5, 2011
 
Wunderkammer    
 


Il sesto libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1602)

a cura di Monica Bianco



Con il Sesto libro di lettere dedicatorie di diversi si chiude la “prima parte” della raccolta pubblicata a Bergamo da Comino Ventura, che aveva presentato ai lettori nel corso di due anni (1601: libro I; 1602: libri II-VI) 196 testi. Composto, come il precedente, da 36 carte, il Sesto libro raccoglie 21 dediche. Ancora una volta, il Ventura si serve della lettera «All’acuto lettore» per opporsi alle insinuazioni di un affievolimento della sua iniziativa editoriale, cercando in questo caso di rendere ragione della progressiva diminuzione nel numero delle carte: «Ti maravigli, cred’io, Acuto Lettore, che a poco a poco si vadano restringendo questi libretti, e non incontrando la cagione prossima e vera, ne vai forse formando di lontane e probabili» (c. n.n. [4r]). La ragione che lo stampatore presenta, pur speciosa, risulta più articolata di quella che aveva saputo offrire nel volume precedente. La «vera caussa finale di questi tomi ridotti a pochi fogli» non è la mancanza di testi da proporre al pubblico, dato che «questo Fonte di Lettere è sì vivo e perenne, che tanto più non pur limpido e soave, ma etiandio abundante sorge quanto più ne cavo», ma nasce da oculata decisione. Suo «intendimento primiero in questa fatica non è di recar diletto, ma giovamento, perciò sì come le cose di gran pregio et utile non si compartono a pesi, ma a dramme, non a pezzi ma a minucciole», così ha giudicato «ispediente distribuir al mondo quest’utilissime fatiche a poco a poco» (tutte le citazioni a c. n.n. [4v]). Dedicatario del Sesto libro è il monaco vallombrosano Marco da Pelago, allora abate del monastero di S. Sepolcro di Astino, nei pressi di Bergamo. Nella lettera, datata 3 agosto 1602, il Ventura mostra di aver pensato a lungo a chi offrire il volume «il quale, essendo Sesto, ricercava in chi lo proteggesse quell’eminenza di vertù e perfettione ch’il numero Senario accenna» (c. n.n. [2r]) e di aver vinto ogni sua incertezza grazie alla lettura della dedicatoria con la quale il monaco vallombrosano Crisostomo Talenti offriva le sue Rime a Marco da Pelago (cfr. Secondo libro, cc. 18v-19r in «Margini», 2, 2008; la dedica è del 16 gennaio 1601). Le parole del Talenti gli hanno permesso di scoprire «il nome celebre, le rare doti, il grado eminente d’un Marco, d’un Pelago, d’un Abbate, che offerendomi incontanente cui saper ricercava (mercé del Vero, Bello e Buono, ch’innamora ogn’uno) mi fe’ voluntario prigione e devoto a V. P. molto Reverenda» (c. n.n. [2v]). La dedicatoria si rivela di notevole interesse perché, pur riprendendo un topos diffusissimo, lo risolve in modo originale: è la lettura di una dedicatoria altrui (e, certo non a caso, inserita in uno dei libri della raccolta) a indicare al dedicante incerto il dedicatario appropriato. Si tratta dell’estremo tentativo del Ventura di promuovere, con il suo stesso esempio, l’utilità della raccolta: non solo “Museo” di modelli per la stesura di epistole dedicatorie, ma anche prontuario per la scelta di dedicatari adeguati (e affidabili, dato che si erano già mostrati generosi nel “gradire” le offerte librarie), dei quali infatti lo stampatore si era sempre premurato di offrire un’agile lista a apertura (libri I-II) o a chiusura di volume (libri III-VI). Contrariamente alle speranze di Ventura, che tanto aveva creduto nella sua iniziativa, e alle sue parole nelle ultime due lettere ai lettori nelle quali cercava di negare l’evidenza, la raccolta non dovette godere di un continuato interesse nel pubblico. Lo stampatore si era rivolto soprattutto agli autori di dedicatorie, non valutando appieno come costoro sia per la loro preparazione culturale (si trattava per lo più di letterati, fossero essi autori, curatori o traduttori) sia per la ricchezza di materiali in circolazione non avevano bisogno di ricorrere ai modelli raccolti nella sua silloge. A questo si deve aggiungere la predilezione all’interno della raccolta per l’ambiente locale, bergamasco, al quale si collegavano buona parte di autori, dedicanti e dedicatari. Il fatto che il Sesto libro sia il primo a non contenere nessuna dedica che riporti a Bergamo, indica, forse, che i materiali relativi a questo ambito cominciavano a scarseggiare. Comunque sia il Ventura attese tre anni prima di far uscire, nel 1605, un altro volume di dedicatorie, inaugurando la Seconda parte della raccolta. Protagonista assoluto del Sesto libro con 14 dediche su 21 (i due terzi) è Ascanio de’ Mori (Medole, 1533-Mantova, 1591). Avviato dal padre agli studi letterari a Mantova e poi a Bologna, il Mori li aveva abbandonati per arruolarsi come soldato di ventura al seguito di Orazio Gonzaga, marchese di Solferino, partecipando alla guerra tra l’Impero e i Turchi di Solimano e poi a quella tra la Serenissima e Selim II. Ritornato in patria nell’estate del 1571 e presto associato dal suocero Francesco Olivi al governo di Medole, fu in seguito governatore di Solferino (1575-1577) e di Ceresara (dal 1578), riuscendo solo nel 1583 a trasferirsi a Mantova con l’incarico di guardarobiere di corte. L’attività letteraria del Mori si esaurisce nel quindicennio che va dalla composizione del Giuoco piacevole (Mantova, Giacomo Ruffinello, 1575 e 1580; Mantova, Francesco Osanna, 1590) alla raccolta delle Lettere (Mantova, Francesco Osanna, 1590), opere entrambe dedicate a Vincenzo Gonzaga. Letterato di una qualche reputazione alla corte mantovana, e accademico Invaghito dal 1588, il Mori fu in rapporti amichevoli con Torquato Tasso, tanto che nel periodo in cui questi visse a Mantova fece da tramite tra il poeta e la duchessa favorendo l’acquisto di libri che gli erano utili per la ripresa e per la revisione di opere alle quali era sollecitato dai nuovi signori; Tasso fece rivedere al Mori il Torrismondo, il Mori sottopose al Tasso le Lettere. Le dediche presentate nel Sesto libro sono tratte dalla Prima parte delle novelle di Ascanio de’ Mori da Ceno edita a Mantova da Francesco Osanna nel 1585. L’opera – preceduta dalla dedicatoria a Vincenzo Gonzaga e chiusa da una lettera a Giovanni Battista Cavallara – riunisce quindici novelle, ciascuna preceduta da una dedica che la offre a un personaggio appartenente alla famiglia Gonzaga o in relazione con essa: in tutte le dedicatorie Mori indica il luogo, Mantova, mai la data. Il primo testo presentato da Ventura (cc. 7r-8r) è la lettera a Giovanni Battista Cavallara († 1587), medico di corte presso i Gonzaga e caro amico del Mori, che evidenzia il ruolo importante da lui rivestito nella composizione dell’opera. In essa Mori spiega all’amico il motivo per cui gli ha scritto così di rado negli ultimi tempi: non per poco amore, come egli pensa, ma perché è stato troppo insistente nell’invitarlo con lettere a pubblicare le sue novelle. Di qui la decisione di non scrivere più fino alla pubblicazione del volume. Adesso che le novelle sono uscite, l’amico si aspetti valanghe di lettere. Al Cavallara, che per primo l’aveva incoraggiato a riprendere gli studi, mettendolo poi in relazione con artisti e letterati della corte gonzaghesca, oltre che con alti funzionari di governo, il Mori aveva già offerto le Rime, edite dopo la seconda edizione del Giuoco piacevole (1580). Due carte dopo (cc. 10v-11r) Ventura inserisce la dedicatoria dell’opera a Vincenzo Gonzaga (Mantova, 1562-ivi, 1612), figlio del duca di Mantova Guglielmo, al quale successe nel 1587. Nella breve lettera Mori motiva l’offerta della Prima parte delle novelle con la generosità con cui il dedicatario aveva gradito il Giuoco piacevole. Da c. 20r a c. 34v si susseguono le rimanenti dodici dediche per le quali è conservato l’ordine che avevano nell’opera del Mori. Non sono chiari i motivi per cui Ventura non accolga le dediche a Eleonora de’ Medici, sposa di Vincenzo Gonzaga (novella 2), a Ferdinando II d’Asburgo, arciduca d’Austria e sposo di Anna Caterina Gonzaga, sorella di Vincenzo (novella 4) e agli Accademici Invaghiti di Mantova (novella 15). La serie è inaugurata dalla dedica della prima novella offerta ancora una volta a Vincenzo Gonzaga, invitato dal Mori a trarre insegnamento dagli avvenimenti narrati, imparando a non dare troppo ascolto ai cortigiani e a essere clemente (cc. 20r-v). Segue quella della terza novella a Anna Caterina Gonzaga (Mantova, 1556-Innsbruck, 1621), sorella di Vincenzo e da tre anni sposa del fratello della madre Ferdinando II d’Asburgo (1529-1595), arciduca d’Austria. Nella lettera (cc. 21r-22r) il Mori motiva il dono con la presenza nella novella di Federico II Gonzaga, nonno della dedicataria, che esorta a considerare come la poca fedeltà dei cortigiani sia talvolta causa di ingiusto biasimo per i principi. La riproduzione da parte di Ventura della dedica della quinta novella (cc. 22v-23v) è particolarmente ricca di errori. Dedicataria risulta essere l’inesistente «Margherita d’Este, Duchessa d’Urbino» che il testo stampato non aiuta a identificare essendo mutilo (pongo in corsivo la parte mancante): «per essere dilettissima figliuola a’ Serenissimi miei padroni et amatisima consorte al Serenissimo Signore Alfonso Duca di Ferrara». Si tratta, come l’intestazione originale conferma, di Margherita Gonzaga (Mantova, 1564-ivi, 1618), sorella di Vincenzo e Anna Caterina, terza moglie di Alfonso II d’Este, alla quale, «unico tempio di ogni eroica virtù», è offerta una novella in cui si narra l’ascesa sociale di una donna grazie alle sue qualità. Le due dediche che seguono, poste ad accompagnare la sesta (Ventura scrive erroneamente «quinta») e la settima novella sono inviate rispettivamente a Francesco e Ferdinando de’ Medici, padre il primo, zio il secondo di Eleonora, moglie di Vincenzo Gonzaga (cc. 24r-25v). A Francesco de’ Medici (Firenze, 1541-Poggio a Caiano, 1587), granduca di Toscana, che dalla moglie ebbe sei figlie, il Mori presenta una novella in cui si narra di un padre che salva con il matrimonio l’onorabilità di una sua figliola; la dedica si sofferma sui dispiaceri che spesso i figli danno ai padri. A Ferdinando de’ Medici (Firenze, 1549-ivi, 1609), allora cardinale, è offerta una novella in cui si narra di un mercante avaro che, sforzandosi in ogni modo di arricchire, impoverì del tutto. La motivazione del dono, e contrario, è che il Medici, essendo uomo ricco e liberale, non conosce l’avarizia. Con l’ottava novella – donata a Francesco Gonzaga-Nevers, quartogenito di Ludovico capostipite del ramo dei Gonzaga-Nevers – iniziano le dediche a personaggi appartenenti a rami secondari della famiglia Gonzaga. Nuovamente la motivazione del dono è argomentata e contrario: la novella, in cui si narra di un giovane ben educato che alla morte del padre riprende la sua cattiva natura, è proposta al giovane dedicatario con la certezza che, avendo avuto dal cielo tutte le grazie, non cadrà mai nello stesso errore del protagonista del racconto (c. 26r-v). A Vespasiano Gonzaga (Fondi, 1531-Sabbioneta, 1591) – condottiero, diplomatico e letterato, fondatore di Sabbioneta, che divenne ducato autonomo nel 1577 – Mori dedica la novella nona, perché nei vizi dei personaggi raffigurati il duca tanto più ammiri le sue virtù (c. 27 [n. err. 23]r-v). La novella decima è offerta a Ferrante II Gonzaga (Mantova, 1563-Guastalla, 1630), nipote di Ferrante I, principe di Molfetta e capostipite del ramo dei Gonzaga di Guastalla, città che acquistò nel 1539. Nella dedicatoria (cc. 28r-29r) il Gonzaga è lodato anche come fondatore e principe dell’Accademia degli Invaghiti, della quale il Mori aspirava a far parte. Le dediche delle novelle undicesima, dodicesima e tredicesima sono inviate dal Mori rispettivamente ai tre figli di Luigi Alessandro Gonzaga: Alfonso († 1592), marchese di Castel Goffredo (cc. 29v-30v); Ferrante († 1586), marchese di Castiglione delle Stiviere (c. 31r-v), Orazio († 1589), signore di Solferino (cc. 32r-33v). Quest’ultima, la più lunga tra le dedicatorie presentate e la più commossa, è interessante perché attraverso le lodi del Gonzaga presso il quale aveva militato e che non aveva mancato di aiutarlo in molte occasioni («Dopo il grandissimo Dio [...], et dopo i Serenissimi Signori Duca et Principe di Mantova [...] confesso di non haver obligatione maggiore a qual si voglia vivente, non che Principe, di quella c’ho a V. S. Illustriss. la quale non come padrone, ma come padre, et padre amorevole, tanto liberalmente e per tanti anni mi raccolse presso di sé nel colmo delle maggiori mie necessità, riducendo in speranza di miglior fortuna le cose mie, ch’erano scorte a qualche dubbio termine», c. 32r-v), il Mori rievoca con orgoglio la sua giovinezza di soldato e le imprese belliche alle quali aveva partecipato. La serie delle dedicatorie del Mori si chiude con quella della novella quattordicesima a Pirro Gonzaga (1540-1592) – marchese di Gazzuolo, figlio di Carlo e fratello del cardinale Scipione – che il dedicante ringrazia per i molti favori ricevuti (c. 34r-v). Se la seconda parte del volume è interamente occupata dalle dediche del Mori, la prima raccoglie sei testi di autori diversi, disposti senza alcun ordine apparente. Il Sesto libro si apre con la lunga dedicatoria, senza luogo e data, con la quale Scipione Bargagli (Siena, 1540-ivi, 1612), sotto lo pseudonimo di Simone Biralli, offre ai suoi lettori la raccolta Delle imprese scelte dove trovansi tutte quelle che da diversi autori stampate si rendon conformi alle regole et alle principali qualità, stimate da’ buoni giudizi le migliori infin qui d’intorno a questo nobilissimo soggetto [...] raccolte ad utilità e diletto di coloro che vaghi e studiosi ne sono. Volume primo (Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1600, cc. 1r-6v). Ascritto all’Accademia degli Intronati e poi a quella degli Accesi, Bargagli fu apprezzato oratore (suo il discorso funebre per Alessandro Piccolomini) e divenne celebre anche fuori di Siena per la sua competenza nell’ambito dell’impresistica: nel 1578 era uscita La prima parte delle imprese, e nel 1594, con l’aggiunta di una seconda e terza parte, il trattato completo. La sua opera più nota sono tuttavia I trattenimenti, dove da vaghe donne e da giovani uomini rappresentati sono onesti e dilettevoli giuochi, narrate novelle e cantate alcune amorose canzonette, scritti prima del 1569, pubblicati nel 1587 da Bernardo Giunti e più volte ristampati. Nella lettera, approfittando dello pseudonimo, Bargagli loda l’utilità del suo trattato Dell’imprese, che discute quanto già detto sull’argomento dai precedenti trattatisti, dando finalmente regole chiare. Poiché il trattato ha goduto di grande successo (come testimoniano le molte lettere di plauso ricevute dall’autore, la dedica all’imperatore Rodolfo II e da lui accettata, i guadagni degli stampatori e il fatto che a Siena il Bargagli sia ormai considerato la massima autorità in materia da tutti), “Biralli” ha deciso di fare una scelta delle imprese migliori da affiancare all’opera teorica. La dedica ai lettori, e non a personaggi importanti, è motivata con il fatto che essendo stati loro ad averlo spronato a scrivere, sapranno meglio apprezzare il suo lavoro, decretandone il successo. Dopo la lettera del Mori a Giovanni Battista Cavallara, segue le dedica «Del R. P. Remigio Fiorentino» – nome con cui si firmava il domenicano Remigio Nannini (Firenze, 1521-ivi, 1581), poeta, traduttore e curatore nei primi anni Sessanta dell’edizione delle opere di s. Tommaso su incarico di Pio V (Venezia, Giunti, 1562-1563) – del suo volgarizzamento delle Heroides ovidiane (Epistole d’Ovidio di Remigio Fiorentino divise in due libri, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1555, cc. 8v-10r). L’opera, che godette di una certa fortuna (ebbe sedici edizioni entro il 1630), era offerta «Al molto Mag. M. Pier Francesco di Tomasso» cioè, come si evince dall’edizione giolitina, al fiorentino Pier Francesco di Tommaso Ginori. Nella lettera l’autore spiega all’amico il motivo che l’ha spinto a pubblicare: la traduzione di alcune epistole, che faceva leggere agli amici man mano che avanzava nel lavoro perché lo aiutassero a emendarla, era finita in mano a estranei che l’avevano pesantemente rimaneggiata, peggiorandola: «perché io pensava che in poco spatio di tempo (s’io l’havessi lasciate [le epistole] così malmenare) elle sarieno state di maniera lacere e guaste che si saria perduta la speranza di risanarle. Questa pietà adunque m’ha fatto darle in luce, et scoprire le mie e le lor vergogne, le quali harei tenute volentieri ascose» (c. 9v). Alla prima dedicatoria del Mori a Vincenzo Gonzaga Comino Ventura ne fa seguire una propria, datata 31 gennaio 1596 (cc. 11v-12r), composta per accompagnare le Ragioni et essempi allegate alla Santità di nostro signore Clemente VIII dal duca di Nivers, per ottener l’assolutione per Henrico di Borbone, detto re di Navarra (Bergamo, Comino Ventura, 1596). Lo scritto di Ludovico Gonzaga Nevers, dignitario e diplomatico di Enrico IV – che rientrava nelle intenzioni dello stampatore all’interno di una serie volta a raccogliere i testi inviati da «Prencipi» e «dottissimi huomini» a papa Clemente VIII «in materia se dovesse [la] Chiesa Santa accettar in figliuolo Henrico di Borbone, re già solamente di Navarra, et hora quarto di tal nome anche di Francia» – è donato a Simone Mambilla, dottore in leggi genovese, «di simile materie saggiamente curiosissimo» (c. 12r). L’affermazione del Ventura è confermata da un’opera del dedicatario conservata manoscritta alla Franklin Library (University of Pennsylvania, ms. 490): Relationi delle cose seguite in Francia dall’anno 1585 che alcuni Prencipi e SS.ri. fecero lega è presero l’armi in essa, per difesa della religione catolica, sino all’anno 1595 che Henrico 4 hora regnante fù dal SSmo. Pontifice Clemente 8 ribenedetto, e dichiarato [...] da diversi autori con molta diligensa raccolte, e nel presente volume ridotte per il Mag. Simone Mambilla gentilhuomo Genovese. A Vittoria Farnese (Roma, 1521-Urbino, 1602), figlia di Pier Luigi e sposa dal 1548 del duca di Urbino Guidobaldo II Della Rovere, Giovanni Andrea Gilio (Fabriano, prima metà del sec. XVI-ivi, 1584) offre il suo Trattato [...] de la emulatione, che il demonio ha fatta a Dio ne l’adoratione, ne’ sacrificii et ne le altre cose appartenenti alla divinità. Diviso in tre libri (Venezia, Francesco de’ Franceschi, 1563; la princeps era uscita a Venezia, senza note tipografiche, nel 1550, cc. 12v-14v). Il trattato del Gilio – canonico di S. Venanzio e successivamente priore dell’eremo di Suavicino, nel quale si era ritirato dal 1579 – fu il primo intervento scritto in volgare contro le accuse di idolatria mosse dai protestanti ai cattolici per il culto di santi, delle immagini e delle reliquie. Le due dediche successive, e che precedono la lunga serie firmata dal Mori, sono entrambe opera di Alessandro Piccolomini (Siena, 1508-ivi, 1578). Quella datata Lucignano ad Asso, 8 dicembre 1564, offre al cardinale Ippolito d’Este (Ferrara, 1509-Roma, 1572) la seconda parte del trattato Della filosofia naturale (Della filosofia naturale di M. Alessandro Piccolomini di nuovo con quella più accurata diligenza che s’è potuto ricorretta e ristampata. Parte prima-seconda, Venezia, Giorgio de’ Cavalli, 1565, cc. 15r-17v; la dedicatoria della prima parte a Giulio III in Quinto libro, cc. 26v-34 [n. err. 25]r; cfr. «Margini», 5, 2011). Nella lunga lettera il Piccolomini motiva la distanza temporale che separa le edizioni delle due parti del trattato (1551-1565), dicendo che alla volontà di saggiare le reazioni dei dotti alla prima parte si è aggiunta una grave malattia. Non avendo ricevuto «giuste riprensioni», riguadagnata la salute, ha composto la seconda parte del trattato, che ora dedica al cardinale per ringraziarlo della sua opera come vicario del re di Francia a Siena dall’ottobre 1552 al maggio 1554 e per «quel favore che, più volte occorrendo, con dimostrar buona opinion di me, m’ha fatto parlando»; obbligo accresciuto dalla «grata accoglienza et ben disposta volontà» che il cardinale ha sempre dimostrato verso il fratello dell’autore, Giovanni Battista (c. 17v). Segue la dedica, senza luogo e data, a Ferdinando de Mendoza, cardinale di Coria e di Burgos, di un’opera che il Ventura indica, erroneamente, come «Terza parte della Filosofia naturale» (cc. 18r-19v). Autore della terza parte del trattato non fu Alessandro, ma il nipote di lui, Porzio, che la pubblicò nel 1585 (Della filosofia naturale di M. Alessandro Piccolomini, distinta in due parti, con un trattato intitolato Instrumento. E di nuovo aggiunta a questa la terza parte, di Portio Piccolomini suo nipote, Venezia, Francesco de’ Franceschi: la dedica al cardinale Luigi d’Este in Quinto libro, c. 23 [n. err. 29]r-v; cfr. «Margini», 5, 2011). Al Mendoza, dal quale aveva ottenuto un impiego a Roma e che lo aveva ospitato nella sua casa dal 1548 al 1553, Piccolomini aveva offerto L’instrumento de la filosofia edito a Roma da Vincenzo Valgrisi nel 1551. Nella lettera infatti l’autore motiva l’offerta «non tanto perché con havermi ella con ogni benignità d’affetto chiamato prima nella casa sua, et di poi beneficandomi ogni giorno et favorendomi m’habbia legato con vincolo di gratitudine, quanto ancora perché il valor suo et la dottrina mi hanno persuaso a questo» (c. 19r). L’ultima dedica proposta è quella a Luigi di Castiglia, datata 1 gennaio 1592 (Ventura scrive erroneamente «1 gennaio 1602»), delle Lettere di Giuliano Goselini, pubblicate a Venezia da Paolo Megietti (c. 35r-v). Il dedicante, Bartolomeo Ichino, curatore alcuni anni prima del Mausoleo di poesie volgari e latine in morte del sig. Giuliano Goselini fabricato da diversi poeti de’ nostri tempi (Milano, Paolo Gottardo Ponte, 1589), avendo deciso di pubblicare alcune lettere familiari del Goselini «per mostrar la gratitudine dell’animo mio et che vive ne la memoria de i benefitij ricevuti dal Sig. Giuliano Goselini mio Signore», offre la raccolta a Luigi di Castiglia, perché sempre «con manifesti segni dimostrò di stimare et honorare la virtù dell’Autore» (c. 35v). Anche il Sesto libro si chiude con l’indice degli «Authori da’ quali sono tolte le Lettere» (c. 36r) e con quello dei «Personaggi a’ quali sono dedicate le lettere» (c. 36v).



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Bibliografia

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