiretorica: ogni persona di perfetto giuditio [...] non con quel desiderio a leggere questo mio piccolo libro si disporrà, che soglia l'ignaro vulgo andare a qualche spettacolo, per dilettarsi solo nei leggiadri giri di belle parole: nè vorrà in quello errore cadere che quelli caggioni, i quali ne divini dialoghi di Platone, o nelle maravigliose orationi di Demosthene la purità dell'Attica favella solamente vanno ricercando, a guisa d'infermi che nella medicina più tosto l'odore per dilettarsi, che la virtù per rendersi sani vanno procurando. In questo caso evidentemente l'accento non viene posto sulla naturalezza del dettato rivendicata da Nicolò Martelli come caratteristica del genere epistolare, ma sul valore del contenuto e sull'utilità di questo come preminenti sull'eleganza della forma. Allo stesso tempo però, proprio in uno sfoggio di retorica, Bernardo ridimensiona sia la presunta «ineleganza» della forma che la «dottrina» del contenuto: «Né però voglio inferire, che queste mie lettere sì incolte siano, sì prive d'elegantia, & di candore, che del tutto di dispregio, & di scherno degne siano giudicate, né si piene di sententie, et di dottrina, che molta loda possano giustamente meritare».47 La questione della naturalezza o meglio del suo contrario, l'artificiosità, è ripresa nella dedica a Girolamo Quirini del Secondo volume delle lettere di Bembo dall'editore Antonio Manuzio; come osserva infatti Matt «sin dall'apparizione del primo volume si registrarono [...] reazioni tutt'altro che entusiastiche; ciò che lasciava interdetti molti lettori era proprio il tono troppo elevato di molte pagine, inadatto alla scrittura epistolare».48 Perciò Manuzio avverte: «Et se per aventura le lettere di S. S. non paiono ad alcuno sì ferialmente scritte, come il comune uso è di scrivere & di favellare, noi non crediamo che elle siano per ciò punto men belle o men lodevoli», questo perché, scrive Manuzio, «ogniuno non favella a un modo» ossia ciascuno si esprime in maniera diversa.49 Per questo motivo, sostiene, «la loda delle lettere è posta più in somigliare i volgari, che in essere volgari».50 Se da una parte Manuzio si sente in dovere di giustificare la ricercatezza della scrittura di queste lettere, che avrebbe potuto deludere chi riteneva che lo stile epistolare dovesse somigliare al parlato, allo stesso tempo previene chi pensasse che «i libri delle lettere di M. P. siano di minore stima, percioché esso non gli habbia diligentemente compilati ma solo sanza alcuno studio dettati, & spetialmente questo, che noi mandiamo hora a V. M.» (perché si tratta del Secondo volume e quindi delle lettere agli amici). Infatti, continua Manuzio, i nobili scrittori per lunghissimo spatio, & fino da fanciulli avezzi essendo, & habituati a scriver bene & regolatamente etiandio volendo non possono altro che bene e regolatamente scrivere. anzi ho io leggendo questo libro & con gli altri volumi delle Lettere scritte da M. P. comparandolo assai chiaramente compreso di quanta forza sia l'arte dello scrivere per lungo uso ne divini ingegni habituata: conciosia, che tutti con rimesso stile & humile dettati essendo, ciò non ostante in ogni modo sono l'uno dall'altro con dissimile somiglianza differenti. La «dissimile somiglianza» è dovuta alla diversità dei destinatari delle raccolte: Percioché quello, che contiene le Lettere scritte da lui a persone graduate & a Prencipi senza scemare punto della sua humiltà è non so come grande & magnifico. & quello, dove raccolte sono le Lettere, che esso a molte Donne mandò in quei tempi, è fiorito & ridente, & d'una quasi baldanzosa temperanza cosparso; questo poi ripieno di quella dimestichezza, con la quale gli amici favellano tra di loro, & in niuna parte di sé alcuno apparente ornamento havendo, è tutto ornato et tutto vago. Tutto ciò rende anche questa opera di Bembo modello di scrittura ornata: per la qual cosa chiarissimo debbono riputare questo volume coloro, che a scrivere ornatamente si danno; conciosia che tutto che altri sia molto ammaestrato & molto habbia & precetti & consigli d'intorno a qualunque arte, che egli faccia, uditi et raccolti, non di meno spesso erra, se egli non ha dinanzi a gli occhi la forma & lo essempio, co'l quale possa la sua opera misurare & regolare, dal momento che «non meno giovano a chi impara gli essempi particolari che le generali regole». Se nella dedica del Terzo volume al Cardinale di Urbino Gualtiero Scotto non si sofferma sullo stile del Bembo che con poche parole («terso & leggiadro stile»), nel Quarto volume lo stesso editore tematizza la questione della difficoltà di mantenere uno stile elevato nel trattare di materie umili: noi habbiamo sempre stimato che fra tutte l'humane operationi niuna ne sia più malagevole a fare, che lo scrivere bene & leggiadramente: non solo le alte materie & gravi & magnifiche, ma queste humili & rimesse anchora parimente: le quali tanto più faticoso è con alcuna degnità dettare, quanto esse niuno apparente ornamento pare che comportino. Per questo motivo, quindi, i libri di lettere del Bembo, e in particolare questo Quarto volume, sono per Scotto particolarmente ammirevoli, perché non soccorrendo l'elevatezza della materia, più oneroso risulta l'impegno di mantenere elevato lo stile: La onde io reputo sanza alcun dubbio che fra le scritture di Mons. Ill.mo Bembo, quantunque elleno tutte di maravigliosa vaghezza ornate, & di prudenza & di gravità & di amabiliss.a dolcezza ripiene siano; non di meno i volumi delle vulgari lettere debbano da ciascuno essere non meno di alcuna altra apprezzate & care tenute: & spetialmente questo presente quarto volume [...]: però che ne precedenti libri la materia & le cose hanno il più delle volte, quanto questo semplice stile sostiene, abondevolmente porto & ragioni & parole, onde egli quelle lettere dettasse; ma questo per lo più in salutando, in visitando, in ringratiando, in raccomandando si spende, le quali materie sono per se stesse di argomento povere & ignude, & oltre a ciò da ogniuno ogni dì scritte & trattate. Solo due altre dediche contengono qualche cenno allo stile delle lettere della raccolta: Contile, nella dedica del Secondo volume ad Alessandro Cremona definisce le sue lettere «ornate di stile numeroso & sonoro», ossia armonioso e melodioso, e infine Giovambattista Caro ci fornisce una carrellata delle qualità che si ricercavano nelle lettere di negozio (quelle che non aveva voluto pubblicare per il momento, vedi sopra): «vedere con che prudenza, con che destrezza & con che gravità egli [scil. Caro] habbia trattato un negotio, & come habbia osservate tutte l'altre conditioni che si convengono a un buon Segretario»; e quelle che si potevano trovare nelle familiari: «la familiarità, & la piacevolezza, con che egli trattava co' suoi amici: le maniere, con le quali tratteneva i suoi Padroni: & in somma, quella ingenuità, & quella candidezza di stile, & di costumi, che egli usava con ognuno».
Silenzi eloquenti
Se si ripercorrono i paragrafi precedenti si può notare che, con l'ovvia eccezione del primo (che passa in rassegna i modi di nominare l'opera dedicata), le dediche dell'Aretino non vi sono mai citate. Le sei dediche dell'Aretino, infatti, sono tutte incentrate sulla figura del destinatario e sul suo rapporto con l'autore e lo spazio riservato al libro, quando c'è, non mostra mai la consapevolezza (che pure l'Aretino aveva) della specificità di questo tipo di raccolte. Come Aretino anche il suo primo epigono, Nicolò Franco, non lascia spazio, nella retorica di cui è strettamente intessuta la sua dedica a Leone Orsini, per alcuna osservazione sulla composizione o le caratteristiche della raccolta, né per alcuna riflessione sul neonato genere epistolare in lingua volgare.
Anche le dediche degli epistolari di Girolamo Parabosco, Lucrezia Gonzaga, Giovan Camillo Maffei e Vincenzo Martelli non contengono alcuna osservazione sul libro e sul genere a cui appartiene; si tratta in questi casi di dediche molto brevi e quasi frettolose. Se può stupire l'understatement con cui Lando presenta quella che in fondo era una novità editoriale, un epistolario femminile, (prima delle Lettere di Lucrezia Gonzaga, erano state pubblicate solo le lettere di Caterina da Siena e le poche Litere di Vittoria Colonna, entrambe di argomento spirituale),51 risulta invece più comprensibile lo scarso interesse per le specificità del genere epistolare in tre volumi che non sono interamente centrati sulle raccolte epistolari: Parabosco infatti, che pure aveva avuto già un discreto successo con la sua raccolta di lettere amorose, pubblica le familiari insieme con il Primo libro de' suoi Madrigali, per i quali era certamente più famoso; le lettere di Maffei in verità servono quasi da contorno alla prima lettera, che è un vero e proprio trattato, un «discorso della voce e del modo d'apparare di cantar di garganta senza maestro» (Maffei era un musicista ma anche un medico e quindi univa e metteva a frutto in questo trattato le sue conoscenze di musica e fisiologia); la raccolta di Vincenzo Martelli conteneva infine Rime e Lettere e ad entrambe (con maggiore attenzione alle prime) si riferisce la dedica, anche se è probabile che poi le lettere riscuotessero un successo maggiore rispetto alle rime, visto che nella successiva edizione (1606) l'ordine delle due parti del libro è invertito.
Altri peritesti
Alcuni epistolari presentano, oltre alla dedica, altri peritesti discorsivi.
Orazio Brunetto, che già aveva riservato molte pagine alla lettera dedicatoria, si ricava uno spazio per ulteriori precisazioni in un avviso «All'Amico Lettore» e in una nota «A li Assentatori». L'avviso al lettore è tutto dedicato alle lettere che compongono la raccolta, delle quali Brunetto vuole sottolineare la varietà: Quivi troverai discorsi spirituali, concetti philosophici, soggetti famigliari, ringratiamenti, raccomandationi, offerte, dubbi, solutioni, conclusioni, consolatorie, ragionamenti amorosi & pastorali, & altre piacevolezze d'ogni sorte, di modo che in questo campo non mancano cose gravi, mediocri, basse, meste, piacevoli, curiose, & facili. La varietà dei contenuti non si rispecchia in una corrispondente varietà di stile: assai modestamente Brunetto sostiene che «un solo sia lo stile, assai digiuno, et arido». Ma lo stile, per Brunetto (come sarà più tardi per Bernardo Tasso, vedi sopra), deve passare in secondo piano rispetto all'invenzione e al soggetto. Vanno notati poi altri due punti dell'avviso: l'iniziale affermazione che le lettere «amare» sono per la maggior senza nome, cioè senza destinatario, perché sono fittizie «& non mordono alcuno particolare, ma solamente accennano certe cose generali», e l'affermazione di avere nelle sue lettere «fatti vari discorsi» e «ragionato brevemente»; la rivendicazione di stringatezza suona strana nella penna del prolisso Brunetto, ma va tenuto presente che il ragionare (e scrivere) in breve era una delle qualità richieste al bravo epistolografo. Brunetto, ancora, si rivolge agli «assentatori», cioè gli adulatori; si tratta però di adulatori malevoli e gelosi («invidi»), che gli muoveranno, secondo le sue previsioni, una serie di perfide obiezioni: prima fra tutte di non possedere i titoli per pubblicare un libro di lettere volgari in quanto medico e non letterato, e poi di aver scritto in volgare pur non avendone mai fatto «professione» («A quali io risponderò, che dicano vero, non di meno dirò loro, che m'è sempre piaciuto di farmi intendere in quella lingua: ne la quale sono nato, & di parlar bene, non barbaramente»); ancora, Brunetto ritiene che gli verrà rimproverata la giovane età (tema che avevamo già trovato nella dedicatoria e nell'avviso ai lettori), o la sua scarsa fama.52 I più malevoli («altri più invidi»), secondo Brunetto, entreranno nel merito del testo, dicendo: «Questo è falso, quest'altro non sta bene, & questo vorrebbe meglio espresso, quel passo non mi piace: egli starebbe meglio in altra maniera, & quivi manca il decoro, & in altra parte il numero» (questo passo, con la sua serie di incalzanti critiche espresse da un discorso diretto, ricorda da vicino la dedica ai lettori del Doni nel Primo libro). Con l'ultima immaginata obiezione, in verità, Brunetto introduce un elogio di sé stesso in quanto sperimentatore, «c'ha voluto scrivere Philosophia in lettere volgari, fingere nuove forme di lettere pastorali, & introdurre altre novità» e su questo tono è anche la sua risposta: «o buone, o tristi, che siano le cose, doviamo sempre più a li loro inventori, che a li correttori, & ampliatori di quelle, come anco se fallano, sono più degni di scusa, che quelli».53 L'epistolario del Minturno contiene, oltre alla dedica, altre due lettere del curatore ai lettori. Quella che apre il sesto libro è rivolta «Al gentilissimo lettore» e illustra una particolarità di questo libro: le cinquanta lettere che lo compongono sono selezionate e riunite dal Pizzimenti per rappresentare esempi delle diverse «maniere di lettere»;54 segue poi l'elenco dei temi trattati in ciascuna lettera. Questa sistematizzazione è pensata per quei «giovani disiosi di saper tenere quella forma nello scriver dela lettera che la maniera di lei richiede», giovani ai quali Pizzimenti, già nella dedica, indirizzava specificamente il volume.55 Una lettera del Pizzimenti indirizzata «A' lettori» apre anche il settimo libro, che contiene le lettere di Minturno alla Marchesa della Paluda e ad altre dame. Pizzimenti si rallegra di averle trovate tra le lettere del Minturno e sottolinea come si tratti di espressioni di amore platonico (che secondo lui possono rivaleggiare in prosa con quelle «rime, che de' medesimi fregi adornò il Petrarca»), un tipo di amore che, anche se si esprime con le stesse parole dell'«amor volgare», è a questo superiore; l'espressione dell'amore platonico è inoltre di gran lunga più giovevole ai lettori.56 Lo stesso linguaggio, osserva ancora Pizzimenti, è addirittura usato nelle Sacre Scritture: «Amore langueo, & vulnerasti cor meum, e simili parole si leggono de la sacrata scrittura, a dimostrare l'ardentissimo amore di Giesù Christo Dio e Signor nostro verso la Chiesa diletta sua sposa». Perciò, come ribadisce più volte il curatore, nessuno si deve sentire offeso da queste espressioni di un amore tanto onesto che Minturno non mancò di rallegrarsi con la Marchesa per il suo matrimonio con Francesco D'Este.57 La prima edizione (Valgrisi 1549) dell'epistolario del Tasso si conclude con una lettera di risposta di Annibal Caro sulla questione delle Signorie;58 la lettera è preceduta da un avviso dell'editore, che esprime la propria intenzione di aumentare, nell'eventuale seconda edizione, il numero delle risposte alle lettere del Tasso, «come per che dalla bellezza dell'une si conoscesse la vaghezza dell'altre: conciosiacosa che le cose poste a paragone più chiaramente mostrano l'essere loro».59 Questo non succederà; l'avvertimento ai lettori sarà soppresso a partire dalla terza edizione (1553) e dall'edizione del Giglio (1559) in poi la lettera di Caro sarà spostata all'inizio del volume, e precederà la risposta di Tasso, che apre il vero e proprio libro di lettere dell'autore. Il Quarto volume delle lettere di Bembo contiene, tra la dedica e l'occhiello, un avviso «A i benigni lettori», che reca la stessa data della dedica a Elisabetta Quirini (15 marzo 1552). Tema di questa notizia ai lettori sono le lettere giovanili del Bembo pubblicate in questo volume in un'apposita sezione intitolata appunto Lettere giovenili, per le quali l'editore e i curatori sentono di dover fornire qualche giustificazione perché «la materia, la quale esse trattano, & il loro stile giovenile & delicato potrà peraventura parer a molti non conveniente a l'autore di esse; sì come troppo molle & troppo vezzoso». La pubblicazione di queste lettere viene giustificata dall'impossibilità di nasconderle dal momento che, si scrive, erano già state altrimenti divulgate; si chiede inoltre al lettore di tenere presente che erano state dettate da un «giovane di privata conditione nella sua nuova età» e non dal Pietro Bembo cardinale e letterato da tutti conosciuto. La pubblicazione nel volume ufficiale delle Lettere, inoltre, avrebbe permesso agli editori di cancellare alcune cose «le quali male sarebbe, che fossero così da ciascuno sapute & le quali non di meno rimosse & taciute non iscemano punto né della vaghezza di queste lettere né del diletto de discreti Lettori»,60 oltre che di evitare i danni che avrebbero causato gli stampatori clandestini, «i quali sarebbono costretti di stamparle scorrette; sì come quelli, che non le possono havere emendate: conciosia, che chi scrive & copia in fretta, & di nascosto, non possa altrimenti scrivere, che scorrettamente». Secondo Dionisotti, peraltro, il movente più impotrante per la pubblicazione di queste lettere era la volontà di attenersi fedelmente alla volontà testamentaria di Bembo, che con la sua sensibilità di uomo del primo Cinquecento (ben diversa da quella del periodo nel quale vennero pubblicate le sue lettere), aveva inserito senza esitazioni queste lettere nel suo progettato epistolario.61 Nel breve avviso «A' i lettori» che segue la dedica del Primo libro delle lettere di Pietro Lauro troviamo infine una precisazione che ricorda quella di Brunetto sulle lettere «amare»: «Ancora che in queste mie lettere si leggano molte punture, [...], nondimeno la mia intentione non è di pungere alcuna particolar persona, che si trovasse in queste lettere nominata, a caso più tosto, che a studio»; queste lettere sono infatti state incluse nella raccolta al fine di «dipingere i vicij con i propij colori & laudare la virtù». Tutti i testi considerati in questo paragrafo sono scritti in forma epistolare e si concludono tutti con formule di congedo o saluto, tranne l'avviso ai lettori del Quarto libro dell'epistolario di Bembo, che in compenso, come abbiamo visto, è datato.
Due pseudodediche e una criptodedica
Nel primo volume delle Lettere di Bernardo Tasso l'epistola dedicatoria, indirizzata a Monsignor d'Arras, è seguita da una lettera a Ferrante Sanseverino, datore di lavoro e protettore del Tasso. La lettera ha un esplicito contenuto prefatorio ed è situata tra i peritesti; questo ha indotto gli studiosi a ritenerla un'ulteriore dedicatoria.62 Manca però (come avevo già osservato nella prima parte di questo lavoro) l'esplicitazione del gesto di dono o dedica; anzi, alla fine della lettera, Tasso spiega di aver posto l'opera «sotto l'ombra e sotto la protezione» di Monsignor d'Arras, il vero dedicatario. Inoltre, mentre la dedica è stampata in tondo, la lettera al Sanseverino è stampata in corsivo, come tutte le altre lettere contenute nel libro. Questa lettera rappresenta in un certo senso un compromesso tra la volontà di Tasso di esprimere la propria riconoscenza al suo principale mentore e mecenate e la necessità di porre l'opera sotto il patrocinio di un personaggio più nettamente autorevole e meno discusso del Sanseverino.63 Il Sanseverino viene indicato in questa lettera come colui che ha incoraggiato Tasso a pubblicare le sue lettere, nonostante la riluttanza dichiarata dall'autore. Tasso infatti sostiene che le sue lettere siano tali «che né giovare possono, né dilettare» (diletto e giovamento sono concetti che si trovano spesso accoppiati nelle dediche).
La parte che segue è densa di topoi prefatori del genere epistolare, a cominciare dalla descrizione degli amici dell'autore, «i quali con tanta diligentia queste sue lettere hanno raccolte», per proseguire con la dichiarazione che Tasso «non scrisse mai lettere, perché sperasse, che andassero in mano de gli huomini, fuor che di quelli, a cui o per suo bisogno, o per loro servitio erano indirizzate» (con la distinzione tra lettere familiari e di negozio), per finire con la giustificazione addotta per spiegare perché egli stesso avesse conservato copia di molte sue lettere («le quali perlopiù fastidiose sempre parlavano di negotij») più con finalità documentarie («per dare ragione a gli amici, & a i Signori, a cui ho servito, de le ationi mie»), che con scopi letterari. Segue poi l'elenco, altrettanto topico, di critiche che potrebbero essere mosse all'opera, dalle quali il Sanseverino dovrà difenderlo: povertà d'invenzione, una disposizione poco accorta, una non sufficiente varietà di materie e stili, povertà dell'ornatus; nello stesso tempo Tasso teme di poter essere accusato di essere troppo parco di figure di parola (metafore, comparazioni, sentenze e simili) ma anche di usarne troppe, con il rischio di risultare oscuro. L'autore suggerisce al Sanseverino di rispondere a queste obiezioni con un argomento che egli stesso aveva già utilizzato nella dedica a Granvelle, ossia la preminenza del contenuto sulla forma, invitando i critici a porre attenzione «più alla forza, et all'utilità de le sententie, che alla leggiadria de le parole». Interessante è la successiva obiezione immaginata da Tasso: «che molte d'esse [scil. lettere] più tosto poemi, orationi, & historie in lettere travestite, & mascherate, che lettere si possono con ragione nominare»; l'usanza di introdurre negli epistolari materiale eterogeneo, di solito introdotto dalla lettera con la quale lo si era inviato a qualcuno, è tutt'altro che rara negli epistolari cinquecenteschi; Tasso non si sofferma su questo aspetto, che a ben vedere sarebbe in contrasto con la presunta natura di vere missive personali, poco prima rivendicata, ma torna subito a immaginare critiche allo stile delle lettere, che potrebbero essere giudicate (dai critici ingiusti) «senza prudentia, senza decoro, senza coltezza: piene d'oscurità e di fastidio». Troviamo infine un accenno alla diffusione e alla fortuna degli epistolari d'autore, con i quali Tasso è conscio di doversi (e volersi) misurare: «le quali [scil. lettere] certamente poco aventurate state sono, a non prima mostrarsi, che tanti divini, & maravigliosi scrittori havessero le loro mandate fuori».64 In verità troviamo un caso molto simile a questa lettera del Tasso già nel Primo libro di lettere di Aretino: la lettera che apre l'epistolario è indirizzata al doge Andrea Gritti e molti elementi contribuiscono a metterla in risalto come «una specie di seconda dedicatoria»,65 primo fra tutti il non allineamento all'ordinamento delle altre lettere che sono disposte in progressione cronologica a partire dall'aprile del 1525 (data della lettera a Francesco I, re di Francia), mentre la lettera al doge che apre la raccolta è senza data, ma molto probabilmente scritta appositamente in occasione della stampa del volume, nel 1537.66 Anche in questo caso si può parlare di dedicatoria solo in senso lato perché, nonostante l'atto di omaggio alla liberalità e all'accoglienza del Doge e di Venezia, la città che egli rappresenta, non solo non vi si trova l'esplicita donazione dell'opera che caratterizza le dedicatorie, ma non vengono nemmeno affrontate questioni prefatorie, come avveniva invece nella lettera di Bernardo Tasso a Ferrante Sanseverino presa in considerazione poco sopra. Si ricordi però che le dediche dei Libri di lettere dell'Aretino erano sempre incentrate sul dedicatario, e non riservavano comunque al libro se non ridotti spazi di circostanza. Genovese67 fa notare come la lettera si apra con il pronome «io», che torna quasi martellante lungo tutto il testo. Secondo Genovese, quindi, si tratta di una specie di testo proemiale che delinea «i grandi temi di questa stagione aretiniana», quella cioè raccontata nel libro di lettere.68 Consideriamo infine un ultimo caso: il volume delle Lettere di Claudio Tolomei è privo di dedica, su questo non ci sono dubbi.69 In effetti l'unico paratesto discorsivo contenuto dalla princeps è la lettera di Fabio Benvoglienti (uno dei curatori) a Mino Celsi, lettera che si finge contestuale all'invio del libro. Il Benvoglienti attribuisce unicamente alla propria iniziativa la raccolta delle lettere e la scelta di farle stampare, dicendosi consapevole che questa operazione potrebbe dispiacere al Tolomei, notoriamente restio a mandare a stampa opere sulle quali ritiene di non aver lavorato a sufficienza. Sostiene infatti che le lettere sono «poco emendate e riviste, e niente riordinate da lui» e che Tolomei considera «questa materia tanto leggiera, che non gli par meritarne laude alcuna». Benvoglienti ribadisce: L'aspettar ch'egli l'emendasse era buono, quando pur egli qualche volta l'havesse fatto: e so molto ben quanto più chiare, quanto più nette, e più spedite sarebbeno uscite fuore, s'egli l'havesse rivedute, e ripurgate. Ma conosciuta parte la natura sua, e parte considerati gl'impedimenti, che gli s'attraversano, ho giudicato esser manco male haverle in qualche modo, che perderle affatto. Il curatore si dilunga poi nell'illustrazione dei criteri ortografici adottati in ossequio alla teorizzazione e alle proposte normative di Tolomei,70 e si sofferma anche sull'aspetto più latamente grammaticale del testo: Alcuni ancora forse si maravigliaranno di vedervi grammatica in qualche parte diversa da l'altra, come (sia per esempio) amarò per amerò, legge ne l'imperativo per leggi, e vedeno in plurale per vedono: tutto questo sapeva M. Claudio: ma perché in questo modo la lingua gli par più regolata e più ferma, come mostra apertamente ne i libbri suoi de la grammatica; però ho seguito più tosto questa via che quell'altra. La conservazione di -ar- pretonico nella desinenza del futuro e la desinenza in -eno per la terza persona del presente indicativo dei verbi di seconda o terza coniugazione sono due dei tratti morfologici elencati dallo stesso Tolomei in una nota lettera inviata ad Annibal Caro nella quale annuncia che presto farà stampare i suoi libri di grammatica nei quali giustificherà il proprio uso linguisitico, che esemplifica con alcuni casi di usi diversi dalla norma fiorentina-bembesca («perché io più tosto dico, potevo, che poteva, e celarò e celarei, più tosto che celerò, e godeno più volentier che godono, e cantorono, più tosto che cantarono, e amasseno, più volentier che amassero, e sparsero, più tosto che sparseno»).71 Un'altra caratteristica del libro che Benvoglienti ritiene di dover spiegare è l'ordinamento delle lettere, che non è cronologico, come quelli della maggior parte degli epistolari usciti fino a quel momento, né per materie, secondo un uso che si andava progressivamente affermando, perché in questo libbro non s'insegna o matematica, o medicina, o filosofia naturale, o altra scienza alcuna; ne le quali bisogna proceder per i suoi principii a le conchiusioni, ponendo prima l'uno ordinatamente e poi l'altro: in cui è di grande importanza quel che vada innanzi e quel che segua doppo: anzi qui è tutto il contrario; tanto intenderà questo libbro chi cominciarà dal fine, quanto colui, che si farà dal mezzo, o dal principio, né già si vede che Cicerone, Platone, Plinio, o gli altri che hanno scritto lettere habbiano usato altrimenti. Si noti, oltre all'allegazione di termini di confronto tutti classici, l'indicazione della possibilità, sicuramente molto sfruttata dai lettori suoi contemporanei, di leggere questi epistolari 'per assaggi', senza seguire l'ordine imposto dall'autore o dal compilatore. Ancora, Benvoglienti annuncia che non ci sono, in questo epistolario, lettere di negozio («di faccende), «perche non è cosa ragionevole, che si palesino i segreti altrui: e si sono per lo medesimo rispetto occultati molti nomi, per non offender l'honore o l'animo d'alcuno».72 Infine si sono ancora in alcuni luoghi intrapposti discorsi, il che par materia molto lontana da le lettere familiari; e ciò ancora non s'è fatto senza buona ragione; perché ne le lettere è libero scriver d'ogni cosa che siam domandati, e di quello ch'ad ogni hora parliamo a bocca. In verità le cosiddette lettere-discorso, erano molto diffuse e apprezzate, tanto da costituire un vero e proprio sotto-genere con convenzioni proprie.73 Merita però di essere letta con una certa attenzione anche la prima lettera di questa raccolta, inviata dal Tolomei a Giovan Battista Grimaldi, uno dei suoi corrispondenti più assidui (ben 26 lettere a lui indirizzate sono contenute nella raccolta). In questa lettera Tolomei si scusa con il giovane corrispondente per non avergli inviato «alcune delle sue lettere volgari» che il Grimaldi gli aveva richiesto in quanto «invaghito de le cose Toscane». La giustificazione è quella addotta molto di frequente, per la sua reticenza a rendere pubblici i propri scritti (insieme con l'usuale professione di modestia): percioché in non so che modo regna in me una certa natural negligenza, la qual né mi lassa troppo operare, ne quel poco, ove pur talor m'affatico, ripolire e ornare. In tal guisa, che se alcun parto mai si vede di me uscire, non altro par certamente, che quel de l'orsa, scomposto, imperfetto, senza grazia, senza forma. L'altra motivazione del suo ritegno a far circolare i propri scritti è la paura che possano finire nelle mani di stampatori con pochi scrupoli: Non voglio ancor lassar di dirvi che questa ingordigia de gli stampatori mi fa paura, perché non prima s'allarga cosa alcuna o bella o sozza ch'ella sia, ch'essi allettati da ogni picciol guadagno, non lo pongano in istampa. onde spesso a i maestri de l'opere, che non l'havevan forse né emendate né finite, segue danno e vergogna. E certamente è cosa mal fatta, e degna d'esser corretta, che si stampino l'opere altrui senza il consentimento, e spesso contra il voler de loro autori. L'argomento, seppur topico,74 non era sicuramente pretestuoso: basti pensare cosa accadrà al Cesano dello stesso Tolomei, pubblicato nel 1555 da Giolito in un'edizione non autorizzata e scorrettissima.75 La fame di scritti degli stampatori e l'insoddisfazione del Tolomei per i risultati delle sue fatiche si conciliavano davvero male e spesso, come nel caso di queste lettere, il senese si dice forzato a lasciare la sua opera alle stampe dall'insistenza di amici e stampatori, i quali stampatori, scrive in una lettera ad Alessandro Citolini,76 «credo che un dì si porranno a stampare ciò che dicono le fantesche a lavatoi e forni». In ogni caso, Tolomei così conclude la lettera a Grimaldi: Avverrà forse un giorno ch'io mi porrò a la fatica di acconciare, e di ridur queste mie lettere volgari un poco in meglior forma, accioché se non belle e ornate come si converrebbe, almeno non cosi rozze e scomposte possan venir prima dinanzi a voi: e poi a tutti gli altri ancora. de le quali s'alcun giovamento o diletto prenderanno i lettori, ne doveranno render grazie a voi, per cui io principalmente mi sarò affaticato. A pubblicazione avvenuta le previsioni di Tolomei devono considerarsi avverate: il merito dell'acconciamento e della conseguente pubblicazione andrà quindi ascritto al Grimaldi, al cui compiacimento sono finalizzate le fatiche dell'autore. Certamente questa lettera non è una dedica, ma della dedica condivide le finalità e in parte anche i modi. L'epistolario del Tolomei, l'unica raccolta priva di dedica tra tutte quelle considerate, è quindi in un certo senso l'unica che risolve (anche se probabilmente non consapevolmente) la potenziale aporia della quale si era detto nella prima parte di questo lavoro,77 cioè il fatto che l'epistola dedicatoria fosse l'unica lettera dell'autore a raggiungere il destinatario insieme al libro e fosse quindi allo stesso tempo inclusa ed esclusa dalla raccolta: in questo caso l'atto di omaggio è inserito davvero nella prima lettera della raccolta, con una naturalezza tanto plausibile da lasciarci appunto dei dubbi sull'intenzionalità del risultato raggiunto.78
Conclusioni
Il nostro percorso attraverso le raccolte epistolari d'autore dal punto di vista privilegiato della dedica ha innanzitutto confermato la singolarità dell'Aretino tra tutti gli altri epistolografi: i suoi dedicatari infatti (con la sola eccezione del mercante Giovan Carlo Affaetati, dedicatario del Quarto libro) si collocano tutti al vertice di quell'ordinamento gerarchico che aveva tanta importanza per la strutturazione di queste raccolte; anche per questo motivo, le dediche dell'Aretino sono tutte incentrate sulla figura del destinatario e sui suoi rapporti con l'autore. L'Aretino, pur consapevole del suo ruolo di pioniere e del successo dei suoi primi libri di lettere, non tematizza questi elementi di novità e di successo nelle sue dediche.
La maggior parte dei dedicatari, come era logico aspettarsi, sono benefattori o potenziali benefattori; tra questi spiccano i 'datori di lavoro', come Ferrante Sanseverino per Vincenzo Martelli o il conte di Altavilla per Giovan Camillo Maffei, e i mercanti, come Giovan Carlo Affaetati, Francesco Bernardo (dedicatario del Parabosco) e il tedesco Langenauer. Comincia così a delinearsi un milieu sociale e culturale più sfaccettato, dove alla varietà degli autori delle raccolte (non solo letterati puri, ma anche poligrafi come Anton Francesco Doni e Ortensio Lando, 'uomini di negozio' come i segretari Bernardo Tasso e Luca Contile, professionisti come i medici Orazio Brunetto e Giovan Camillo Maffei, quest'ultimo anche musicista come Girolamo Parabosco)79 corrispondono diverse figure di destinatari. Ancora poche sono le dediche ispirate a sentimenti di amicizia: solo Anton Francesco Doni e Girolamo Muzio dedicheranno la loro prima prova come epistolografi a loro amici e sodali, rispettivamente Lodovico Domenichi e Vincenzo Fedeli (salvo poi rimpiazzare il dedicatario nel primo caso per la rottura dell'amicizia e l'intera dedica nel secondo caso per la morte dell'amico). Una sola è invece la dedica ai lettori, quella di Federico Pizzimenti, curatore delle Lettere di Antonio Minturno. La raccolta di Minturno contiene anche due corposi avvisi ai lettori, sempre firmati dal curatore; solo un'altra raccolta, quella di Orazio Brunetto, pubblicata nello stesso anno (1549), è altrettanto ricca di peritesti discorsivi; i pochi altri casi rimanenti (Quarto libro di Pietro Bembo, Primo volume di Bernardo Tasso, Primo libro di Pietro Lauro) invece hanno avvisi ai lettori molto più stringati. Insomma, gli epistolografi in volgare, almeno i primissimi, non sembrano sentire una grande necessità di spiegare, di spiegarsi. Solo progressivamente, a partire dagli epistolari pubblicati alla fine degli anni quaranta, cominciano a trovarsi osservazioni sul successo degli epistolari, sulla loro finalità, sulla lingua e sullo stile usati. È più facile trovare riflessioni e osservazioni di questo tipo nelle dediche firmate dai curatori o dagli editori o da autori che dovessero in qualche modo giustificare il loro cimento come epistolografi. Si può in un certo senso individuare una cesura all'altezza grosso modo degli anni '47-'49 del Cinquecento: i primi a pubblicare le loro lettere dopo l'Aretino (Franco, Doni, Nicolò Martelli) facevano i conti con un modello, quello appunto dell'Aretino, che per di più non esplicitavano, per vari motivi. Nel triennio indicato invece, uscirono tre raccolte esemplari sotto vari aspetti: quella di Claudio Tolomei (1547), il Primo libro di Pietro Bembo (1548) e il Primo volume di Bernardo Tasso (1549). Da quel momento in avanti chi scriveva un libro di lettere non poteva non misurarsi con una 'tradizione', giovane ma ben definita; questo confronto lasciava spesso tracce ben visibili proprio nei testi liminari. La questione della lingua, tanto importante in quel periodo, e tanto strettamente connessa con la nascita di questo fenomeno letterario, non viene in verità mai affrontata esplicitamente nelle dediche, mentre più diffuse sono le osservazioni e riflessioni sullo stile epistolare e sullo stile delle lettere delle raccolte. Alla fine di questo percorso si colloca Luca Contile, colui che più di tutti riflette nella dedica su questioni teoriche, ricostruendo una sommaria storia della lettera familiare per dimostrarne la dignità e l'eccellenza, e fornendo un canone di eccellenti epistolografi, un bilancio di venticinque anni di pubblicazioni, quasi fosse consapevole di essere l'ultimo protagonista di una stagione che stava ormai per concludersi, che quindi egli poteva osservare per intero.

C. S.






Note

1 C. Schiavon, Una via d'accesso agli epistolari. Le dediche dei libri di lettere d'autore nel Cinquecento. Prima parte in «Margini. Giornale della dedica e altro», 3, 2009 (da qui in avanti Prima parte), a cui si rinvia per l'inquadramento del fenomeno e per i dati biografici e bibliografici riguardanti le raccolte. Le edizioni o riproduzioni di riferimento degli epistolari da cui sono tratte le dediche analizzate sono: P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 1997-2002, 6 voll; N. Franco, Le pistole vulgari, a cura di F. R. De' Angelis, Sala Bolognese, Forni, 1986; B. TASSO, Li tre libri di lettere, alli quali nuovamente s'è aggiunto il quarto libro, a cura di D. Rasi, premessa di G. Baldassarri, Sala Bolognese, Forni, 2002; B. Tasso, Lettere, secondo volume, a cura di A. Chemello, Sala Bolognese, Forni, 2002; G. Muzio, Lettere. Venezia, Giolito, 1551, a cura di A. M. Negri, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2000; G. Muzio, Lettere, a cura di L. Borsetto, Sala Bolognese, Forni, 1985. Sono invece accessibili in Internet le Lettere di Giovanni Camillo Maffei, riprodotte nel sito di Gallica (la biblioteca digitale della Bibliothèque Nationale de France: http://gallica.bnf.fr) e le dediche delle Lettere di Anton Francesco Doni (con l'eccezione della dedica «A i lettori» del primo libro della raccolta dei Tre libri di lettere del 1552), di Lucrezia Gonzaga di Gazuolo e di Paolo Giovio, riprodotte nella sezione Dediche dell'EDIT 16. Si trovano in AIDI (www.margini.unibas.ch): la dedica ai lettori del primo dei Tre libri di lettere di Anton Francesco Doni e le dediche del Primo libro di lettere di Nicolò Martelli, delle Lettere di Pietro Bembo, di Orazio Brunetto e di Antonio Minturno, delle Lettere famigliari di Girolamo Parabosco, dei due libri di Lettere di Pietro Lauro, dei Tre libri di Lettere volgari di Paolo Manuzio, delle Lettere toscane di Frosino Lapini, delle Lettere stampate unitamente alle Rime di Vincenzo Martelli, dei due volumi di Lettere di Luca Contile e delle Lettere familiari di Annibal Caro.
Per le citazioni dai volumi disponibili in riproduzione anastatica o fotografica e delle dediche inserire in AIDI si sono introdotti solo alcuni aggiustamenti grafici per rendere la lettura meno difficoltosa: si sono separate le parole secondo l'uso corrente (intervento che riguarda in verità quasi esclusivamente il nesso articolo + pronome relativo, spesso scritto unito nei nostri testi), si sono distinte u e v, e si sono sciolte le abbreviazioni tachigrafiche (β per ss, titulus per nasale, p con trattino sottoscritto per per, q con trattino sovrascritto o, più raramente, sottoscritto per nesso labiovelare + vocale). Non si sono invece ammodernate le grafie (per esempio -ti- o -ci- + vocale; h etimologica), né si è intervenuti sulla punteggiatura. Solo nel caso di titoli o sovrascritte si è indicata l'originaria divisione in righe.
Nei paragrafi che si occupano direttamente delle dediche tutte le citazioni che non hanno segnalazione esplicita della fonte sono da intendersi tratte dalla dedica in esame.torna su
2 Invece, quando nella dedica del Quarto libro di lettere Aretino si rivolge all'Affaetati dicendo: «nel subito salutarvi con le mie lettere ne ritrassi il Diamante, ch'è divenuto ornamento di quel dito a cui s'appoggiò la penna, che ve la scrisse umilmente», egli sembra fare riferimento propriamente a una lettera in particolare, quella scritta al mercante cremonese in risposta alla prima lettera di questi, che accompagnava appunto il dono di un diamante (lettera 245 in Aretino, Lettere cit., vol. i), e non a tutte le lettere che compongono il libro.torna su
3 Cfr. Basso pp. 103-112.torna su
4 Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie. Libro primo, Venezia, Eredi Manuzio, 1542. Vedi a riguardo J. Basso, Le genre épistolaire en langue italienne (1538-1662). Repertoire cronologique et analytique, Roma, Bulzoni; Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1980 (da qui in avanti Basso), pp. 66-67 e L. Braida, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e 'buon volgare', Bari, Laterza, 2009, in part. pp. 160-81. Manuzio pubblicherà anche una ponderosa raccolta di sue epistole in latino, ma solo a partire dal 1558.torna su
5 Lettere catholiche del Mutio Iustinopolitano distinte in quattro libri, Venezia, Guadagnino, 1571; cfr. Basso pp. 257-58; sulle due edizioni delle familiari vedi nota 16 della Prima parte.torna su
6 Entrambe le questioni verranno riprese più avanti nel paragrafo dedicate alle riflessioni sul genere epistolare.torna su
7 Immagine molto comune nelle lettere dedicatorie, cfr. L. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (con particolare riferimento alle lettere di Giambattista Marino), Roma, Bonacci, 2005, p. 164.torna su
8 In questo caso l'immagine del parto è inserita in una lunga similitudine che accosta il gesto istintivo delle «fere», le fiere, che cercano un luogo dove i propri cuccioli appena nati possano essere protetti, con l'usanza dei letterati di porre «l'opre, che gli detta l'ingegno» sotto la protezione di «colui, che il giudicio gli propone più atto a guardarle fin che la fama le raccoglia ne la sua bocca».torna su
9 Vedi Prima parte.torna su
10 Per esempio, notizie riguardo la preparazione del Primo libro di lettere dell'Aretino si possono ricavare dalle lettere contenute nell'epistolario stesso, cfr. P. Procaccioli, La 'macchina' delle 'parole in carta', in P. Aretino, Lettere, Milano, Rizzoli, 1991, I, pp. 5-57, a p. 14 e G. Baldassarri, L'invenzione dell'epistolario, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita. Atti del convegno di Roma-Viterbo-Arezzo (28 settembre-1 ottobre 1992), Toronto (23-24 ottobre 1992), Los Angeles (27-29 ottobre 1992), a cura di M. Lettieri et al., Roma, Salerno, 1995, pp. 157-78.torna su
11 A questo inciso Doni aggiunge, nella riscrittura della dedicatoria per l'edizione del 1552, un'ironica precisazione: «s'io debbo favellare come tutti coloro che se ne muoion di voglia».torna su
12 Possibilità tutt'altro che remota; cfr. P. Chierchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Roma, Bulzoni, 1998; Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a cura di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 1998; L. Borssetto, Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura e riscrittura nel Rinascimento, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1990.torna su
13 «Eccomi s'io fallo la strada intrafatto ogniun griderà; dove va costui così solo per questa contrada? che facende ci ha egli? noi non lo conosciamo. dove diavolo è egli uscito? o di qual tana sbucato fuori, sarebbe egli per sorte? debbe essere qualche spione. Et mi vorranno minutamente per insino al minimo sciagurato che vi sia, essaminare di ch'io son figliuolo; chi erano i miei; con chi io son stato; che viaggio è il mio; s'io ho lettere; s'io porto imbasciate o altri farnetichi da huomini ignoranti che non hanno altro che fare che cercare i fatti d'altri» (in corsivo le aggiunte della versione del 1552). In effetti Doni fino a quel momento non aveva prodotto e pubblicato molto; cfr. P. Pellizzari, Nota biografica, in A. F. Doni, I mondi e gli inferni, a cura di Ead., introduzione di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994, pp. lxix-lxxxiv, a p. lxxii.torna su
14 Cfr. S. Re Fiorentin, I 'libri di lettere' di Anton Francesco Doni, in «Levia Gravia», ii, 2000, pp. 65-95, a p. 86.torna su
15 Come è noto, il liberto Tirone, fedele segretario di Cicerone, conservò copia delle lettere che Cicerone gli dettò per i suoi amici e le raccolse in volumina secondo il nome dei diversi corrispondenti (vedi per es. S. Rocca, Cicerone, in Dizionario degli scrittori greci e latini, diretto da F. Della Corte, vol. i, Settimo Milanese, Marzorati, 1987, pp. 463-502, a p. 479). Nella lettera aggiunta alla seconda edizione dell'epistolario del Tolomei (per la quale vedi più avanti nota 73) si trova un altro riferimento alla classicità latina; si tratta del riferimento ad altri editori della classicità latina, Vario e Tucca, sodali di Virgilio incaricati da Augusto di pubblicare l'Eneide dopo la morte dell'autore (in verità è probabile che l'editore dell'opera fosse solo Vario; Tucca viene ricordato dai commentatori perché a entrambi Virgilio affidò il suo manoscritto in punto di morte; cfr. E. Paratore, Virgilio, in Dizionario degli scrittori greci e latini cit., vol. iii, pp. 2331-99, a p. 2376 ): parlando dei «tre amici suoi» che ha incaricato di preparare le sue lettere per la stampa, Tolomei specifica di aver dato loro «auttorità non come fu data a Varo, e Tucca di potere solamente tor via, non già d'aggiungere; anzi ch'essi e levasseno e aggiugnesseno, e mutasseno, come meglio fusse paruto a giudicij loro», infatti, per espresso volere di Augusto, Vario dovette pubblicare l'opera senza poter intervenire con modfiche o aggiunte, nemmeno nel caso di versi rimasti incompleti; poté solo eliminare i passi che Virgilio aveva indicato a margine come meritevoli di soppressione.torna su
16 Nell'anno precedente e nei tre anni successivi Muzio non pubblicherà alcuna opera. Cfr. A. M. Negri, Bibliografia di Muzio, Lettere. Venezia, Giolito, 1551 cit., pp. xlvii-lxxii, alle pp. xlviii-xlix.torna su
17 Le prime due lettere dell'epistolario, in effetti, sono indirizzate alle tre Madonne Beltrame da Ferrara e datate 1538; il piccolo corpus ferrarese in verità si conclude così. Negri, ivi. p. 9, ricorda che il 1538 è la data di pubblicazione del primo libro delle Lettere dell'Aretino e suggerisce che la coincidenza di data potrebbe non essere casuale.torna su
18 Vedi Prima parte nota 130.torna su
19 In effetti il corpus delle lettere pubblicate è molto compatto e comprende 64 lettere generalmente lunghe o addirittura molto lunghe indirizzate a un ristretto numero di corrispondenti (non a caso la tavola riassuntiva delle lettere e organizzata per argomenti e non per destinatari, che certo non costituivano un motivo di interesse della raccolta), molti dei quali sono «augustani alemanni», come i Kraffter, e molto numerose sono le lettere indirizzate proprio ai Kraffter (soprattutto Hyeronimus, ma anche il figlio Anton) e al loro collaboratore Jakob Pachmair (vedi Prima parte). La raccolta contiene anche una lettera indirizzata da Anton Kraffter al padre Hyeronimus (F. Lapini, Lettere toscane, Bologna, Giaccarelli, 1556, pp. 274-77).torna su
20 Il tema si trova però, al di fuori delle dediche, nella prima lettera dell'epistolario di Tolomei e nell'avviso ai lettori premesso al Quarto volume delle lettere di Bembo (per entrambi vedi sotto).torna su
21 Cfr. Braida, Libri di lettere cit., pp. 41-44.torna su
22 Cfr. lettera a Nicolò Martelli del novembre 1542: «le prime lettere che in lingua nostra siano state impresse nascono da me, che godo mentre mi sento trafiggere circa l'arte dell'imitazione» (lettera 26 in Aretino, Lettere, cit. vol. iii).torna su
23 Nonostante sia intercorsa nel frattempo la nota polemica con l'Aretino sui maestri e i modelli del genere epistolare in volgare; cfr. G. Genovese, La lettera oltre il genere. Il libro di lettere, dall'Aretino al Doni, e le origini dell'autobiografia moderna, Roma-Padova, Antenore, 2009, pp. 86-87 e Procaccioli, La 'macchina' delle 'parole in carta' cit., alle pp. 16-18.torna su
24 Sul significato di «conversazione», intesa come pratica di amicizia, dimestichezza acquisita per consuetudine di vita comune, vedi la nota di Negri in Muzio, Lettere. Venezia, Giolito, 1551 cit., p. 3.torna su
25 La nota definizione è dello stesso Aretino, che con secretario intende 'depositario di segreti, confidente' come si evince dal contesto (Aretino, Lettere, vol. i, lettera 257, a Francesco Alunno).torna su
26 A. Salza, Luca Contile, uomo di lettere e negozi del secolo xvi, introduzione di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2007.torna su
27 Cfr. J. Basso, La lettera 'familiare' e nella retorica epistolare del xvi e del xvii secolo in Italia, in La lettera familiare, «Quaderni di retorica e poetica», i, 1985, pp. 57-65. Su questa «autoapologia difensiva» di Contile cfr. Quondam, Dal 'formulario' al 'formulario': cento anni di 'libri di lettere', in Le 'carte messaggiere'. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Id., Roma, Bulzoni, 1981, pp. 13-157, alle pp. 20-21.torna su
28 Cfr. i contributi raccolti in Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai Greci al Novecento, a cura di A. Chemello, Milano, Guerini, 1998 e in La lettera familiare, cit. Per il Cinquecento e il Seicento cfr. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia cit. (cap. i, La trattatistica epistolare, alle pp. 11-59, e cap. iv, La lettera familiare, alle pp. 99-132).torna su
29 A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, vol. ii, Firenze, Le Monnier, 1959, lettera 528, a p. 294.torna su
30 Cfr. D. Rasi, Introduzione a Tasso, Li tre libri di lettere cit., Forni, 2002, pp. ix-xlii, alle pp. x-xii e Chemello, Introduzione a B. Tasso, Lettere, secondo volume cit., Forni, 2002, pp. vii-lxvi, alle pp. xxi-xxv.torna su
31 Vedi per es. Basso, La lettera 'familiare' cit., p. 63.torna su
32 Quondam, Dal 'formulario' al 'formulario' cit., p. 38; Quondam parla, per i diversi aggettivi assegnati a ciascun autore, di «diverse funzioni assegnate con il gioco sapiente dell'aggettivazioni» e si chiede se si tratti di funzioni del testo o del lettore; la mia impressione è piuttosto che si tratti di aggettivi legati alla trattatistica retorica: ornato ← ornatus, sonoro ← verbis sonans, giocondo ← iocundum, sensato ← gravem, puro ← purus, accorto ← callidum/sagacem, leggiadro ← venustum/levis; «facondo e dotto» infine si trovano anche in dittologia: disertum atque eruditum. Non ho però trovato un passo preciso in cui si trovino tutti questi aggettivi, quindi una vera e propria fonte; sembra trattarsi piuttosto dell' utilizzo di una terminologia nota a chi avesse una certa dimestichezza con la retorica del tempo.torna su
33 Ivi, p. 39.torna su
34 Ma entrambi raccoglievano e preparavano le proprie lettere con l'intenzione di pubblicarle; sull'epistolario di Caro, che, come è noto, sarà pubblicato postumo, cfr. A. Greco, Introduzione, a Caro, Lettere familiari cit., vol. i, 1957, pp. ixx-xxv, alle pp. xvii-xxii; su quello di Giovanni Guidiccioni cfr. M. T. Graziosi, Introduzione a G. Guidiccioni, Le lettere, a cura di Ead., Roma, Bonacci, 1979, pp. 1-47, a p. 30.torna su
35 Si danno qui i riferimenti bibliografici delle raccolte citate, che verranno ricordate successivamente con il solo nome dell'editore o curatore o con il titolo abbreviato: in edizione moderna si trovano solo il Novo libro di lettere scritte da i più rari auttori e professori della lingua volgare, ristampa anastatica delle edd. Gherardo, 1544 e 1545, a cura di G. Moro, Sala Bolognese, Forni, 1987 e l'edizione critica delle Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di P. Procaccioli, 2 voll., Roma, Salerno, 2004. Per le altre il riferimento è ancora alle cinquecentine: Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie. Libro primo, Venezia, Eredi Manuzio, 1543, curata da Paolo Manuzio (quella citata è la seconda edizione, identica alla princeps del 1542 cfr. Basso pp. 67-68); Lettere volgari di diversi eccellentissimi homini, in diverse materie. Libro secondo, Venezia, Eredi Manuzio, 1545, curata da Antonio Manuzio; per la raccolta De le Lettere di tredici huomini illustri, libri tredici si fa riferimento alla princeps curata da Dionigi Atanagi (Roma, Fratelli Dorico, 1554) e all'edizione curata da Girolamo Ruscelli (Venezia, Giordano Ziletti, 1556) nella quale intervengono dei cambiamenti che riguardano anche il numero delle lettere di alcuni degli autori che ci interessano; infine le Lettere di diversi eccellentiss. huomini raccolte da diversi libri, tra le quali se ne leggono molte non più stampate. [...], Venezia, Giolito, 1559, curata da Lodovico Dolce (i cambiamenti che intervengono in questa edizione rispetto alla princeps del 1554 non riguardano gli autori che ci interessano).torna su
36 De le letere di diversi autori raccolte per Venturin Ruffinelli, libro primo. [...], Mantova, Ruffinelli, 1547.torna su
37 Secondo Moro la raccolta Gherardo, più che una finalità 'esemplare' (come quella che avevano per esempio le raccolte Manuzio) ha un carattere di stretta attualità, e risulta di fatto «una documentazione quasi istantanea di un certo ambiente editoriale veneziano»; ambiente di cui Domenichi, insieme al Dolce, che come si è visto è presente in entrambe le edizioni con un rispettabile numero di missive, era un rappresentante di eccellenza. Cfr. G. Moro, Introduzione a Novo libro di lettere cit., pp. ix-lxxxviii e in part. le pp. lxxvi-lxxvii.torna su
38 Della Torre, con 15 lettere, è anche il principale autore delle lettere della raccolta di Curzio Traiano di Navò, Letere de diversi eccelentissimi Signori a diversi huomini scritte. Libro primo, s.l.n.d. [ma 1542]; la raccolta, che contiene anche quattro lettere di Bonfadio, ebbe però una diffusione marginale e un successo decisamente non paragonabile a quello della raccolta di Manuzio (cfr. Basso pp. 73-74).torna su
39 L'assenza di questi due autori dalla lista di Contile ridimensiona l'importanza della raccolta del Dolce per il pavese (vedi invece cosa ne pensa Quondam, Dal 'formulario' al 'formulario' cit., p. 38), visto che egli non cita proprio due degli autori presenti con il maggior numero di lettere in questa raccolta.torna su
40 Così Aretino riportava la provocatoria affermazione del Tasso in una lettera allo stesso Bernardo (Aretino, Lettere, vol. v, lettera 345; la lettera al Molin è quella immediatamente successiva). Le parole del Tasso alle quali Aretino fa riferimento si trovano in una lettera diretta ad Annibal Caro e sono precisamente queste: «in questo nostro idioma non si leggono lettere di quegli uomini degni d'imitazione, che ci dimostrino la diritta strada, per la quale possiamo securamente camminare» (Tasso, Li tre libri di lettere, cit., p. 19). Sulla polemica innescata da questa affermazione del Tasso, vedi sopra nota 23.torna su
41 Ivi, lettera 346.torna su
42 La questione è tematizzata in numerosi lavori sull'argomento, a partire da Quondam, Dal 'formulario' al 'formulario', cit., p. 45.torna su
43 A questo scopo sarà destinato in particolare il sesto libro, organizzato per materie e preceduto da un avviso ai lettori che torna sullo stesso tema (vedi sotto).torna su
44 Cfr. il passo citato da Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., p. 70: «il più celebrato e veramente il più laudevole [stile] è quello, che sciolto e libero d'ogni Idioma, prende per elettione da diverse favelle quel che sia migliore, al quale pochi han potuto fin qua pervenire», tratto dalla lettera a c. 1r del suo epistolario (A. Minturno, Lettere, Venezia, Girolamo Scotto, 1549).torna su
45 Sulla questione della 'naturalezza' dello stile delle lettere familiari, con specifica attenzione proprio all'Aretino e al Martelli, cfr. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., pp. 104-109.torna su
46 N. Martelli, Il primo libro delle lettere, Firenze, s.e. [ma Anton Francesco Doni], 1546.torna su
47 L'opinione di Bernardo Tasso riguardo alla prevalenza della sostanza sulla forma nelle proprie lettere non è condivisa dall'Aretino, che nella lettera a Tasso datata ottobre 1548 accusa il corrispondente di coltivare un gusto «inclinato più all'odor de i fiori, che al sapore de i frutti», e prosegue: «Onde con grazia di stile angelico, e con maniera d'armonia celeste, risonate in gli epitalami e ne gli hynni. Le cui soavità di dolcezze non si convengano in lettere, che a loro bisogna il rilievo de la invenzione, e non la miniatura de l'artifizio» (lettera 345 in Aretino, Lettere cit., vol. v).torna su
48 L. Matt, recensione a M. Prada, La lingua dell'epistolario volgare di Pietro Bembo, Genova, Name, 2000, in «Studi linguistici italiani», xxviii, 2001, pp. 256-64, a p. 263; cfr. anche G. Moro, A proposito di antologie epistolari cinquecentesche (Precisazioni su B. Pino e i Manuzio, T. Gabriele, A. Merenda e P. Bembo), in «Studi e problemi di critica testuale», xxxviii, 1989, pp. 71-107, a p. 106.torna su
49 E precisa: «anzi quantunque egli accaggia tal volta che i minuti artefici & i nobili cittadini dicano una cosa medesima, sì la dicono essi non di meno con differenti parole l'uno dall'altro, & non in un medesimo modo: ne fra'l popolo minuto & i gentili huomini solamente si vede questa differenza di parlare, ch'io dico, me ella è anchora fra i nobili tra di loro, se l'uno è letterato & l'altro è idiota».torna su
50 E aggiunge: «né ci pare, che le lettere de gli antichi cosi Greci come Latini, siano gran fatto più semplici di quelle di M. P. & non di meno lasciamo nella discreta consideration de dotti lettori il dar sententia sopra di ciò».torna su
51 Sulle lettere di Caterina da Siena cfr. Basso, pp. 131-132; Dire l'ineffabile. Caterina da Siena e il linguaggio della mistica, a cura di L. Leonardi e P. Trifone, Firenze, Edizioni del Galluzzo 2006 (in part. il contributo di M. Zaggia, Varia fortuna editoriale delle Lettere di Caterina da Siena, pp. 127-188); M. Zancan, Lettere di Caterina da Siena, in Ead., Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1998, pp. 113-53, e E. Duprè Theseider, Introduzione, a Epistolario di Santa Caterina da Siena, a cura di Id., vol. i, Roma, Tipografia del Senato, 1940, pp. xii-cxi, in part. le pp. lxiii-lxx, sulle edizioni a stampa fino al Cinquecento. Sulle Litere di Vittoria Colonna cfr. Basso p. 82 e M. L. Doglio, L'occhio interiore e la scrittura nelle lettere spirituali di Vittoria Colonna, in Ead., Lettera e donna. Scrittura epistolare al femminile tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 17-31.torna su
52 Rappresentato icasticamente da quest'immagine: «che nuova forma d'huomo, che così d'improviso s'appresenta al mondo con un libro di lettere in mano?».torna su
53 Una delle due 'novità' menzionate a titolo di esempio da Brunetto, le lettere pastorali, si trovano anche in un altro epistolario uscito quello stesso anno, il secondo libro delle Lettere amorose di Girolamo Parabosco (De le lettere amorose di M. Girolamo Parabosco. Libro secondo con alcune sue novelle e rime, Venezia, Comin da Trino, 1548). Le date delle dedicatorie confermerebbero il primato di Brunetto (la dedicatoria di Brunetto è datata 1 dicembre 1547, quella di Parabosco 22 agosto 1548).torna su
54 Secondo Pizzimenti le maniere (o motivazioni) generali, cioè principali di scrivere lettere sono venti: «Percioché o raccomandiamo; o dimandiamo; o concediamo quel, che ci si chiede, o l'altrui lode, o pur il vituperio dimostriamo; o gratie rendiamo; o l'amore d'alcuno d'acquistare, o di conservare ci studiamo; o ci lamentiamo; o riconsoliamo; o narriamo; o ne rallegriamo; o confortiamo; o pur allo 'ncontro disconfortiamo; o riprendendo biasimiamo; o ci difendiamo; o l'amicheuole forma de lo scrivere serviamo; o la commune; o cianciamo; o commettiamo; o commandiamo; o doniamo; o mescolatamente scriviamo».torna su
55 Matt (Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., p. 70) osserva giustamente che si tratta di un precoce tentativo di organizzazione le lettere per capi, ossia per argomenti o 'maniere'; tentativo che non avrà successo, visto che l'epistolario del Minturno non venne più ristampato e che prima di trovare nuovamente una raccolta organizzata per capi bisognerà arrivare all'epistolario di Stefano Guazzo, più di quarant'anni dopo (la prima edizione è del 1590). Da questo epistolario in avanti la classificazione per capi diventa la scelta prevalente degli epistolografi (cfr. ivi pp. 71-72).torna su
56 Gli esempi di queste «parole» con cui si può esprimere sia l'amor platonico che l'amor volgare, riportati da Pizzimenti, sono: «Che mi sento far dolce rapina de l'anima? Che lo spirito mi lascia? Che rimango in penosa prigione? Che mi rompe il sonno, e mi pone in guerra? Che di lontano bacio quelle honorate mani, che desidero baciarle da presso? Che leggendo le sue lettere divotamente le bacio, e baciando l'empio di lagrime, e poi con caldi sospiri l'asciugo? Che felicissime eran quelle lettere scritte da quella mano, che a me tolse il cuore è [sic] seco nelo portò?».torna su
57 Questa lettera non è compresa tra quelle raccolte nell'epistolario. Solo alla fine della lettera 14, Minturno ricorda un epitalamio che aveva inviato alla Marchesa due mesi prima; le lettere non sono datate perciò non possiamo avere la certezza che l'epitalamio fosse proprio in onore delle nozze della Marchesa con il D'Este, ma è molto probabile (vedi Minturno, Lettere cit., c. 138v).torna su
58 Su questa questione cfr. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., pp. 61-69.torna su
59 Le lettere di M. Bernardo Tasso intitolate a Monsi.or d'Aras, Venezia, Valgrisi, 1549, p. 476.torna su
60 La prima censura riguarda proprio il nome della destinataria, Maria Savrognan (cfr. M. Savorgnan, P. Bembo, Carteggio d'amore (1500-1501), a cura di C. Dionisotti, Firenze, Le Monnier, 1950).torna su
61 Cfr. C. Dionisotti, Prefazione a Savorgnan, Bembo, Carteggio d'amore cit., pp. vii-xxxiv, in part. pp. xxvii e sgg.torna su
62 Cfr. Basso, p. 146 e Rasi, Introduzione cit., pp. ix-xlii, in part. pp. xvii e xxxi-xxxii.torna su
63 Di fronte al vescovo di Arras, ministro dell'imperatore Carlo V, di cui con questa dedica ricercava il favore, Tasso aveva anche dovuto giustificare la presenza nell'epistolario di alcune lettere favorevoli al re di Francia (e quindi contrarie all'Imperatore), scritte proprio per volere del Sanseverino (vedi Prima parte).torna su
64 Già nella dedica al Perrenot, Tasso aveva parlato della gloria ottenuta dai «molti rari, & pellegrini spiriti con i mandare in luce le loro lettere» (vedi sopra). Cfr. riguardo a questo passo della lettera al Sanseverino, anche le osservazioni di Genovese, La lettera oltre il genere cit., pp. 28-29; Genovese in particolare sottolinea la distinzione operata da Tasso tra la «popolare opinione», che ha decretato il successo degli epistolari in volgare, e gli «ingegni dotti e pellegrini» che solo possono accordare una gloria «stabile e vera».torna su
65 Cfr. F. Erspamer, Introduzione a P. Aretino, Lettere. Libro secondo, a cura di Id., Parma, Guanda, 1998, pp. ix-xlv, a p. xl, nota 40.torna su
66 Così pensano Procaccioli, La 'macchina' delle 'parole in carta' cit., p. 14, Erspamer (nota 14 a p. 11 di P. Aretino, Lettere. Libro primo, a cura di Id., Parma, Guanda, 1995) e Genovese, La lettera oltre il genere cit., p. 109, per il quale la lettera «fa verosimilmente parte di quella serie di 'microtesti' redatti direttamente per essere inclusi nel 'macrotesto'».torna su
67 Ibid.torna su
68 Ivi p. 110.torna su
69 «Recueil sans dédicace», scrive Basso p. 122; secondo Quondam (Dal 'formulario' al 'formulario' cit. p. 42) la «soppressione» della dedica è dovuta al fatto che Tolomei «non ha certo bisogno di mediazioni o malleverie».torna su
70 Sulle proposte ortografiche del Tolomei cfr. A. Cappagli, Gli scritti ortofonici di Claudio Tolomei, in «Studi di grammatica italiana», xiv, 1990, pp. 341-94 e O. Castellani Pollidori, Introduzione a C. Tolomei, Il Cesano de la lingua toscana, edizione critica riveduta e ampliata a cura di Ead., Firenze, presso l'Accademia della Crusca, 1996, pp. xi-cxxxiii, alle pp. xci-ic. Tolomei aveva concepito e usato negli anni più di un alfabeto ortofonico; sulla versione usata per la stampa delle lettere, «un sistema grafico semplice ed economico, in quanto [...] non comportava lettere nuove ma solo un impiego mirato di varianti grafiche già nell'uso» (ivi, p. xcv).torna su
71 Vedi la lettera del 20 settembre 1543 a c. 95v di Tolomei, Lettere cit. (citata anche da Castellani Pollidori, Introduzione cit. p. cx). Per la «piegatura alla senese» del futuro cfr. S. Barbagli, Il Turamino, ovvero del parlare e dello scriver sanese, a cura di L. Serianni, Roma, Salerno, 1976, pp. 84-85; L. Serianni, Nota al testo, in Barbagli, Il Turamino cit., pp. 215-30, alle pp. 223-24; sull'uso di questo tratto morfologico nell'opera di Tolomei Castellani Pollidori, Introduzione cit., pp. cxvii-cxviii. Sull'uso di legge come imperativo di leggere, cfr. Barbagli, Il Turamino cit. p. 56 e nota 3. Sulla desinenza in -eno della terza persona del presente indicativo, che è presente ma non prevalente nell'opera di Tolomei, cfr. Castellani Pollidori, Introduzione cit., p. cxix.torna su
72 Non venivano evidentemente considerate lettere «di faccende» le lettere di raccomandazioni scritte direttamente dal Tolomei o da questi in nome di un richiedente, che sono molto numerose all'interno dell'epistolario.torna su
73 Le convenzioni principali della lettera-discorso sono le seguenti: 1- risponde a una questione posta o fa riferimento a una discussione avvenuta con il destinatario; 2- il contenuto è la dichiarazione e la giustificazione di un'opinione personale su un soggetto serio; 3- al di là dell'interesse e del piacere personale dei corrispondenti le idee esposte si offrono a un vasto uditorio; 4- le condizioni ordinarie delle relazioni epistolari (lontananza, informazioni da comunicare) sono raramente presenti. Cfr. J. Basso, L'épistolographie en langue italienne (1538-1662), Thèse de Doctorat d'Etat, Université de Paris iv, 1982, p. 351.torna su
74 Basti pensare ad affermazioni simili trovate nella dedica delle Lettere volgari di Paolo Manuzio e nell'avviso ai lettori del Quarto libro delle lettere di Bembo (vedi sopra).torna su
75 Cfr. Castellani Pollidori, Introduzione cit., pp. xxx-xcii.torna su
76 Inviata da Piacenza, datata 5 luglio 1546 (De le lettere di M. Claudio Tolomei libri sette, Venezia, Giolito, 1547, c. 218v).torna su
77 Vedi Prima parte, nota 197.torna su
78 La seconda edizione dell'epistolario richiederà l'inserimento di un'ulteriore lettera extratestuale, quella di Tolomei ad Alessandro Guglielmi (da Padova, il primo dicembre 1547), nella quale si giustifica la presenza nella prima edizione di una lettera molto critica nei confronti del governo senese, scritta al Cesano da Cuna nel 1531 (cc. 387v-392r); cfr. L. Sbaragli, Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento. La vita e le opere, con prefazione di G. Mazzoni, Siena, Accademia per le arti e per le lettere, 1939, pp. 43-46.torna su
79 Vedi a riguardo C. Dionisotti, La letteratura italiana nell'età del concilio di Trento, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 227-54, alle pp. 231-45.torna su