1, 2007
 
Saggi    
 
Abstract


Maria Antonietta Terzoli

Dediche leopardiane I: infanzia e adolescenza (1808-1815)



Chi cercasse nei ricchissimi indici leopardiani dello Zibaldone una voce relativa alla dedica o al dedicare resterebbe deluso: né nell'Indice compilato dall'autore a partire dal luglio 1827, né negli indici parziali, né nelle polizzine a parte figura il minimo riferimento a questa pratica. Né d'altra parte compare alcuna voce di questo genere negli indici stesi dai vari studiosi.1 Anche nella Crestomazia della prosa, pubblicata a Milano nel 1827 per l'editore Antonio Fortunato Stella e organizzata per tematiche e generi - Narrazioni, Descrizioni e immagini, Apologhi, Lettere, Discorsi dimostrativi, Filosofia pratica, Filologia e così via - non è prevista nessuna sezione intitolata Dediche, benché non manchi qualche stralcio estratto da lettere dedicatorie, come un frammento dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, compreso nella sezione Filosofia speculativa con il titolo Differenza grande che è da uomo a uomo.2 Eppure mi pare che proprio nel caso di Leopardi un'indagine sulle dediche e sul loro uso possa rivelarsi estremamente produttiva: sia per quanto riguarda la conoscenza dell'autore e dei suoi rapporti con i contemporanei, sia per quanto riguarda l'uso sofisticato che uno scrittore così consapevole della tradizione e insieme così innovativo riesce a fare di uno strumento altamente codificato come la dedica. L'epistolario, d'altra parte, come vedremo in qualche caso specifico, documenta l'attenzione che Leopardi riserva a questa parte così fragile e insieme così visibile di un'opera: nel costruirla, nel chiedere (o non chiedere) il consenso al dedicatario e nel preoccuparsi del suo giudizio, nel modificarne alcune parti per una successiva edizione, o viceversa nel rifiutarne del tutto l'impiego. Mi pare dunque oltremodo istruttivo - oltre che di buon auspicio - aprire il primo numero di «Margini» proprio con uno studio dedicato a uno dei più straordinari e consapevoli scrittori italiani, per indagarne comportamenti e scelte in questo genere di scritture, e mostrare su un caso esemplare l'efficacia teorica e operativa di questo approccio, nonché le potenzialità esegetiche ad esso connesse. L'ampiezza di un campo per molti aspetti inesplorato e la mole dei risultati raccolti in questa indagine mi hanno indotto a dividere il saggio in tre parti: una prima, che qui si presenta, introduttiva e relativa alle dediche dell'infanzia e dell'adolescenza (tra il 1808 e il 1815), una seconda e una terza, che usciranno nei prossimi numeri di «Margini», relative agli anni della giovinezza e della maturità, cioè alle dediche comprese tra il 1815 e il 1831. Un'osservazione che si impone, prima di passare in rassegna le singole dediche, è relativa al loro numero, scarso rispetto a quello che si può indicare negli stessi anni per altri autori, e decisamente minimo se messo in rapporto all'ingente produzione leopardiana: una quindicina, considerando anche quelle delle scritture infantili. Di queste solo una minima parte - quattro, tutte successive al 1817 e solo per opere in versi - fu effettivamente utilizzata: la dedica criptica (e falsa) dell'Inno a Nettuno edito nel 1817, quella a Vincenzo Monti delle prime due canzoni, uscite a Roma all'inizio del 1819 con data 1818, quella a Leonardo Trissino della canzone Ad Angelo Mai pubblicata nel 1820, e quella della prima edizione dei Canti del 1831, indirizzata Agli amici suoi di Toscana. A queste vanno aggiunte cinque dediche collettive firmate da Giacomo con i fratelli, da collocare tra il 1808 e il 1810, tre delle quali in fronte a opuscoli semi-privati stampati in piccole tipografie locali, che attestano quanto la pratica fosse consueta nell'ambito familiare. Anche la collocazione cronologica di questi testi mi pare significativa. Considerando sia quelle individuali sia quelle collettive, le dediche leopardiane sono tutte comprese tra il 1808 e il 1820 - addirittura una quindicina tra il 1808 e il 1815 - con una possibile eccezione nel 1825 (la dedica epigrafica e latina, senza data, a Georg Barthold Niebuhr) e un'ultima prova, importante e anomala nel 1831: segno di un progressivo allontanamento dalla pratica dedicatoria, con tempi che sembrano paralleli alla presa di distanza ideologica e poetica dall'ambiente e dall'educazione familiare, ma segno anche di un rapporto complesso con questo genere di scritture. È invece del tutto normale la prevalenza di destinatari maschili. Comprendendo anche le dediche collettive, quattro soltanto sono rivolte a dedicatari femminili: alla madre, alla nonna (due), e a una non meglio definita «donna malata di malattia lunga e mortale». A una prima analisi colpisce la differenza tra le dediche dei primi anni e quelle della maturità: non nel senso, ovvio, di una diversa qualità stilistica, ma nel senso di un passaggio da una sperimentazione variegata a una notevole omogeneità di forma. Se all'inizio il giovanissimo Leopardi compone molte dediche in versi (per giunta in vari metri) e in varie lingue (italiano, francese, latino), come a tentare molteplici possibilità espressive, a partire dal 1815 ricorre a dediche molto omogenee: di tipo epistolare, in prosa e in italiano, con l'unica eccezione epigrafica e in latino di cui si è detto.3 Una scelta così selettiva appare tanto più sintomatica in quanto più anomala, e quasi anacronistica rispetto alla tendenza generale degli anni successivi al 1815, che vede piuttosto la diffusione di brevi dediche epigrafiche.4 Lo stesso Monti, che della dedica epistolare nella sua lunga carriera aveva fatto un'arte sapientissima, ne stigmatizzava l'uso in una lettera del 6 marzo 1826, sconsigliandola come ormai fuori moda: Il costume di siffatte lettere è meritamente andato in disuso, e con più senno al presente si suole supplire con una semplice iscrizione, anche quando l'opera viene intitolata ai Potenti: e ciò molto più si conviene ad umile persona come la mia. Si appigli dunque al mio suggerimento, e con quattro parole significanti la sua benevolenza renda più pago il mio cuore e il giudizio del pubblico.5 Eppure in Leopardi queste dediche epistolari offrono una straordinaria varietà di realizzazione: come se la rigidità della forma avesse stimolato nell'autore maturo un esercizio di variatio oltremodo complesso, una sperimentazione sofisticata, per minime variazioni, del potenziale semantico e stilistico disponibile entro confini rigorosamente formalizzati: un po' come accade nel caso di forme metriche cogenti e artificiose come la sestina lirica. Nell'analisi di alcune di queste dediche vedremo che si tratta, in effetti, di testi nel senso più complesso del termine: dove le scelte lessicali e stilistiche, la posizione delle parole nella frase e la costruzione dell'intera argomentazione tendono all'estremo le potenzialità espressive consentite da una forma rigida e da un lessico altamente codificato. È questo un aspetto di cui tutti gli autori di dediche si mostrano in qualche modo consapevoli (almeno nella pratica della loro scrittura), ma che in Leopardi raggiunge un'assoluta eccellenza di risultati. Conviene partire dalle primissime prove, rimaste a lungo inedite, alcune delle quali figurano come semplici lettere all'interno dell'Epistolario, altre si leggono nel volume Entro dipinta gabbia curato da Maria Corti, che ripropone i testi infantili di Leopardi già editi insieme con altri rimasti inediti o dispersi in pubblicazioni di difficile reperibilità.6 La prima dedica individuale di Leopardi che si conosca è rivolta alla madre, per offrirle una prosa devozionale, L'entrata di Gesù in Gerosolima, Dedicata a S. E. la Signora Contessa Adelaide Leopardi, da Giacomo Leopardi, da identificare con ogni probabilità con la Prosa alla mia Genitrice composta a sua richiesta nel giorno della Domenica degli Ulivi 1809, registrata da Leopardi al n. 32 dell'Indice delle sue composizioni a partire dal 1809.7 La dedica, di cui non si conserva l'autografo, nella trascrizione del primo editore appare - stranamente in rapporto alla forma epistolare e alle stesse consuetudini leopardiane - senza data, ma sulla base dell'identificazione più che plausibile con la prosa registrata nell'Indice, è databile 26 marzo 1809, giorno in cui cadeva quell'anno la Domenica degli Ulivi. Quello che i vari editori danno come titolo sarà più probabilmente un'intestazione - in parte titolo e in parte dedica - scritta su una sorta di frontespizio, che si potrebbe ricostruire in forma epigrafica (questa o analoga), a partire dalle modalità consuete per questo tipo di dediche: *L'entrata di Gesł in Gerosolima
Dedicata
a
S. E. la Signora
Contessa
Adelaide Leopardi
da
Giacomo Leopardi.
All'interno del fascicoletto, o nel séguito della pagina, si leggeva probabilmente la breve prosa offerta e poi, forse sull'ultima pagina, la dedica in forma epistolare, se davvero questa seguiva (e non precedeva come era più consueto) il testo offerto, secondo quanto è possibile ricavare dalla descrizione fornita dall'abate Jacopo Bernardi, che la pubblicò per la prima volta nel 1865.8 Se si confronta ora questa intitolazione con il titolo registrato nell'Indice colpisce che nella seconda occorrenza sia indicata anche l'occasione da cui è nato il componimento: non spontanea, ma imposta dalla dedicataria, definita per giunta con il temine non affettuoso ma decisamente aulico di «Genitrice» (Prosa alla mia Genitrice composta a sua richiesta ecc.). La parte epistolare è relativamente breve e vale la pena di trascriverla per intero:     Carissima signora Madre,
Già ben prevedo, che una critica inevitabile mi sia preparata. Questa composizione, mi par di sentire, è troppo breve, ed in qualche luogo lo stile è basso. Io non so che rispondere a questa critica, ma mi contento di pregarla a considerare la scarsezza del mio ingegno e a credermi
    Di Lei carissima signora Madre
Dev.mo, Umil.mo, Obbl.mo Servo
Giacomo Leopardi.9
Colpisce qui, oltre al tono estremamente formale con cui il bambino non ancora undicenne si rivolge alla madre, chiamata sempre anche con il termine «Signora», l'insistenza quasi esclusiva su una prevista reazione tutt'altro che benevola: del tutto anomala nei testi di dedica, dove l'abbassamento del dedicante è ottenuto di solito senza formulare pareri negativi contro l'opera offerta, che anzi, nella sua piccolezza, detiene tuttavia il privilegio di essere donata a così illustre dedicatario. Qui sembra invece che la forza della critica materna, temuta e prevista («già ben prevedo», «critica inevitabile»), travolga persino i confini formali della codificazione del genere, lasciando affiorare in un testo così rigidamente formulare frammenti autobiografici di forte emotività (addirittura: «mi par di sentire», «Io non so che rispondere»). In questa dedica manca anche la verbalizzazione dell'atto di offerta, come se fosse ovvio o implicito offrire lo scritto a chi ne ha imposto la composizione («composta a sua richiesta», si legge nell'Indice). Oltre alle formule di umiltà che precedono la firma («Dev.mo, Umil.mo, Obbl.mo Servo»), l'unico elemento che resta della convenzione dedicatoria è l'abbassamento metaforico del dedicante («mi contento di pregarla a considerare la scarsezza del mio ingegno»), non accompagnata tuttavia da nessuna esaltazione della dedicataria, per la quale l'unico aggettivo usato è «Carissima», svuotato quasi di senso dall'accostamento iterato, che si è visto, col termine «Signora». Il testo di dedica, forzato oltre le convenzioni, sembra in effetti sostituire una più difficile comunicazione. È questa, per un testo infantile e da lei imposto, l'unica dedica di Leopardi alla madre finora nota: certo ben diversa da quella con la quale l'Alfieri adulto, nell'agosto 1783, offriva alla madre la Merope: in nome di un'affinità di dolore tra lei e la protagonista, colpite entrambe dalla perdita dei figli.10 Ma diversissima anche dalla dedica emotiva con cui il Foscolo adolescente, nel 1796, offriva alla madre una canzone e cinque sonetti nel settimo anniversario della morte del padre, per consolazione di lei e omaggio alla memoria del genitore, sicuro di poter compensare con l'affetto le ingenuità di quei testi giovanili: «Se i talenti e l'età non mi concessero versi migliori il mio core, il mio core saprà compensare, amandoti, tutti i loro diffetti».11 La dedica leopardiana alla madre appare del resto molto lontana anche da quella indirizzata dallo stesso Giacomo al padre meno di due anni dopo, il 24 dicembre 1811, per offrirgli la tragedia La virtù indiana.12 Basti la sintomatica differenza della firma, dove Giacomo utilizza solo il nome proprio e si definisce figlio («Vôtre Tres-humble Fils Jacques») e non «servo» come in quella alla madre, dove compariva tra l'altro anche il cognome («Dev.mo, Umil.mo, Obbl.mo Servo Giacomo Leopardi»). È singolare che questa dedica si chiuda su una richiesta di giudizio: del tutto infrequente nelle dedicatorie, ma comprensibile se messa in rapporto con le critiche previste nel caso dell'offerta alla madre. Da una generica critica materna a un motivato giudizio letterario paterno: «Si je sois bien, ou mal reussi en ce genre de poesie, ceci est cet, que vous devez juger. Contraire, ou favorable que soit le jugement je serais toujours Vôtre Tres-humble Fils Jacques». La scelta della lingua, francese e non italiano, per un testo in lingua italiana, potrebbe essere un'ulteriore forma di omaggio al padre, compiaciuto della straordinaria erudizione del precocissimo figlio, che già nel 1807, a nove anni, poteva scrivergli una lettera interamente in latino. Ma potrebbe essere legata anche al genere dell'opera offerta, con un rinvio quasi tecnico alla tradizione del grande teatro francese, evocata esplicitamente nella Prefazione alla tragedia.13 La maggior parte della dedica è riservata alla presentazione dell'opera offerta - tanto più notabile per il fatto che la tragedia è a sua volta corredata di Prefazione e di Argomento - messa dichiaratamente in relazione con una composizione del dedicatario stesso, riconosciuto fin dalle prime parole come modello per eccellenza di vita e di letteratura: «Tre-cher Pere, Encouragé par vôtre exemple je ai entrepris d'ecrire une Tragedie. Elle est cette, que je vous present. Je ne ai pas moin profité des vôtres oeuvres que de vôtre exemple». Segue una puntuale dimostrazione della somiglianza di personaggi e di temi tra la propria e le tragedie paterne: anche questa singolare, se rapportata all'orgogliosa dichiarazione di novità che apre la Prefazione («Se non è nuovo l'intreccio di questa Tragedia, giova almeno il credere che nuovo ne sia il soggetto»).14 D'altra parte il volonteroso accostamento a opere per lo più inedite del padre da parte del giovanissimo autore - collegate quasi per naturale appartenenza familiare - non può non evocare, per esatta antitesi, quanto Leopardi adulto scriverà nel 1832, quando prenderà duramente le distanze da un fortunato libro di Monaldo, i Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831, uscito anonimo e erroneamente attribuito a lui: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso, d'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Qui tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore son io».15 E arriverà persino a pubblicare in vari giornali la dichiarazione di non esserne l'autore, inviando poi al padre, il 28 maggio dello stesso anno, una lunga lettera per spiegare le ragioni di tale pubblica smentita: Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. [...] E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e in fine mi son deciso a parlare, p[er] due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, e massimam. a Lei. [...] L'altra, ch'io non voglio nè debbo soffrire di passare per convertito, nè di essere assomigliato al Monti ec. ec.16 Leopardi adulto non dedicherà nessuna opera al padre. Ma è lecito chiedersi se un'altra tragedia del giovanissimo autore, il Pompeo in Egitto del 1812, non sia stata anch'essa offerta a Monaldo come La virtù indiana. L'esistenza di altre dediche al padre è del resto ipotizzabile, in negativo, anche a partire da una lettera del 24 dicembre 1810 - corrispondente alla dedicatoria del 24 dicembre 1811 appena vista - in cui Giacomo si scusa con il padre di non potergli offrire, a differenza degli altri anni, nessuna composizione.17 In effetti altri testi di statuto meno chiaro - nessuno dei quali però mi sembra proponibile per il Pompeo in Egitto - sono riemersi dalle carte infantili: possibili dediche firmate da Giacomo e altre collettive di lui e dei fratelli. Vale la pena di esaminarle rapidamente, partendo da quelle di Giacomo al padre: una del 1810, un'altra collocata tra il 1809 e il 1811, e una terza probabilmente più tarda. Al di là di un'apparente somiglianza sono in realtà molto diverse. L'unica databile con precisione è quella che porta in calce l'indicazione «Recanati 30. Giugno 1810», registrando nella breve intestazione che precede i versi, oltre al nome del dedicatario, anche il tempo e l'occasione dell'offerta: Giacomo Leopardi
Al suo diletto Genitore
Dopo due mesi di studj Filosofici.
Il testo che segue costituisce, a mio parere, una dedica in versi, rivolta al dedicatario indicato nell'intestazione. Considerata la scarsa notorietà del testo e la sua non facile reperibilità, lo trascrivo qui per intero:
  Per il sassoso monte, a la cui cima altera
   Ragion siede spirando austerità severa;
Là dove in man recando le sapienti carte
   I rigidi Filosofi accorser d'ogni parte;
Su cui salì Platone, su cui Socrate ascese,
   Ed immortale ognuno la gloria sua già rese;
Quivi a temprare il barbaro, crudo rigor del fato,
   Le strade filosofiche a noi calcar fu dato.
E quì vedemmo ascendere tacito, e pensieroso
   Lo stuol di scienza cupido, e di saper bramoso.
Ma quanti, e quanti in volto, e grave, e maestosa
   Scacciò da se Ragione in aria minacciosa!
Oh quanti di Filosofo, quanti desìano il nome,
   E di onorevol laurea cinger vorrìan le chiome!
Ma quanti ond'esser sembrino d'alto saper profondo
   Con empie, inique massime corromper sanno il mondo
Fra l'atre, oscure tenebre, fra densa nebbia, e folta
   Ragion purtroppo resta ottenebrata, e avvolta.
Ma pur coteste carte essa vergò sgombrando
   Da se le nere nubi, e il volto rischiarando.
Quì, Genitor, potrai mirar da l'alto soglio
   La Verità fiaccare degli empj il fiero orgoglio.
Così potesse alfine Filosofia scacciare
   L'empie seguaci turbe, e i chiari rai vibrare:
Per cui Ragion nel trono sublime un dì si assida,
   La Religion si avvivi, giubili il mondo, e rida.
Cadan negletti, e vinti gl'iniqui dogmi, e stolti;
   Il Ciel propizio siami, ed i miei voti ascolti.18
 
Il componimento è scritto in un metro piuttosto raro: ventotto versi, distribuiti in distici di martelliani a rima baciata, con il primo settenario sdrucciolo o piano (scansione quest'ultima rispettosa della forma più consueta). Presenta inoltre un sistema di rime molto elaborato, con il ricorso frequente agli stessi elementi grammaticali per ogni coppia di rime baciate (due sostantivi, due verbi, due aggettivi), legate a volte da paronomasia (carte : parte, vv. 3-4; fato : dato, vv. 7-8) o almeno da equivalenza sillabica (altera : severa, vv. 1-2; scacciare : vibrare, vv. 23-24). Alcuni distici sono collegati anche da richiami fonici interni, quasi in forma di rima: «Oh quanti di Filosofo, quanti desìano il nome, / E di onorevol laurea cinger vorrìan le chiome!» (vv. 13-14). A ritenere che si tratti di una dedica e non genericamente di un componimento in versi induce tra l'altro il riferimento alle carte esibite al v. 19: «Ma pur coteste carte essa vergò sgombrando». L'uso del verbo alla terza invece che alla prima persona, riferito alla Ragione personificata («vergò»), si può spiegare ipotizzando che il testo offerto sia soltanto parzialmente opera del dedicante, come potrebbe essere per esempio il riassunto di un'opera di un altro autore, nella fattispecie un filosofo. A partire da queste osservazioni sembra plausibile - come già proponeva Donati - identificare questa dedica in versi con il componimento registrato da Leopardi nel suo Indice al n. 29: «Al mio Genitore presentandogli il secondo di questi estratti. Martelliani».19 L'estratto a cui si riferisce, datato come la dedica 1810, è registrato al n. 28: «Pneumaticae Complexio: estratta dalla Pneumatica del medesimo Autore [P. Jacquier citato al n. 27]. Questi estratti sono stati da me composti nello studiare le dette scienze 1810». Il fatto che chi scrive la dedica non sia l'autore dell'opera offerta potrebbe spiegare l'assenza del consueto topos di modestia. Vale anche la pena di notare che Leopardi considera qui la dedica al padre come un testo a pieno titolo, da registrare con voce separata nell'Indice delle proprie composizioni. In maniera analoga andrà considerato il caso di un'altra dedica al padre, questa volta priva di data, anch'essa in forma di epistola in versi e preceduta da un'intestazione che dichiara il nome del dedicatario: Al Signor Conte
Monaldo Leopardi.
Trascrivo qui di séguito l'inizio:
  Mentre tu godi le delizie amene
Del campo amico, o Genitor diletto,
Con rozza penna a te vergare io voglio
Un'Eliconia carta, onde a te possa
La mia stima svelare, e il mio rispetto.
Nel fonte d'Ippocren la penna intingo,
D'alloro cingo l'Apollinea cetra
E di mirto la fronte indi m'assido
 
  (vv. 1-8).20  
Il metro adottato è l'endecasillabo sciolto, al quale i Sepolcri foscoliani avevano di recente rafforzato in maniera autorevole la patente di metro epistolare. Ma è singolare che il numero totale dei versi sia quattordici, esattamente come quello di un sonetto, a cui mancano solo le rime: una rima su parole di perfetta equivalenza sillabica e grammaticale (diletto : rispetto) lega tuttavia i versi 2 e 5, quasi la minima traccia rimasta di un collegamento privilegiato tra le quartine. Tale forma di quattordici endecasillabi sembra del resto non estranea alla pratica dedicatoria di altri autori. Mi è noto almeno un caso analogo, quello della Geometria del compasso di Lorenzo Mascheroni, uscita a Pavia nel 1797, dove la dedica a Napoleone Bonaparte, Io pur ti vidi coll'invitta mano, è composta appunto da quattordici endecasillabi sciolti, qui con un minimo collegamento tra la prima e l'ultima parte tramite la rima identica dei vv. 1 e 13:
  Io pur ti vidi coll'invitta mano,
Che parte i regni, e a Vienna intimò pace,
Meco divider con attento guardo
Il curvo giro del fedel compasso.
E te pur vidi aprir le arcane cifre
D'ardui problemi col valor d'antico
Geometra Maestro, e mi sovvenne
Quando l'alpi varcasti Annibal novo
Per liberar tua cara Italia, e tutto
Rapidamente mi passò davanti
L'anno di tue vittorie, anno che splende
Nell'abisso de' secoli qual sole.
Segui l'impresa, e coll'invitta mano
Guida all'Italia tua liberi giorni.21
 
A riprova della suggestione ritmica esercitata da questa misura versale, così vicina alla scansione del più fortunato metro italiano, si dovrà aggiungere che la stessa ritorna - ineliminabile anche in un poeta che esclude ogni sonetto dal libro dei Canti - in alcune grandi poesie del Leopardi maturo, come A se stesso (sedici versi), L'infinito (quindici), fino all'idillio Alla luna, che prima della tarda aggiunta sulla stampa napoletana del 1835 era composto, esattamente, da quattordici endecasillabi.22 Ma torniamo alla dedica al padre. Lo statuto epistolare di questo testo del giovane Leopardi, «Mentre tu godi le delizie amene / Del campo amico, o Genitor diletto», è confermato dall'esistenza di una risposta in versi del padre, Il Genitor, che scrive dalle campagne amene, in altro metro (martelliani invece che endecasillabi) ma con incipit sulla stessa parola rima e con riprese lessicali.23 La dedica di Giacomo accompagnava probabilmente testi poetici, generalmente definiti «carmi», come si evince dai versi che si chiudono sul consueto (ma qui davvero molto esteso) topos di modestia:
  Ma che mai dico? che pretendo? io dunque
Udir farò della mia cetra il suono
Al dotto Genitor? no che i miei carmi
Di te degni non son ma tu potrai,
Amato padre, compatirli, e insieme
Gradirli ancor se ciò sperar mi è dato
 
  (vv. 9-14).24   
Il componimento esibisce d'altra parte in maniera insistita dichiarazioni sull'atto del comporre, anch'esse topiche dei testi proemiali e delle dediche in versi,25 con la menzione - spesso in sede di rima - di termini e metafore del far poesia: «penna» (due volte, vv. 3 e 6), «carta» (v. 4), «alloro» (v. 7), «mirto» (v. 8), «cetra» (v. 7, in rima, e v. 10), «suono» (v. 10), «carmi» (v. 11); a cui si aggiungono «Eliconia» del v. 4, «fonte d'Ippocren» del v. 6, «Apollinea» del v. 7. La datazione proposta dai vari editori oscilla, come ho anticipato, tra il 1809 (Piergili), il 1810 (Mestica) e il 1811 (Donati). Quest'ultima mi pare la più probabile, se, come già suppone dubitativamente lo studioso e come a me pare sicuro, questo componimento si può identificare con quello registrato, con identica intestazione e indicazione del metro, al n. 47 dell'Indice leopardiano già ricordato: «Al Sig. Co. Monaldo Leopardi: Sciolti 1811».26 La terza di queste dediche offre al padre una breve poesia, in occasione del ritorno di Monaldo in famiglia dopo un periodo di forzata lontananza. Si tratta di una dedica epigrafica: Giacomo Leopardi
Al suo Amatissimo Genitore Conte Monaldo Leopardi.27
Come ricorda l'ultima editrice, il manoscritto non ha data autografa, ma una data aggiunta successivamente da altra mano, «1 gennaio 1810», che mi pare però poco plausibile, dal momento che la poesia offerta sembra scritta in occasione di un evento preciso e non come dono augurale per il primo giorno dell'anno. L'assenza del padre, causa di «mestizia» (v. 10), si dovrà ricondurre a un soggiorno non gradevole di Monaldo lontano da Recanati: forse a quello trascorso a Macerata, per incombenze pubbliche, come membro della Congregazione di Governo istituita dal restaurato governo pontificio, che egli lasciò per dissidi con il delegato apostolico, monsignor Tiberi, che la presiedeva. Ne è cenno in una lettera di Giacomo al padre dell'agosto 1815: La sua assenza che lascia un gran vuoto nella mia vita ordinaria mi affliggerebbe sensibilmente, e dopo qualche tempo mi riuscirebbe intollerabile, se non conoscessi ciò, che la cagiona. [...] Ella conoscerà che io non esagero quando le dico, che ciò che le avviene di dispiacevole, e che giunge a mia cognizione mi rende inquietissimo, e mi turba grandissimamente.28 In tal caso dedica e poesia saranno da riferire agli ultimi mesi del 1815, dunque a anni più tardi e non più puerili. La poesia, che non mi pare una dedica ma il testo offerto, è di tredici versi, in endecasillabi sciolti, con rima tra i vv. 6 e 8 (affetto : petto), rafforzata da una rima interna al v. 12 (ristretto). Può essere interessante notare che questa sola rima è la stessa che compare (anche qui unica) nella dedica del 1811 al padre che si è appena vista (diletto : rispetto, vv. 2-5), e addirittura che al v. 4 figura in fine di verso la parola «insieme», esattamente come in quella dedica al v. 13: quasi un segno criptico, anche semanticamente significativo, d'intesa tra padre e figlio. Altre dediche in versi figurano nella produzione del giovanissimo Leopardi e molto probabilmente altre sono andate perdute. Di quelle attualmente note, due sono indirizzate al precettore don Sebastiano Sanchini e una alla nonna paterna Virginia Mosca. Quelle al precettore sono identificabili con i due testi registrati al n. 23 dell'Indice leopardiano, sotto l'indicazione «Lettere Due Bernesche al medesimo [Sanchini, citato al n. 21] cavate dai versi del Frugoni presentandogli alcuni Sonetti».29 Dovrebbero essere del 1810 dal momento che sono registrate in una sezione di testi tutti di quell'anno. Sono precedute da un'intestazione, che indica anche il luogo materiale della loro stesura. La prima: All'Illustrissimo
Sigr D. Sebastiano Sanchini
Tavolino.
E la seconda: All'Ill.mo P.rone Col.mo
Il Sigr D. Sebastiano Sanchini
Tavolino.
Entrambe offrono un sonetto, scritto da un autore celato dietro un trasparente anonimato: «Indovini di chi sono questi versi» e «Indovini il solito ma adesso ci vuol poco». Le trascrivo integralmente qui di séguito:
     Precettore che da Dio
Siate sempre benedetto
Ecco celere v'invìo
Pien d'immagini un sonetto[.]
   A me par ch'egli sia bello
E che possa far onore
Alla cetra ed al pennello
Del Poeta e del pittore[.]
   Precettor giocoso e gajo,
Immortal Poeta invitto
Che va sempre con il sajo
Il sonetto ecco trascritto[.]
   Buona notte, e buona sera
State a far la vostra nanna,
E sopisca l'ombra nera
Ogni cura che vi affanna.
   Certun scrive, ed a chi scrive?
Scrive al suo gran Precettore
Che ne' versi suoi già vive
E vivrà seppur non muore[.]
   Mio Signore più non tollera
La mia musa d'indugiare,
Che la vostra fiera collera
Non vuol'ella provocare[.]
   Ecco dunque quel sonetto,
Che da me desiderate,
Se sia bello, mi rimetto
A voi dotto amico Vate.
   Il sonetto orsù leggete
Precettor di Pindo gioja,
Che da ognun quando volete
Discacciate via la noja.
Le due dediche sono costituite da quattro quartine di ottonari (piani nel primo, piani e sdruccioli nel secondo), composte da distici a rima alterna abab (metricamente collegabili per esempio ad alcune canzonette del Frugoni, come Dove il mar bagna e circonda o anche Dell'amabile isoletta, dove però non figurano sdruccioli),30 di tono scherzoso, bernesco appunto. Anche qui abbondano i termini propri della scrittura e del far poesia: oltre alla parola «sonetto», iterata ed esposta in rima in entrambi (vv. 4 e 12; vv. 9 e 13), si veda «cetra» (v. 7), «pennello» (v. 7, in rima), «Poeta» (vv. 8 e 10), «pittore» (v. 10), «trascritto» (v. 12, in rima) nel primo; «scrive» (v. 1, due volte e in rima, e v. 2), «versi» (v. 3), «musa» (v. 6), «Vate» (v. 12, in rima), «leggete» (v. 13, in rima), «Pindo» (v. 14) nel secondo. I due testi sono collegati anche da rime comuni (-etto: vv. 2 e 4, vv. 9 e 11; -ore: vv. 6 e 8, vv. 2 e 4), e dall'iterazione della parola «Precettore»: collocata in anafora, a inizio della prima e della terza quartina nel primo (vv. 1 e 9), in rima e in apertura di verso nel secondo (vv. 2 e 14). L'abile gioco di corrispondenze foniche arriva fino a una sapiente variatio della rima bisillabica e paronomastica gajo : sajo del primo (vv. 9 e 11) con la rima, pure bisillabica e quasi paronomastica, gioja : noja (vv. 14 e 16) del secondo. Grazie all'autorizzazione del genere bernesco le due dediche, nella loro elaborata costruzione, esibiscono il capovolgimento di alcuni tra i più consolidati topoi della pratica dedicatoria. Nella prima il topos di modestia è rovesciato nel vanto e nell'elogio dell'opera:
  Ecco celere v'invìo
Pien d'immagini un sonetto[.]
    A me par ch'egli sia bello
E che possa far onore
Alla cetra ed al pennello
Del Poeta e del pittore
 
  (vv. 3-8).   
È rispettato tuttavia il riferimento, pure topico, all'immortalità della fama del dedicatario: «Precettor giocoso e gajo, / Immortal poeta invitto» (vv. 9-10). La seconda esibisce invece una giocosa dissacrazione della promessa di immortalità, che dovrebbe essere garantita proprio dall'offerta:
  Certun scrive, ed a chi scrive?
Scrive al suo gran Precettore
Che ne' versi suoi già vive
E vivrà
seppur non muore
 
  (vv. 1-4).    
Di questo consapevole rovesciamento è ulteriore conferma il fatto che i versi di apertura della seconda dedica sembrano la parodia del finale del sonetto Poiché serbato dall'eccidio indegno del modenese Orazio Petrochi - in Arcadia Adalsio Metoneo - i cui testi aprono il quarto tomo delle Rime degli Arcadi, uscito a Roma nel 1707 e certo ben presente a Leopardi:
  Ma non già 'l nome e de' gran' fatti suoi
La chiara fama: immortal visse e vive
Egli, o Virgilio, ne' bei versi tuoi
 
  (vv. 12-14).31  
I versi leopardiani, prima di rovesciarne il senso («seppur non muore») capovolgono persino i tempi verbali: «visse e vive» del sonetto (v. 13) diventa «vive / E vivrà» della dedica (vv. 3-4), conservando però la stessa parola («vive») in rima. Inutile dire che qui sono invece presenti, per allusione e quasi a compenso, i topoi della grandezza del dedicatario («Scrive al suo gran Precettore», v. 2) e della modestia del dedicante:
  Ecco dunque quel sonetto,
che da me desiderate,
Se sia bello, mi rimetto
A voi dotto amico Vate
 
  (vv. 9-12).    
Agli anni 1810-1811 andrà ricondotto anche un altro componimento in versi, indirizzato alla nonna paterna, se a questo si riferisce, come sembra probabile, la nota al n. 24 dello stesso Indice: «Lettera Bernesca Ditirambica indirizzata alla Sig.ra Con.sa Virginia Mosca Leopardi a sua richiesta. 1810».32 L'intestazione suona quasi identica: Alla Signora Contessa
Virginia Mosca-Leopardi.
Segue un polimetro che si può definire appunto bernesco, per lo stile e per il lessico (basti l'inizio: «Già salisco sul Parnaso / Tutto pien di buon umore; / Pria mi soffio un poco il naso / Ed asciugomi il sudore», vv. 1-4), e ditirambico per l'insieme dei metri adottati. La poesia è composta da sei quartine di ottonari a rima alterna, come le due dediche al precettore appena viste, e ventiquattro quinari piani o tronchi (vv. 33-34) a rima baciata. La simmetria numerica tra i due tipi di versi (sempre in numero di ventiquattro) è variata non soltanto dal diverso schema rimico ma anche dal fatto che la serie dei quinari è inserita all'interno del gruppo degli ottonari: non esattamente a metà dopo la terza strofa, ma dopo la quarta. Il componimento mi pare di incerto statuto: difficile da classificare tout court come dedica, ma anche difficile da escludere da questo genere di testi. Nel suo Indice Leopardi non fa cenno a eventuali testi inviati con questa poesia, come invece accade per le dediche al precettore appena viste e per quella in martelliani al padre, per le quali nell'Indice ricorre addirittura il verbo quasi tecnico di "presentare". Tuttavia, nel finale, compare un esplicito atto di offerta, «Dunque adesso aggradirai / Questi miei poveri carmi» (vv. 47-48), che riprende una formula analoga, che a sua volta chiudeva la prima serie di quartine:
  Odi dunque, ava, il mio canto,
Che per te già sciolgo ardito:
Esso avrà di gloria il vanto,
Se sarà da te gradito
 
  (vv. 13-16).  
L'offerta è dunque affidata a due sedi forti del testo, entrambe in chiusura, come già nel componimento Mentre tu godi le delizie amene, indirizzato al padre, che ho considerato una dedica, benché anch'esso sia registrato nell'Indice senza altra indicazione di testi inviati:
            [...]      no che i miei carmi
Di te degni non son ma tu potrai,
Amato padre, compatirli, e insieme
Gradirli ancor se ciò sperar mi è dato
 
  (vv. 11-14).    
La difficoltà di decidere se in questi casi si è veramente in presenza di una dedica mi pare un'ulteriore riprova - se ancora fosse necessario - dell'ambiguità di queste scritture liminari: ma anche della loro dignità di testi a pieno titolo, che solo in relazione ad altri a cui si accompagnano possono essere denominati - con qualche approssimazione e per comodità d'uso - paratestuali o, forse meglio, para-testuali. Nelle quartine del componimento alla contessa Mosca, come già in Mentre tu godi le delizie amene, ricorrono con insistenza parole e metafore relative all'atto poetico, «cetra» (v. 5), «musa» (vv. 8 e 41), «alloro» (v. 9), «estro» (v. 12, iterato, e v. 44), «suonar» (v. 42), «Elicon» (v. 43), a volte esposte in rima: «Parnaso» (v. 1, in rima dissacrante con «naso», v. 3), «Apollo» (v. 7, in rima pure poco nobilitante con «collo», v. 5), «canto» (v. 13, in rima paronomastica con «vanto», v. 15), «musa» (v. 41, in rima con «chiusa», v. 43), «lira» in rima con «m'ispira» (vv. 42 e 44), «carmi» (v. 48), alla fine delle quartine, in rima con «ascoltarmi» (v. 46). Una sola di queste parole legate al far poesia figura invece nella serie dei quinari («cantare», al v. 23), impiegata piuttosto per celebrare iperbolicamente le lodi dell'ava, accompagnandole con la topica dichiarazione di modestia:
  Ma che dirò?
Che far potrò?
Non è bastante
Per tali e tante
Virtudi amate,
Virtù pregiate,
Tutto l'ingegno,
Tutto l'impegno
 
  (vv. 33-40).     
Iperbole dell'elogio e topos di modestia sono rafforzati a vicenda dai parallelismi, sottolineati dall'unica rima tronca dell'intero componimento (dirò : potrò, vv. 33-34), dalle anafore semplici (Tutto, vv. 39-40) e con variatio (Virtudi / Virtù, vv. 37-38) che si trovano in versi già collegati da rima baciata e isosillabica. Nelle quartine finali il topos di modestia (segnalato anche dalla parola «umilmente» in apertura dell'ultima strofa) arriva quasi al paradosso dell'impossibilità di comporre:
  Ma è già stanca la mia musa,
     Non più sa suonar la lira,
     D'Elicon la selva ha chiusa,
     Né più l'estro ella m'ispira.
Umilmente la pregai,
     Ma non volle essa ascoltarmi
 
  (vv. 41-46).    
Alla stessa destinataria è offerto, con dedica collettiva di Giacomo, Carlo e Paolina Leopardi, il saggio pubblico del 3 febbraio 1809, stampato a Loreto nella tipografia di Ilario Rossi. La dedica, epigrafica e latina, precisa tra l'altro la data: HOC  DE  ANNUO  STUDIO
IN  HUMANIORIBUS  LITTERIS  SPECIMEN
JACOBUS,  ITEMQUE  CAROLUS
LEOPARDI  FRATRES,
necnon  de  suis  laboribus
P A O L I N A   S O R O R
PUBLICO  CERTAMINE  PROPONUNT,
EORUMQUE  AVIAE  DULCISSIMAE  VIRGINIAE
D. D. D.
Die 3 Februarii 1809.33
Un'altra dedica collettiva, sempre di un pubblico saggio di studi, si legge in un opuscolo stampato a Osimo nel 1808, presso la stamperia di Domenicantonio Quercetti. È rivolta dai tre fratelli allo zio Ettore, canonico decano della Cattedrale di Recanati, in forma epigrafica e in italiano. Secondo la data indicata, 30 gennaio 1808, questa collettiva risulta in assoluto la prima dedica leopardiana che si conosca: Dopo sei mesi di Studio, i tre Fratelli LEOPARDI
Conte GIACOMO-TARDEGARDO di anni nove,
Conte CARLO-ORAZIO di anni otto,
Contessa PAOLINA di anni sette
Il dì 30 Gennaio 1808 si espongono a darne il seguente 
S A G G I O
da essi offerto, e dedicato
Al di loro amorosissimo zio
CONTE D. ETTORE DECANO LEOPARDI.34
L'8 febbraio 1810 un altro pubblico saggio degli studi compiuti dai tre fratelli Leopardi, a cui si aggiunge ora anche il più giovane Luigi, è stampato a Loreto nella già ricordata tipografia Rossi («laureti mdcccx. / ex typographia rossi») e presenta un'elaborata dedica epigrafica in latino. È offerto - in segno di devozione ma anche di amore - a un personaggio storico, l'aristocratico San François de Sales (1567-1622), veneratissimo nella famiglia Leopardi, vescovo di Ginevra e modello di alta cultura cristiana in difesa dell'ortodossia e della dottrina cattolica: divo  francisco  salesio
praesuli  genevae  clarissimo
haereticorum  propugnatori  insigni
vitae  perfectionis  magistro  haud  ulli  secundo
totiusque  ecclesiae  optime  merito
uti  perquam  amantissimo  patrono
nec  non  vigili  studiorum  eorum  auspici
aeterno  monumento  devotionis  obsequii
et  amoris
hoc  de  curis  illorum  specimen
jacobus,  carolus,  paolina,
ac  aloysius  leopardi
d.  d.  d.
sebastiano  sanchinio  praeceptore
laureti mdcccx. 
ex typographia rossi.35
Ancora in latino sono due dediche epistolari del 1810, precedute da un'intestazione epigrafica, con cui Giacomo e Carlo offrono a Monaldo alcuni estratti di testi filosofici. Entrambe si leggono in manoscritti non autografi di Giacomo, forse di mano del fratello Carlo. La prima, intestata Patri Dilecto Monaldo
Iacobus, et Carolus ex Leopardiis
S. P. D.,
reca, nella parte epistolare, la data dell'anno, «A Reparatae nostrae salutis Anno mdcccx», e offre - mi pare di poter ragionevolmente ipotizzare - l'estratto filosofico registrato al n. 26 dell'Indice leopardiano con l'indicazione «Logicae Omnium brevissima Complexio: estratta da quella di Del Giudice. 1810».36 A questo sembrerebbe riferirsi infatti la frase di offerta: «id omne [il tempo], quod nobis ad discendum datum est, in Logicae studio posuimus. [...] hic tibi ostendimus in his interrogationibus comprehensas, quas a trutina tua, haud fallaci perpendendas exhibemus». Segue un eleborato topos di modestia, che declina in termini inconsueti - con riferimento alla giovanissima età - la richiesta di benevolenza per la debolezza dei dedicanti, «Si in illis nostram debilitatem respexeris, duplicis lustri aetatis esse opus memento», e attribuisce l'eventuale merito - sia dell'opera offerta sia dell'atto di offrirla - al precettore, cioè a una figura intermedia tra dedicanti e dedicatario anch'essa anomala nella tradizione dedicatoria. Questi, caratterizzato esclusivamente dal registro dell'elogio («disertissimi, benignissimi», «diligenter»), partecipa in qualche modo dell'eventuale merito dell'offerta: «sin autem benevolo animo aliquod virile ingenium in illis reperies, scias, disertissimi, benignissimi Praeceptoris operam esse, qui diligenter circa ipsas nos instituit, animumque dedit illas tibi ostendere, quemadmodum humillime, devoteque facimus». Alla benevolenza del dedicatario, che però è anche chiamato esplicitamente a giudicare, a soppesare con la sua bilancia («trutina tua»), corrisponde anche qui l'umiltà dei dedicanti. La seconda di queste dediche latine al padre iscrive, nell'intestazione epigrafica che precede la parte epistolare, la data precisa del 30 giugno 1810, espressa secondo il calendario romano: Pridie Kalendas Julias
Anno millesimo octingentesimo decimo
Dilecto Parenti
Iacobus, et Carolus Leopardi
D. D. D.37
La dedica è da considerare probabilmente successiva a quella appena vista, se il testo qui offerto («In hoc tanti momenti studio initiati, per duos menses jam elapsos eidem vacavimus, et totam Ontologiam percurrimus») coincide, come suggerisce già Maria Corti, con quello registrato al n. 27 dell'Indice: «Ontologiae Universae complexio: estratta dall'ontologia del P. Jacquier. 1810».38 La parte epistolare, qui più estesa che nella dedica precedente, si apre con un elogio della filosofia, «Philosophia, quae idem est ac amor sapientiae, scientia est, cujus utilitas exprimi verbis satis unquam non potest», che sembra prendere il posto dell'elogio del destinatario. A quest'ultimo sono riservati, nell'offerta finale, due soli superlativi, «amantissimus» riferito a «Pater» e «consultissimus» riferito a «judex»: «En hic materias per theses expositas; vide, expende, meditare, et uti es Pater noster amantissimus, etiam judex nostri profectus consultissimus sis». È una congiunzione, che era già implicita nella «trutina» della dedica precedente, ma è rara nei testi di dedica - e però emblematica per il giovanissimo Leopardi - di figura paterna e di figura di giudice, chiamato esplicitamente a verificare e misurare il progresso dei figli negli studi. Non prenderò in considerazione la serie di testi scherzosi indirizzati da Giacomo alla sorella Paolina in occasione dei suoi studi di latino, che Donati e Corti collegano alla serie registrata al n. 19 dell'Indice leopardiano: «Componimenti Berneschi fatti in occasione di alcuni Esami dati da noi alla nostra sorella Paolina intorno alla Grammatica Latina. 1810».39 Non si tratta in effetti di dediche in senso proprio, ma di componimenti in versi rivolti a un destinatario preciso, indicato puntualmente in un titolo che si può definire "titolo dedicatorio":40 Alla Signora Paolina Leopardi (i e ii); Alla Signora C. P. L. Madrigale iv; Alla Signora Contessa Paolina Leopardi, Dotta Grammatica, e Letterata. iii; Alla Signora Contessa Paolina L. Erudita Traduttrice di Marco T. C. iii; Alla Signora Contessa Paolina Leopardi (iv e v).41 Importa tuttavia notare che l'uso di titoli dedicatori - rivolti sia a esseri umani sia a entità naturali o astratte - comporta un andamento allocutivo e interlocutorio del testo che non abbandonerà neppure il poeta adulto.42 È appena necessario, credo, ricordare titoli celeberrimi come All'Italia, Ad Angelo Mai, A un vincitore nel pallone, Alla Primavera, Inno ai Patriarchi, Alla luna, Alla sua donna, Al Conte Carlo Pepoli, A Silvia, Palinodia al Marchese Gino Capponi, fino al programmatico solipsismo di A se stesso. Come a dire che la pratica dedicatoria dei primi anni - che si prolunga quasi naturalmente in titoli di questo genere - con la sua forza emotiva, congiunta a un esasperato esercizio retorico e formale, sembra trasmettere ancora allo scrittore maturo consuetudini testuali e formali che vanno ben al di là dei testi liminari e delle dediche in senso proprio, arrivando a toccare le modalità stesse di scrittura della sua lirica più alta.

M. A. T.






Note

1 Cfr. per esempio l'Indice analitico in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. iii, pp. 1231-509; gli Indici leopardiani sono alle pp. 1173-230.torna su
2 Cfr. G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Introduzione e note di G. Bollati, Torino, Einaudi, 1968, p. 307 (xxxii).torna su
3 Per la descrizione tipologica e formale delle dediche utilizzo categorie e definizioni elaborate nell'ambito del progetto di ricerca I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica (Università di Basilea, 2002-2006, diretto dalla sottoscritta): si vedano in proposito il Glossario e l'Help dell'Archivio Informatico della Dedica Italiana (AIDI), in www.margini.unibas.ch.torna su
4 Cfr. in proposito di chi scrive I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des Lumières et invention romantique, Actes du Colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, Réunis par G. Bardazzi et A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 161-92, in particolare pp. 190-91 (riproposto in questo numero di «Margini»); e G. Balducci, Epigrafi e dediche in scrittori moderati del Risorgimento, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 317-44, in particolare pp. 317-19 e 330-35.torna su
5 Cfr. lett. 2801, del 6 marzo 1826, a Nicolò Biscaccia, in Epistolario di V. Monti, raccolto ordinato e annotato da A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928-1931, vol. vi (1824-1828), pp. 165-66, la cit. a p. 166: l'episodio è ricordato in S. Garau, Dediche di Vincenzo Monti, in Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. iii, Monti nella Milano napoleonica e post-napoleonica, a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 263-82, in particolare p. 282, che anche si raccomanda per la conoscenza di questa pratica nel Monti. Le dediche epistolari sembrano trovare nuova fortuna tra fine Ottocento e inizio Novecento, per esempio nel Pascoli.torna su
6 G. Leopardi, «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi, 1809-1810, a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972 (d'ora in avanti Entro dipinta gabbia). Precedenti edizioni di queste poesie infantili si trovano in Le poesie di G. Leopardi. Nuova edizione corretta su le stampe e manoscritti, con versi inediti e la vita dell'Autore, a cura di G. Mestica, Firenze, Barbera, 1886; Poesie minori di G. Leopardi, a cura di G. Piergili, Firenze, Le Monnier, 1889; M. Giachini, La poesia di Leopardi fanciullo (fino al 1811) con Appendice di poesie inedite, Palermo, Trimarchi, 1937. Soprattutto si raccomanda l'eccellente volume G. Leopardi, Puerili e abbozzi vari, a cura di A. Donati, Bari, Laterza, 1924 (d'ora in avanti Puerili); riprodotto in www.bibliotecaitaliana.it/exist/ScrittoriItalia. In una nuova edizione delle Opere di Leopardi sarebbe utile includere anche le dediche: o premesse all'opera a cui si riferivano (per esempio nel caso della tragedia La virtù indiana del 1811, per cui si veda più avanti), o in un'apposita sezione di Dedicatorie.torna su
7 Cfr. Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall'anno 1809 in poi, in G. Leopardi, Tutte le Opere, Le poesie e le prose, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 19658, vol. ii, pp. 1106-10 (d'ora in avanti Indice delle produzioni); la cit. a p. 1109 (questo Indice leopardiano è pubblicato anche, con preziose annotazioni, in Puerili, pp. 264-72). L'identificazione è proposta da M. Verducci, Scritto sconosciuto. Composizione puerile e letterina di presentazione alla madre (1809), in Id., Spigolature leopardiane, Recanati, Centro Nazionale di Studi leopardiani, 1990, pp. 29-37, in particolare p. 31.torna su
8 Sulla rivista «Museo di Famiglia». Rivista settimanale illustrata di E. Treves, a. v, n. 50, 10 dicembre 1865. La nota del Bernardi è riportata in Verducci, Spigolature cit., pp. 32-33; trascrivo qui la parte relativa alla successione dei testi: «Le parole della breve religiosa descrizione, che Giacomo intitola alla madre sua, appalesano quanta cura apponesse nella scelta, nella significazione precisa e nell'ordinamento di esse; la letterina, da cui è susseguita, manifesta primamente la riverenza affettuosa a colei che avealo portato nel suo seno» (mio il corsivo, così nel séguito salvo indicazione contraria).torna su
9 Cfr. lett. 2, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (d'ora in avanti Epistolario), vol. i, p. 4, da cui trascrivo eliminando il punto dopo «credermi»; cfr. anche la nota, ivi, vol. ii, pp. 2121-22.torna su
10 Cfr. V. Alfieri, Merope, in Id., Tragedie, a cura di G. Zuradelli, Torino, Utet, 1973, vol. i, pp. 879-972; la dedica è alle pp. 885-86; mi permetto di rinviare al mio saggio Dediche alfieriane, in I margini del libro cit., pp. 263-89, in particolare pp. 285-89.torna su
11 Cfr. U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bézzola, Edizione Nazionale delle Opere di U. Foscolo, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1961, pp. 294-302; la dedica è alle pp. 294-95, la cit. a p. 295; e cfr. di chi scrive La raccolta Naranzi, il canzoniere per la madre, le dodici odi per l'Alfieri, in Ead., Foscolo, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 11-15, in particolare pp. 11-13.torna su
12 Cfr. lett. 6, in Epistolario, vol. i, p. 8 (così tutte le citazioni da questa dedica). La virtù indiana (senza la dedica) si legge in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. i, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori, 19987 (d'ora in avanti Poesie e prose), pp. 806-38. Su questa dedica si veda anche C. Genetelli, Agonismi leopardiani. Per una rinnovata esegesi della canzone 'All'Italia', in «Studi e problemi di critica testuale», 2006, 72, pp. 71-96; in particolare pp. 73-74.torna su
13 Poesie e prose, vol. i, pp. 806-807; in particolare p. 807.torna su
14 Ivi, p. 806.torna su
15 Lett. 1744, del 15 maggio 1832, a Giuseppe Melchiorri, in Epistolario, vol. ii, pp. 1907-908; la cit. a p. 1907.torna su
16 Lett. 1753, del 28 maggio 1832, ivi, pp. 1917-19; la cit. a p. 1918; il corsivo è dell'autore. Sul complesso rapporto di dipendenza e emulazione intellettuale tra padre e figlio, con precoce rovesciamento dei ruoli, si veda M. Palumbo, Introduzione a G. Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, nota di F. Foschi, Venosa, Edizioni Osanna, 1997; G. Manganelli, Introduzione a G. Leopardi, Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, a cura di G. Pulce, Milano, Adelphi, 1988, pp. 9-23.torna su
17 Cfr. lett. 5, Epistolario, vol. i, pp. 6-7.torna su
18 Entro dipinta gabbia, p. 461 (al v. 5 ho corretto «su'» in «su»); Nota al testo, pp. 513-14.torna su
19 Indice delle produzioni, vol. ii, p. 1109; la successiva a p. 1108. Per la datazione cfr. anche Puerili, p. 270.torna su
20 Entro dipinta gabbia, p. 460 (al v. 4 correggo il refuso «Un» aggiungendo l'apostrofo mancante); Nota al testo, p. 513.torna su
21 Cfr. La geometria del compasso di L. Mascheroni, Pavia, presso gli Eredi di Pietro Galeazzi, anno V (1797), p. 3 non numerata; cito da AIDI: www.margini.unibas.ch (scheda redatta da S. Garau). Un vero sonetto è invece la dedica della Mirra alfieriana a Luisa Stolberg d'Albany: cfr. in proposito di chi scrive Dediche alfieriane cit., pp. 283-84.torna su
22 Si tratta dei vv. 13-14 dell'ultima versione («Nel tempo giovanil, quando ancor lungo / La speme e breve ha la memoria il corso»), aggiunti su un esemplare dell'edizione dei Canti uscita a Napoli nel 1835 (presso lo Starita) e conservata nel Fondo Leopardiano della Biblioteca Nazionale di Napoli (AN XX 3): cfr. G. Leopardi, Canti, Edizione critica e autografi, a cura di D. De Robertis, Milano, Il Polifilo, 1984, vol. i, pp. 137-38, in particolare p. 138.torna su
23 Edito per «Nozze Monti - Roberti Lauri», Recanati, Simboli, 1876 (cfr. Entro dipinta gabbia, p. 513); poi in Puerili, pp. 6-7.torna su
24 Entro dipinta gabbia, p. 460.torna su
25 Basti pensare alle dediche di Orlando Furioso i 3-4 e di Gerusalemme Liberata i 4-5.torna su
26 Cfr. Indice delle produzioni, vol. ii, p. 1110; cfr. Puerili, p. 272; Entro dipinta gabbia, p. 513 (nota a xiii).torna su
27 Entro dipinta gabbia, p. 459; Nota al testo, p. 513.torna su
28 Lett. 11, del 12 agosto 1815, a Monaldo Leopardi, Epistolario, vol. i, pp. 15-16, la cit. a p. 15; e cfr. Note, ivi, vol. ii, p. 2125.torna su
29 Cfr. Indice delle produzioni, vol. ii, p. 1108. I due componimenti si leggono in Entro dipinta gabbia, pp. 449-50 (da cui cito i due testi che seguono); e cfr. Nota al testo, p. 512, dove è proposta anche l'identificazione col n. 23 dell'Indice.torna su
30 Si leggono in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, con la collaborazione di M. Fubini, D. Isella, G. Piccitto, Introduzione di M. Fubini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, rispettivamente alle pp. 230-35 e 235-42.torna su
31 Adalsio Metoneo (Orazio Petrochi), Poiché serbato dall'eccidio indegno, vv. 12-14, in Rime degli Arcadi, Roma, per Antonio Rossi, 1717, t. iv, p. 22 (riprodotto in www.bibliotecaitaliana.it); il sonetto è il quarantaduesimo di una collana di cinquanta.torna su
32 Cfr. Indice delle produzioni, vol. ii, p. 1108. Il componimento si legge in Entro dipinta gabbia, pp. 464-65 (da cui trascrivo le citazioni che seguono); e cfr. Nota al testo, p. 514. L'identificazione col n. 23 dell'Indice è già suggerita, pur dubitativamente, dal Donati: «Né del n. 24 né del n. 25 ho trovato traccia tra le carte leopardiane di Recanati. C'è, a dir vero, un componimento indirizzato alla contessa Mosca (quello pubblicato alla p. 22 del presente volume); ma reca nell'autografo la data del 1811. Qualche lapsus di memoria non è inverisimile, ma non è nemmeno inverisimile qualche dispersione di questi foglietti volanti, che soltanto molti anni più tardi furon riuniti e conservati con cura religiosa» (cfr. Puerili, p. 269). Tenderei a mantenere l'identificazione, supponendo un errore di scrittura nel manoscritto o più probabilmente nell'Indice: nel primo caso la poesia sarebbe del 1810, nel secondo del 1811.torna su
33 Entro dipinta gabbia, pp. 472-73, la cit. a p. 472 (corsivo dell'autore); Nota al testo, p. 515.torna su
34 Ivi, pp. 469-71, la cit. a p. 469 (corsivo dell'autore); Nota al testo, p. 515.torna su
35 Ivi, pp. 474-85, la cit. a p. 474 (corsivo dell'autore); Nota al testo, pp. 515-16.torna su
36 Cfr. Indice delle produzioni, vol. ii, p. 1108. La dedica si legge in Entro dipinta gabbia, p. 462; Nota al testo, p. 514; andrà collegata al documento intitolato Logicae apparatus, che si legge ivi, pp. 486-87 (e cfr. p. 516, Nota a iv).torna su
37 Ivi, p. 463; Nota al testo, p. 514; la dedica era materialmente legata al documento intitolato Ontologiae Epitoma, ora in Entro dipinta gabbia, p. 488 (e cfr. p. 516, Nota a v).torna su
38 Cfr. Indice delle produzioni, vol. ii, p. 1108.torna su
39 Ibid.; cfr. Puerili, p. 269.torna su
40 Cfr. qui nota 3.torna su
41 Cfr. Entro dipinta gabbia, pp. 451-52, 453, 454, 455, 456 e 458; Nota al testo, pp. 512-13.torna su
42 Sull'andamento allocutivo e interlocutorio della poesia leopardiana, si vedano L. Blasucci, I titoli dei 'Canti', in Id., I titoli dei 'Canti' e altri studi leopardiani, Napoli, Morano, 1989, pp. 153-66, in particolare pp. 163-64; P. V. Mengaldo, Come iniziano i 'Canti', in Id., Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei 'Canti' di Leopardi, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 41-77, in particolare pp. 48-59.torna su