9, 2015
 
Wunderkammer    
 


Alessandro Tassoni

A chi legge
Perché l'autore non dedichi l'opere sue

a cura di Damiano D'Ascenzi



Non dedicando io ad alcuno questo mio libro, come neanche ho mai dedicato cosa alcun'altra publicata da me, son sicurissimo che ciò alla maggior parte stravagante e capriccioso debbia parere poi che qualunque oggidì stampa fin le più vili minuzie suol dedicare. Il perché non sarà forse discaro a coloro che non si lasciano, come pezzi di legno, portare dal torrente della comune l'intendere i rispetti che m'hanno mosso a non dedicarlo. I quali se non saranno dimostrazioni, saranno però, cred'io, di quel peso di che la proposta materia è capace, dicendone Aristotile nel 3. del 1. dell'Etica che come non basta al matematico il discorrer probabilmente, così non si deono volere dal retore argomenti dimostrativi. Le ragioni che a dedicare, oltre il moderno costume, doveano indurmi sono diverse; ma l'uso antico, fra l'altre, di tutti i popoli professori di lettere, che senza distinzione alcuna di persone o di materie solevano dedicare. Onde leggiamo che le favole d'Esopo furon già intitolate al re Creso; alcune opere d'Ippocrate medico a Perdica re de' Macedoni, le Varie storie di Tolomeo d'Efestione a Tertulla sua amica e i libri di Frinico Arabo a uno de' maggiori nemici che avessero i libri, Commodo imperadore. Io non favello di quei di Valerio Massimo ch'ei dedicò a Tiberio, né di quelli di Seneca intitolati a Nerone, principi cattivi sì, ma però letterati. E taccio Avicenna, Almaele, Alchindo, Albenait, Albumeron, Alfarabio e tanti altri, che a Corrasa, Almansore, Abdulach, Abdelmonio e ad altri re africani dedicarono l'opere loro, posciache questi, quantunque barbari e dati all'armi, ebbero spiriti d'animi generosi che per desiderio di fama li mossero ad apprezzar gl'ingegni che fiorivano allora. All'uso antico e moderno s'aggiugne che certi abbozzamenti d'una parte di questi medesimi quisiti usciron, già non ha molto, a riconoscere i passi con la vanguardia d'una dedicatoria sotto la protezione de' signori Accademici della Crusca. E 'l dar protettori in questi tempi alle scritture che si publicano par molto ragionevole per meglio assicurarle dai denti dell'invidia, sì numerosi, lunghi ed acuti che gran riguardo bisogna avere a chi pretende che non lo debbiano mordere. Pare anco onestissima cosa che gli scrittori con mezzo tale cerchino di dar fama agli uomini grandi, lodando e celebrando la virtù loro, e che in un medesimo tempo a se stessi, per ricompensa delle proprie fatiche e vigilie, procurino onore ed utile. Né tacerò quello che intorno alle dedicazioni nel suo proemio dell'Arte militare disse Vegezio: ch'era anticamente in costume di ridurre in trattati e libri gli studi dell'arti più nobili e dedicargli e donargli a' principi, come a quelli che sempre / dovrebbono saper più d'ogn'altro, potendo essi con la dottrina giovare a tutti i sudditi loro. Il Castelvetro anch'egli, del cui ingegno la mia patria s'onora, aggiunse due altri riguardi che possono indur gli scrittori a dedicare i libri, cioè il fin d'insegnare, come Aristotile, che intitolò alcune dell'opere sue ad Eudemo e a Nicomaco, le quali per loro ammaestramento aveva composte; o vero per ubbidire, come tanti trattati che in vari tempi a richiesta di principi hanno fatto gli autori. Ma niuna di tante ragioni ha potuto in me tanto ch'io abbia stimato convenirmisi più il dedicare che il secondare il solito mio costume, percioché dell'uso moderno, che dedica ogni cosa e spesso con indegnissime dedicazioni vitupera gli uomini degni, io ne fo pochissima stima e, se consideriamo l'antico, egli era assai differente dal nostro, bastando a quegli uomini sinceri por nelle prime righe del libro il nome semplice dell'amico o del signore a cui prima d'ogn'altro il davano a leggere. E non era ciò costume comune, vedendosi che i libri antichi dedicati sono molto pochi e innumerabili quelli che non hanno dedicazione d'alcuna sorte. La ragione anch'ella del dar protettori a' libri contra l'invidia a me non riusciva di quel peso che pare peroché invocar la protezione d'un personaggio di quei che non professano lettere, quantunque eminente, io non giudicava che convenisse, essendo che le quistioni di lettere s'hanno a diffinire con lettere e non con mezzi di persone potenti né con armi né con minacce, come la legge di Macometto; e se io invocava un letterato per protettore, non mi pareva con tutto ciò di fare cosa lodevole poi che l'opposizioni che saranno fatte a' miei libri mentre ch'io vivo stimo d'essere obbligato io stesso a ribatterle e di non potere con salvezza dell'onor mio chiamare in aiuto alcuno che mi difenda. Non che non debbia ognuno aver caro ch'altri nell'occasioni pigli la sua difesa; ma non la dee, per mio avviso, domandar egli per non dichiararsi poco avveduto e inabile a mantener quelle cose ch'egli stesso ha publicate per buone. E quanto al riguardo d'aver chi protegga dopo la morte, che fondamento poteva io porre in una sola persona che prima di me può morire o molto poco vivere dopo me? Ma poniamo ch'io avessi dedicato il mio libro a una qualche republica o università o adunanza d'uomini scienziati poi che queste per ordinario lungamente sogliono vivere, e chi allora m'assicurava che questa avesse voluto accettare la mia difesa, non volendo alcuna ragione che una adunanza publica si metta alla difesa d'una persona privata senza aver obbligo alcuno di farlo? E tanto maggiormente che negli altrui esempi veggio ben io di continuo dedicazioni a signori e a republiche acciò che proteggano questo e quel libro; ma non veggo giammai che tal briga venga accettata, anzi, occorrendo il bisogno, parmi che i protettori invocati non ne facciano caso alcuno. Aggiugnesi che, solendosi opporre agli scrittori o per verità o per malignità o per ignoranza, se per malignità o per / ignoranza mi sarà opposto, l'opposizioni si caderanno da loro o non mancheranno persone intendenti che, quand'io sarò morto, si moveranno a compassione di me; ma se per verità, con che merito poteva pretender io ch'una republica o adunanza d'uomini gravi si mettesse a difendere i miei errori con rischio di perdere il credito e di non fare acquisto di sorte alcuna? Che poi sia lodevole il dedicare per la fama che s'acquista agli uomini degni e per l'utile e onore che si procura a se stesso, ciò stimo io vanità manifesta peroché senza nota d'ambizione niuno può mai presumer d'esser tale che vaglia a dar gloria e fama co' suoi scritti agli uomini per sé grandi; sì che tanto maggiormente si dee astenere dal dichiararlo nella fronte de' libri. Oltre che la via di presente per tal effetto tenuta pare molto contraria, essendosi introdotto d'anteporre all'opera una epistola di molte carte in lode della persona invocata, piena di tante adulazioni e bugie, e così affettate e tediose che stomacherebbono i polli; sì che a gran fatica si trova oramai chi solamente voglia leggerne il titolo. Ma la corruzione de' buoni e sinceri costumi gastiga gl'inventori di tale abuso conciosiaché, non essendo il fin loro di dar veramente fama alla persona invocata, ma d'aggirarla fra le ruote del secolo e farla cadere a regalare con donativi o a promuovere il dedicante a qualche dignità, l'arte si schernisce con arte e i signori hanno imparato anch'eglino a rimunerare l'adulazioni e l'iperboli mercenarie con una bella girata di parole cortesi. A quello che disse Vegezio: che gli uomini dotti debbiano presentare a' principi le memorie de' loro ingegni, richiedendosi che chi regge possa insegnare a tutti i sudditi suoi, rispondo che quello che si fa perché un principe sia più scienziato degli altri e che a lui per tal effetto si dedica non si dee publicare a tutti, essendo che quel principe non può saper più degli altri che sa quello che è stato insegnato publicamente ad ognuno. E perciò leggiamo che Alessandro Macedone agramente si dolse d'Aristotile che avesse publicate quelle materie che a lui per cosa recondita erano state insegnate. Non si dee publicar similmente quello che si compone per ammaestramento d'una persona particulare, poscia che quello che si publica a tutti mostra che non è fatto a contemplazione d'un solo; senza che tal maniera d'intitolare i libri eccetto che con le persone inferiori d'età e di senno non si conviene, come vediamo appunto che gli antichi l'usavano. Ben è vero che alle volte comandano i principi che per publica utilità si scrivano trattati e relazioni di cose incognite, come i re di Spagna, che hanno mandati scrittori apposta nell'Indie Nuove perché dieno contezza alle genti d'Europa delle cose di quelle parti. E questi tai libri senza alcun dubbio potrebbonsi dedicare ai re che gli hanno ordinati; ma niuna ragione c'è d'obbligo e puossi ugualmente e bene farlo e non farlo. Rimarrebbeci il dubbio dell'essersi già data fuori una parte di questi medesimi quisiti con la dedicazione, la quale veramente non biasimo, osservand'io / quell'Accademia illustrissima con ogni sorte di reverenza. Ma non posso già approvar quegli abbozzi che, fatti allora improvisamente senza aver libri e dappoi scarmigliati e scipati, per così dire, da chi che fosse, furon per altra mano contra il mio gusto e contra il dover publicati. A me certo (se stati non fossono gli allegati rispetti) non mancava a chi dedicare il mio libro. Che, quantunque in sedici anni che frequento la Corte di Roma io sia stato così poco in grazia alle stelle di questo cielo che non pure tutti gli aiuti, ma tutte le speranze mi sian mancate, sareimi rivoltato al favor d'altri principi non per trarne danari né per aggiunger fama alla gloria loro, anzi perché la lor chiarezza porgesse qualche luce alle tenebre mie. E se non avessi avuta altra occasione migliore, bastavami col serenissimo Carlo Emanuele duca di Savoia quel suo generoso e magnanimo cuore, o col gran Cosmo Secondo la servitù de' miei antenati, o coll'Altezza d'Urbino, il signor duca Francesco Maria secondo di questo nome, la stima ch'egli fa degl'ingegni. Né forse il glorioso pontefice Paolo Quinto, ch'oggidì regna (se i suoi santi predecessori non presero in mala parte, che da scrittori poco prudenti fossero lor dedicati libri della cucina) si sarebbe sdegnato di vedersi dedicar quistioni degli elementi, del cielo e delle cose umane. E quando pur finalmente ogn'occasione con tutti gli altri mi fosse venuta meno, non mi sarebbe mancata col principe della mia patria, il nuovo Cesare, la cui benignità incomparabile può dar confidenza di favori e di grazie ai proprii nemici suoi, non che ai sudditi naturali e divoti come son io. Ma poi che con sì poca ragione, come veduto abbiamo, si dedicano le scritture che si vogliono publicare, niuno si maravigli s'io non dedico queste mie, le quali, se il valeranno, troverannosi protettori senza dedicatoria; e se no, poco in ogni modo lor gioverebbe che fossero dedicate. Ho anche voluto scriver materie fisiche nella lingua che comunemente si scrive nella mia patria. Non che non m'avesse dato ancor l'animo di scriver nella latina; ma emmi paruto di secondar la natura dove non ho stimato aver bisogno dell'arte; e tanto più lusingandomi il gusto d'essere il primo, s'io non m'inganno, a introdurre in essa una nuova dottrina con nuove opinioni. Aggiuntovi che 'l mio fine è di scrivere a' cavaglieri e signori, che non sogliono darsi agli studi di lingue antiche, e parrà forse anco troppo ad alcuni di loro ch'io abbia lasciate latine le autorità degli allegati scrittori per non iscemarle di peso. Potrannomi appuntare di brevità quei che dello stesso appuntaron que' primi abbozzi che 'l Cassiani diè fuori. Ma questo è mio elettivo peccato, non avend'io mai nelle scritture mie premuto in cosa più che in esser breve e chiaro. Sì che quietinsi, di grazia, gli scioperati che aman le storie lunghe perch'io vorrei che anco gli affacendati potessero senza danno legger le cose mie.

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Nota

Il testo qui trascritto − che riproduce (con le invalse normalizzazioni grafiche riguardanti titulus, Eszett, h etimologica e maiuscole di riverenza) le prime quattro pagine fuori numerazione di Varietà di pensieri / d'Alessandro Tassoni / divisa in ix parti, // [colophon] // [fregio] // in Modona, / Appresso gli Eredi di Gio. Maria Verdi, m.dc.xiii − costituisce la prefazione d'autore che Alessandro Tassoni (Modena, 1565-1635) incluse nell'edizione del 1612 dei Pensieri e che sarà presente anche in quella ampliata e definitiva del 1620.

I Pensieri sono un'erudita compilazione a carattere enciclopedico suddivisa in dieci libri (Caldo e freddo; Cielo e stelle; Sole e luna; Aria, acqua e terra; Accidenti e proprietà diverse; Disposizioni, abiti e passioni umane; Lettere e dottrine profane; Costumi di popoli e interessi di Stato; Cose poetiche, istoriche e varie; Ingegni antichi e moderni) a loro volta internamente scanditi da un numero variabile di Quisiti, che spaziano, tra le altre cose, da problemi di fisica meccanica (Se la gravità e la leggierezza sieno i primi principi del moto retto) e selenologici (Da che procedano le macchie, che si veggono nella luna) − passando per dissertazioni di ordine zoologico (Perché i pesci non abbiano voce; Perché i gamberi vadano all'indietro), etico (Se l'ambizione sia vizio), storiografico (Perché Costantino abbandonasse l'Italia e Roma), poetologico (Se la favola del poema epico dell'Ariosto abbia unità) − fino alle «curiosità più minute», alle «oziosità tipiche degli intrattenimenti accademici» (Pevere 2007, p. 21) come, ad esempio, i quesiti Perché non nascono peli verdi o Perché il corpo di Alessandro Macedone dopo la sua morte tanti giorni imputrefatto si conservasse.

Marco Paoli ha di recente ben inquadrato l'operazione teorica messa in atto dal poeta modenese nell'avviso A chi legge: Tassoni ha inteso muovere una «critica ben strutturata» all'imperante «prassi dedicatoria» (Paoli 2009, p. 199), scalfendo uno ad uno i tradizionali e speciosi «argomenti pro-dediche» (ivi, p. 200) e pervenendo così a una «lucida» demistificazione «del concetto di "protezione" che la finzione cortigiana aveva fin troppo valorizzato» (ivi, p. 201). Gli argomenti pro-dediche suddetti (s'intitola un'opera a qualcuno che possa fare da garante dinanzi a eventuali detrattori o per procurare celebrità al dedicatario o per designarlo quale interlocutore privilegiato nel caso il proprio testo sia di tipo precettistico o per riconoscergli ufficialmente il ruolo di committente dell'opera stessa) e le rispettive chiose (il coinvolgimento di un protettore esterno tradisce l'insicurezza dell'autore circa la bontà del proprio scritto, la presunzione di accrescere la gloria del dedicatario è mera «vanità», la dedica "didattica" è lecita solo se indirizzata a chi è inferiore per età o cultura, quella al proprio committente può ritenersi facoltativa) sono dal Tassoni derivati, e a dire il vero senza una grande ansia di aggiornamento, dall'esplicitamente evocato concittadino Castelvetro, il quale tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento era stato infatti «il primo a consacrare una trattazione specifica alle dediche» (Bianco 2008, p. 14), spianando in un certo qual modo la strada all'autore della Secchia rapita.

La novità della prefazione tassoniana, perciò, non va tanto attribuita al "cosa" è in essa argomentato, quanto piuttosto al "come": il disdegno della dedica non viene sostenuto, a mo' di digressione, nell'àmbito di un più ampio lavoro esegetico su un'opera altrui (come aveva fatto il Castelvetro), né viene mediato da una propria controfigura interna alla finzione di un dialogo letterario (come aveva fatto Giovanni Fratta in Della dedicatione de' libri, pubblicato a Venezia nel 1590), al contrario tale dissenso viene dal modenese avocato a sé e agito direttamente, per giunta proprio in quel locus in cui il lettore secentesco si aspetterebbe di reperire l'oggetto del rifiuto.

Ciononostante, la tenuta e la persuasività del ragionamento tassoniano non sono del tutto immuni da crepe che minacciano di farle tentennare: il pur schietto richiamo alla dedica avantestuale (quella ai «signori Accademici della Crusca», che inaugurava il primo nucleo dei Pensieri pubblicato nel 1608 per i tipi di Giuliano Cassiani) finisce per stendere un'ombra imbarazzante sull'intero avvertimento ai lettori. Non meno perplesso rimane chi legge davanti alla menzione, a poche battute dalla fine, di Carlo Emanuele di Savoia, Cosimo II de' Medici, Francesco Maria II d'Urbino, papa Paolo V e Cesare d'Este quali possibili candidati alla dedica dei Pensieri, tra i quali l'autore avrebbe potuto scegliere se non avessero prevalso le remore anti-dedica di cui sopra. A ben vedere, per quanto Tassoni si atteggi a «spregiatore delle dediche», egli «non arriva [...] al punto di rompere» in modo drastico «con il mecenatismo» (Paoli 2009, p. 202). Relativamente all'ipotetica rosa di papabili, Paoli propone di classificarla come dedica preteritiva (ibid.): mi si consenta di suggerire, invece, la qualifica di dedica "controfattuale", aggettivo da accogliere nell'accezione che indica tutto ciò che venga concepito «come un'alternativa possibile, ma non realizzatasi, rispetto a un effettivo stato di cose o corso di eventi» (Dizionario italiano con sinonimi e contrari, Milano, Garzanti, 1998).

Il preambolo autoriale posto a corredo dei Pensieri, lo si è detto ampiamente, medita su un dispositivo paratestuale − l'epistola dedicatoria di accompagnamento a un'opera letteraria − che inerisce sì alla veste editoriale con cui si porgono i testi al pubblico, ma che è al contempo espressione materiale di un rapporto tra le lettere e il potere, sospettato di ledere l'indipendenza e la dignità di queste ultime: non si perda però di vista che quello del Tassoni, pur rimanendo un enunciato di senso compiuto fruibile singolarmente, è esso stesso un peri-testo, un testo-soglia propedeutico a un Testo principale al quale deve evidentemente fare capo. Si prenda anzitutto il sottotitolo «Perché l'Autore non dedichi l'opere sue»: dal punto di vista sintattico esso corrisponde a un'interrogativa indiretta, ovverosia la forma che hanno pressoché tutti i sottotitoli che costellano i dieci libri dell'enciclopedia del Nostro, di conseguenza il perché l'autore abbia rinunciato al gesto dedicatorio diviene un quisito né più né meno dei tanti presi in esame lungo il volume (in effetti l'ultimo per cronologia di composizione, il primo per dispositio).

Per quanto concerne invece l'iniziale chiamata in causa del principio aristotelico secondo cui non devono esigersi «dal retore argomenti dimostrativi» così come da un «matematico», essa serve sì a prevenire le riserve circa la pre-liminare discussione sulle dediche (che inevitabilmente andrà a poggiare su un «discorrer probabilmente», cioè su argomenti e confutazioni di carattere empirico), ma sembra irradiare la propria tutela ben oltre il perimetro dell'avviso ai lettori ergendosi programmaticamente a garanzia di tutto il corpo dei Pensieri, se è vero che il modenese, nello sviluppare le varie «quistioni degli elementi, del cielo e delle cose umane», sovente serba «sospeso il 'giudizio' [...] accettando con indifferenza tutte le apparenze» (Puliatti 1986, p. lxxxv).

Tassoni, poi, nella premessa evade formalità squisitamente proemiali, come la notifica del compromesso linguistico cui è dovuto scendere («Ho [...] voluto scriver materie fisiche nella lingua [...] della mia patria [...] ho lasciate latine le autorità degli allegati scrittori per non iscemarle di peso»), la declinazione del motivo del primus ego («lusingandomi [...] d'essere il primo [...] a introdurre [...] una nuova dottrina con nuove opinioni») e l'indicazione dei propri lettori ideali («'l mio fine è di scrivere a' cavaglieri e signori»). Ha inoltre modo di darci in anteprima un saggio del metodo speculativo di cui si è avvalso a piene mani all'interno del trattato enciclopedico: un metodo basato sulla sinergia tra aneddotica (si veda l'accenno ad Alessandro Magno che redarguisce il proprio illustre mentore, episodio che il modenese può aver riferito sulla scorta della plutarchea Vita Alexandri o del xx libro delle Noctes Atticae di Aulo Gellio) e "dossografia" (in aggiunta a quella di Castelvetro, viene riportata anche la sententia di Vegezio). E proprio la citazione del trattatista tardo-antico è fatta oggetto di una ricorsività (dopo il primo richiamo al proemio dell'Epitoma rei militaris ne segue un secondo a pochi periodi di distanza) da considerarsi emblematica di quell'andamento spiraliforme che è connotato saliente dei Pensieri, la cui «saggistica d'esperimento», infatti, «continuamente si allarga con una serie di addizioni, di ritorni [...] e di agglutinazioni» (ivi, p. lxxxvi).

Passando insomma da uno sguardo volto alla sola dimensione tematica a uno più orientato sulla morfologia e la contestualizzazione intratestuale, il tassoniano avviso A chi legge − senza perdere il proprio valore di documento della riflessione endoletteraria sul fenomeno della dedicazione dei libri e di requisitoria di quegli scrittori che con dubbia onestà intellettuale prostituiscono l'arte per opportunismo economico o velleità di promozione sociale − è in grado di rivelare tutta la propria natura di proficua e solidale mise en abyme del contiguo testo.

D. D.




Bibliografia

Bianco 2008
M. Bianco, Lodovico Castelvetro e la 'Intitolatione gratiosa de' libri a spetial persona', in «Margini. Giornale della dedica e altro», ii, (http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_2/saggi/articolo3/castelvetro.html).

Paoli 2009
M. Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale, Lucca, Pacini-Fazzi.

Pevere 2007
Pevere, Gli ambigui fasti della modernità: il decimo libro dei 'Pensieri' di Alessandro, Tassoni, in «Campi immaginabili», 36-37, pp. 21-32.

Puliatti 1986
A. Tassoni, Pensieri e scritti preparatori, Introduzione e testo a cura di P. Puliatti, Modena, Panini, 1986.