10, 2016
 
Saggi    
 
Abstract

 


Marcello Ciccuto

Il Bello del Parini, ovvero le armonie del gusto nelle pitture verbali del Settecento



È un fatto che nei ‘quadri d’epoca’ del Giorno specialmente, e col sostegno dei propositi satirici sperimentati prima, su identici registri, al tempo della «Gazzetta di Milano»1 Parini usi una tecnica rappresentativa e descrittiva dei personaggi nella quale prevale un effetto di decomposizione dell’essere umano e delle sue parti,2 per un evidente effetto di satira di costume e di grottesco che, attinte le fonti di un sostanziale sensismo,3 privilegiava costantemente il dettaglio decorativo, il frammento d’esibizione virtuosistica,4 tali da pareggiare il gusto così del barocchetto lombardo come di un’isolata ritualità più e più volte accostata ai domestici ‘quadri di un’esposizione’ nella maniera di Pietro Longhi.5 Il cumularsi insomma di frammenti di genere, questi ‘riquadri’ dal tratteggio breve e conciso e talvolta lasciati nella condizione di non-finito sappiamo da tempo rispondere bene all’immagine delle «graziosissime dipinture» che alcuni quasi-contemporanei dello scrittore, Luigi Bramieri e Pompilio Pizzetti, avevano saputo riconoscere nell’officina elaborativa del Giorno quale obiettivo pressoché esclusivo di una cultura figurativa, quella appunto di Parini, forse non ancora consapevole delle sue possibilità di sviluppo verso più alti ideali rappresentativi.6 Certo è stato utile richiamare a confronto − specie perché sono del tempo della gestione pariniana della «Gazzetta di Milano» − il frammentismo della satira di Hogarth e le grottesche deformazioni dei ritratti scultorei di Franz-Xavier Messerschmidt (come ha fatto anche di recente Gennaro Savarese);7 ma ancor più efficace può risultare proiettare queste indubitabili competenze della cultura di Parini sulle fasi elaborative dell’opera poetica, i rifacimenti vari cioè del Giorno laddove si cercava di adeguarne la struttura tutta e le singole parti a un classicismo formale di taglio arcadico secondo un processo − perfettamente descritto da Dante Isella nell’Officina della Notte8 che punta alla perfezione del Bello nella misura in cui riesce a ordinare o compone fogli staccati di un album da disegno in base a nuove regole di «esattezza, semplicità, purità d’Arte»,9 dietro le quali cominciamo allora a intravedere l’equilibrio compositivo di un Tiepolo e un Appiani nel momento stesso in cui vediamo allontanarsi le isolate fissazioni in immagine che erano state proprie dell’arte longhiana.10 La critica ha ricostruito per tempo i passaggi elaborativi attraverso i quali Parini, proprio quando rivedeva caparbiamente le parti meno convincenti e organiche del suo poemetto (almeno sino alla pubblicazione 1767 del Mezzogiorno e al rimpasto del Meriggio),11 lavorava al sorgere di una nuova stagione creativa coincidente coi Soggetti e Appunti per pitture decorative −;12 quindi non vi sostiamo affatto. Ma una cosa conta rilevare, e cioè l’efficacia di una sorta di ri-orientamento del gusto e forse di un’intera attitudine culturale che porta a una certa altezza Parini a capire prima, scegliere poi quanto la funzione civilizzatrice e civile del Bello non dovesse passare più attraverso isolati esibizionismi descrittivi pure tipici di alcune aree del Giorno,13 al sensismo slegato della percezione rococò del Bello medesimo, bensì prendere dall’esempio della pittura coeva il modello di un’idealità del creare artistico, dove la dignità ora pressoché divina di ingegno e virtù costruttiva14 la vinceva su quelle che erano state definite «le tavole vetuste del secondo Mattino», quelle appunto che corrispondevano alle dispersioni e alle superfluità fini a se stesse del giovin signore. Questo passaggio e questa emancipazione davvero epocali per lo scrittore di Bosisio avranno poi esatto parallelo nel percorso di un pittore suo contemporaneo quale fu Giacomo Ceruti, e non possiamo che accennarne appena nei termini appunto di un trascorrimento dei suoi mezzi rappresentativi ed espressivi dall’esplicito sensismo di scene di genere, di una vita campestre osservata con occhio di fisiocrate, al rasserenamento in un quadro di arcadica idealizzazione della vita modesta di pastori e filatrici che ci dice di un’ormai raggiunta coesione fra realismo e spirito arcadico-pastorale.15 Ora però vale portare qualche elemento utile per meglio definire come si venne configurando il nuovo concetto di Bellezza per l’estetica pariniana ma anche per un’intera fin-de-siècle. Perché se è vero che fu Ugo Foscolo, probabilmente per primo, a puntare l’efficacia del nesso poesia-pittura dentro la materia del Giorno,16altrettanto vero è che Giosue Carducci era stato subito in grado di cogliere i dettagli di un ‘progetto di bellezza’ acquisibile «per via di dipintura» e verificabile nella materia dei sonetti pariniani, specie là dove ad esempio agisce la figura del pittore Andrea Appiani;17 e Attilio Momigliano per parte sua si era dato molto da fare al fine di mostrare come Parini non sempre riusciva nel quadro compiuto, si fermava spesso alla pura e semplice descrizione e al dipinger minuto persino alla maniera di William Hogarth;18 beh, in realtà nessuno meglio di Leopardi aveva saputo individuare e portare in campo narrativamente tutte le componenti grazie alle quali in Parini si sarebbe presto riconosciuto l’alfiere della funzione civile della poesia unita a tutte le arti nella prospettiva di un ideale di Bellezza praticabile nel mondo contemporaneo e dunque non più astratta componente di una vaga cultura rétro.19 Che cosa era successo? che cosa aveva contribuito a determinare il «rispetto delle cose essenziali specie nei confronti del soggetto e i rapporti necessari all’integrità di esso» che sappiamo aver guidato l’azione di ripristino neo-classico, a livello urbanistico e architettonico, del Piermarini per Milano?20 Alla base, detto in semplicità, fu l’intenzione di dare funzione finalmente organica o armonica agli isolati frammenti di bellezza (pure riconoscibili sotto la scorza d’apparato, i virtuosismi confusi e le forzature del gusto secentista, le morbidezze del barocchetto e del gusto rocaille dell’aristocrazia lombarda, appunto)21 a quella limitativa esaltazione dell’ornato che sfociava in aneddoti e astrazioni a non finire, perlopiù non regolate da istanze d’ordine compositivo che invece con Parini e Piermarini e gli artisti attorno a loro cominciano a fissarsi all’orizzonte culturale dell’epoca.22 Detto in modo meno elementare e nel caso specifico di Parini, si trattò di instaurare un rapporto organico e funzionale fra il letterato o l’uomo di cultura e il sistema tutto delle arti, portato all’interno di una dimensione civile e civilizzatrice che faceva tesoro dell’onda lunga, dell’afflusso di competenze neo-classiche, in arte, in letteratura, in architettura e via dicendo, oramai consolidate.23 Una felicis temporis reparatio che coincise − questo è un concetto fondamentale per intendere l’esperienza pariniana nel suo complesso e nel suo rapporto con l’estetica − col culto di nuove leggi, immutabili, quelle della ragione e dell’equità.24 Non si trattò di un pensare astratto: è significativo ad esempio che Parini non scriva mai in modo esplicito di “bellezza ideale”,25 lui che aveva preparato questa rivoluzione in chiave prettamente umanistica, studiando la letteratura degli emblemi;26 riportando in auge gli antichi e moderni repertori mitologici e dizionari iconografici col declinarne l’uso a fini comunicativi di sollecitazione morale27 o infine trasformandoli in giacimenti della perfezione creativa delle immagini estratti dall’Antico sui quali lo stesso Piermarini, reduce da Roma, aveva impostato il suo progetto edificativo appunto di marca classicheggiante: inteso a configurare il modello della città ideale dei philosophes che sarebbe approdata significativamente alla creazione di un luogo urbano rappresentativo, di uno spazio unitario nel quale tutto assumesse la sua funzione specifica e in organica relazione a tutte le altre funzioni.28 Quasi tutto poteva far presagire esiti ambigui, innestato com’era l’intero progetto su precetti dell’ordo rhetoricus classico. Anzi, Parini arriva a far suo il principio − consacrato ad esempio attraverso l’apologo di ‘Zeusi a Crotone’ − secondo cui l’artista è in grado di produrre il Bello solo scegliendo e componendo nella sua opera gli sparsi elementi della bellezza naturale. Nell’esordio del suo corso di lezioni afferma che la bellezza delle opere d’ingegno «consiste nella presentazione di varii oggetti gradevoli per se medesimi, e talmente scelti, composti ed ordinati, che formino un oggetto solo notabilmente gradevole ed interessante», talché «gli effetti che l’opera bella può produrre, piacere e interesse, premono, si direbbe, a Parini più dell’essenza dell’opera stessa».29 È più che esplicito Parini su questo punto: Tutte le volte che si tratta delle passioni e delle operazioni dell’uomo e che si cerca di ben conoscerne l’indole ed il carattere per istabilire i veri Princìpii ad uso di noi medesimi o d’altrui, la più breve, la più sicura, anzi l’unica via da battersi è quella di tener dietro continuamente all’uomo stesso e di andarlo, per così dire, spiando nella successione delle sue sensazioni e nella serie delle sue idee. Nel che, se noi non attribuiamo di troppo alla nostra opinione, hanno gravemente errato coloro, i quali, anche nelle materie che appartengono ai sentimenti ed al gusto, si sono troppo abusati dell’astrazione, talmente che hanno fatto della stessa teorica delle Belle Arti una cabala sublimemente superstiziosa.30 Quella di Parini risulta dunque essere una bellezza perfetta, sì, e anche un “puro tipo ideale superiore ai sensi”; ma questo suo ideale di bellezza «deriva dalle sensibili proporzioni», «cade sotto i sensi» come aveva rilevato a suo tempo Reina, e l’artista è chiamato a perfezionare l’esperienza vivente del Bello, entro canoni di precetti, certo, ma prima di tutto ispirati alle funzioni pubbliche e civili: è dopo la metà degli anni ‘60 che il rapporto col potere incoraggia Parini a riflettere sulla funzione pubblica delle arti, sull’utilità per la vita civile, sull’opportunità di mobilitare artisti per ridisegnare anche fisicamente gli spazi della vita collettiva, la città, la nuova Milano. La città il cui riassetto urbano, che Parini celebrerà poi nella “Descrizione delle feste celebrate in Milano” per le nozze dell’arciduca e nel libretto dell’Ascanio in Alba, sembra quasi prefigurarsi già nella descrizione immaginosa dell’Atene repubblicana tracciata, per bocca di Pericle, nel Discorso inaugurale del 6 novembre 1769.31 Ha senso a questo proposito ricordare un episodio quale quello del ritrovamento novecentesco di un frammento di pariniana ut pictura poësis quale fu attorno a un disegno a penna di Andrea Appiani:32 disegno corredato dall’autografo di un sonetto rinvenuto entro la cornice e pubblicato per la prima volta addirittura nel 1970. Si tratta della Composizione allegorica per le nozze di Beatrice Cusani e Giovanni Battista Litta Modignani33 [FIGURA 1] dove si vede come tutti gli elementi dell’antica mitografia − Le nozze di Alessandro Magno e Rossane, Amore che scrive sull’ara, il Genio alato, la presenza di Apollo, le due madri abbracciate − risultino piegati a sigillare entro una specie di prospettiva arcadica, edenica e ideale il tema civile delle nozze − e non quello degli amorazzi casuali o servili − fondendo appunto mito e ideologia civica sotto l’insegna della collaborazione di pittura e poesia.34 Ciò che corrispondeva perfettamente al rilievo che era stato concesso alle nozze dell’Arciduca Ferdinando con Maria Beatrice d’Este e al loro insediamento a Milano − celebrato da Parini con la moderna allegoria dell’Ascanio in Alba e la descrizione delle feste nuziali − sulla via dell’accreditamento di una funzione civile che recuperava i valori ideali del passato classico: il tutto ampiamente celebrato ed esaltato nelle decorazioni del Palazzo di Corte, 1778, alla cui partitura scenografica, meravigliosamente descritta e interpretata da Gennaro Barbarisi, dette contributo letterario e iconografico d’eccellenza proprio Parini nella chiave prediletta di un elogio della Bellezza che permeava ogni atto della vita dei prìncipi, della corte e insomma del potere politico nella Milano dell’epoca.35 Il Bello coltivato dalla prospettiva pariniana viene dunque a coincidere col ‘moderno vivere’, dove la scuola pubblica, le accademie, l’insegnamento pragmatico, gli spettacoli teatrali, la stessa vita politica e sociale della nobiltà dominante hanno funzione di edificazione e educazione collettive e non possono rappresentare più i belletti del cicisbeo. E lo dice lo scrittore a chiare lettere, anche scagliandosi − lui solitamente così misurato − contro la vecchia concezione di insegnamento accademico: il fine delle belle arti si è il ritrovamento e la produzione del bello […] Pochissimi sono que’ fortunati genii che, naturalmente, quasi per istinto, e senza nessun esteriore soccorso, vengono rapiti alla volta di esso. La maggior parte degli altri talenti hanno bisogno che sia loro appianata la via che ad esso conduce. Per molti è necessario di farne loro sentire una volta le attrattive, perché, conosciutolo, vi corrano poi dietro da sé, e divengano al pari d’ogn’altro eccellenti.36 La conoscenza del bello in Parini fu proprio questo, lo stabilire un’armonia nell’individuo che si estende per via comunicativa a ciò che’è comune a tutti, all’intera specie umana. Vorrei insistere a questo punto solo un attimo su un aspetto rilevante di tale ‘riforma del gusto del Bello’, impostata sulla chiarezza e l’equilibrio di un’autentica paideia classica di matrice retorico-letteraria, e cioè sul ruolo dell’unità delle arti e sull’influenza di «Belle Lettere, Eloquenza e Poesia nel progresso e nella perfezione di tutte le altre arti, che si chiamano Belle»,37 ricordando il profluvio di metafore pittoriche che nella scrittura di Parini confermano a ogni pié sospinto proprio l’idea di un’armonia sociale indotta dalle Belle Lettere. Anzi, diciamo che il classicismo di Parini si esalta nel pieno delle Avvertenze generali intorno allo studio della lingua: a guidare il suo insegnamento non sono più grammatica e retorica, i vocabolari o le grammatiche, bensì gli autori e i testi nella loro materiale evidenza e, oltre ai letterati, gli storici, gli artisti, gli scrittori di cose tecniche, gli scienziati. Leonardo è posto «fra gli Autori di lingua» perché nelle sue opere «in una colla proprietà de’ termini attinenti a diverse arti, vi si possono imparar molte cose utili alle stesse arti ed alle scienze».38 Parini rivaluta dunque Machiavelli «imperocché avendo a trattar materie grandi e importanti quali sono le politiche, più che degli ornamenti dell’elocuzione dovea curarsi, come fece, della chiarezza, della brevità e della forza»; e di Vasari scrive «col suo stile e colla maniera di scrivere incanta i lettori, e fa loro parere non di leggere ma di vedere quel ch’ei racconta», per commentare subito a ruota: «desideriamo soltanto che alla lettura delle cose mediocri e inutili si preponga sempre quella delle utili o delle ottime». Ultimo esempio, Galileo Galilei, non solo fondatore della prosa scientifica ma sopra ogni cosa colui che «scrisse con quella regolarità e naturalezza di stile che si conviene a un filosofo, il quale ha delle grandi cose a dire e però d’altro più non si cura fuorché d’essere bene inteso».

M. C.




Note

1 P. Frassica, Quadri d’epoca. Dalle arti figurative al Giorno e ai Soggetti, in Le Muse cangianti tra letteratura e arti figurative, Atti del Convegno internazionale Alessandria-San Salvatore Monferrato, maggio 2009, a cura di G. Ioli, Novara, Interlinea, 2011, p. 91. torna su
2 P. Frassica, Appunti sul linguaggio figurativo del Parini dal ‘Giorno’ ai ‘Soggetti’, «Aevum», 5-6, 1976, p. 567. torna su
3 Frassica, Quadri d’epoca cit., p. 98. torna su
4 Ibid.torna su
5 Frassica, Appunti cit., p. 569. torna su
6 Questo il testo da L. Bramieri-Pompilio Pizzetti, Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini. Lettere di due amici, Piacenza, Ghiglioni, 1801, p. 10: «Già da più lustri era a finimento condotta una quantità di graziosissime dipinture, nelle quali prendeva l’ammaestrato a un tempo e celebrato eroe moltiplici, opportune, ben disegnate e vivamente colorite attitudini; né altro quasi mancava che le pareti, per dir così, a cui si appendessero per formarne una amenissima galleria. Mentre però si accingeva ad ordinarle e collegarle insieme con transizioni e nodi, onde ne risultasse un tutto pieno di vaghezze e di armonia, eccoti che la sempre cangiante moda, le varie sociali ridicolaggini solite a collidersi di continuo e a dissiparsi vicendevolmente, rendevano inutile, perché men vera da un mese all’altro, or questa or quella dipintura e poco men che vana la fatica del dipintore». torna su
7 Cf. G. Savarese, L’ut pictura poesis mediatrice tra poesia e critica pariniana, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini, a cura di Gennaro Barbarisi et al., II, La musica e le arti, Milano, Cisalpino, 2000, pp. 951-67. torna su
8 D. Isella, L’officina della «Notte», Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, pp. 71-74. torna su
9 Frassica, Quadri d’epoca cit., p. 95. torna su
10 Savarese, L’ut pictura poesis cit., p. 949. torna su
11 Frassica, Appunti cit., pp. 565-79. torna su
12 Ivi, p. 565. torna su
13 Savarese, L’ut pictura poesis cit., p. 958. torna su
14 Questo il focus del libello edito nel 1818 da Antonio Lissoni sotto il titolo Dialogo di Parini ed Appiani ai Campi Elisi, citato e discusso in F. Mazzocca, Il letterato e le arti: l’eredità del modello Parini, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini cit., p. 942. torna su
15 La prospettiva è delineata da F. Frangi, Dai pitocchi al “buon villan”. Metamorfosi della pittura di genere a Milano negli anni di Parini, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini cit., pp. 1153-56. torna su
16 Così Ugo Foscolo ne scrive all’interno dei suoi Esperimenti di traduzione dell’Iliade: «Tutta la vita del Parini fu impiegata nel praticare la massima che la poesia dovrebbe esser pittura, ed infatti, eccettuato Dante, tutti gli altri poeti italiani soltanto eccezionalmente dipingono, e per tutto il resto descrivono. A forza di meditare al Parini riuscì quello che fu il prodotto naturale del meraviglioso genio di Dante, e sarebbe difficile indicare dieci versi consecutivi del poema pariniano, da cui un pittore non possa trarre un compiuto dipinto con tutte le varietà richieste di attitudini e di espressione» (U. Foscolo, Esperimenti di traduzione dell’Iliade, edizione a cura di G. Barbarisi, Firenze, Le Monnier, 1961, pp. 218-19). torna su
17 Savarese, L’ut pictura poesis, cit., pp. 962-63. torna su
18 Ivi, pp. 964-66. torna su
19 «Io penso che l’antichità, specialmente romana o greca, si possa convenevolmente figurare nel modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di volerlosi recare in capo; e a’ piedi, alcuni volumi, quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria» (G. Leopardi, Operette morali: il Parini, ovvero della Gloria, cap. I). torna su
20 Frassica, Quadri d’epoca cit., pp. 95-96. torna su
21 Quest’area culturale è stata ben definita dai saggi di A. Oldani, La scuola di ornato dell’Accademia di Brera. Materiali e modelli, e di E. Colle, La polemica sul lusso: l’arredo, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini cit., rispettivamente alle pp. 1003-21 e 1085-95. torna su
22 Colle, La polemica cit., p. 1093, che ben lumeggia le espressioni pariniane dell’Introduzione al corso sui princìpi di belle lettere, dove lo scrittore invita gli artisti a prestare particolare attenzione alle proporzioni e alla distribuzione delle varie parti che compongono un’opera d’arte: «Poiché l’artista ha raccolta una quantità d’oggetti affine di presentarli simultaneamente, e con ciò eccitare un più forte sentimento di piacere nell’animo nostro; poiché ha raccolto di quel genere d’oggetti che hanno o possono avere nell’opera d’arte più proporzione fra sé, affine di combinarli agevolmente nell’unità; poiché ha diviso in parti proporzionate il tutto che egli si è proposto, dee serbar l’ordine che dalla rispettiva natura dell’arte, ch’ei tratta, gli è permesso di serbare; dee cioè talmente distribuire e collocare ne’ luoghi più convenevoli gli oggetti e le parti dell’opera, che poi vengano a produrre il miglior effetto possibile». torna su
23 Mazzocca, Il letterato cit., pp. 940-41. torna su
24 F. Fedi, Parini e I teorici del Neoclassicismo, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini cit., p. 971. torna su
25 Ivi, p. 973. torna su
26 Primo fra tutti Alciati, e quindi con risultati anche superiori per qualità, l’Iconologia di Ripa. Entrambi i testi, assieme a diversi altri dello stesso genere, erano conservati nella biblioteca personale del Parini, come ha mostrato Augusto Vicinelli nella sua splendida ricerca addensata in Il Parini e Brera. L’inventario e la pianta delle sue stanze. La sua azione nella scuola e nella cultura Milanese del secondo ’700, Milano, Ceschina, 1963. torna su
27 Cfr. F. Mazzocca, Parini arbitro del gusto e consulente degli artisti, in Parini e le Arti nella Milano Neoclassica, a cura di G. Buccellati e A. Marchi, Milano, Università degli Studi, 2000, pp. XXX-XXXI. torna su
28 Quella che sarebbe diventata, come è risaputo, Piazza Fontana a Milano. Vd. per questo G. Barbarisi, Parini e le Arti nella Milano Neoclassica, e S. Morgana, Le lezioni di Giuseppe Parini professore di Belle Lettere a Milano, in Parini e le Arti nella Milano Neoclassica cit., rispettivamente pp. XII e XXXVI. torna su
29 Fedi, Parini e i teorici cit., p. 974. torna su
30 G. Parini, De’ principii fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti, in Id., Tutte le opere edite e inedite, a cura di G. Mazzoni, Firenze, Barbèra, 1925, p. 770. torna su
31 Fedi, Parini e i teorici cit., p. 984. torna su
32 Una ricostruzione esatta di questo episodio si trova in Parini e le Arti cit., pp. 156-57. torna su
33 Questo il testo del sonetto: «Fingi un’ara, o Pittor. Viva e festosa/Fiamma sopra di lei s’innalzi e strida:/E l’un dell’altro degni e Sposo e Sposa/Qui congiungan le palme: e il Genio arrida./Sorga Imeneo tra loro; e giglio e rosa/Cinga loro a le chiome. Amor si assida/Su la faretra dove l’arco ei posa;/E i bei nomi col dardo all’ara incida./Due belle Madri al fin, colme di pura/Gioia, stringansi a gara il petto anelo,/Benedicendo lor passata cura./E non venal Cantor sciolga suo zelo/A lieti annunci per l’età ventura:/E tuoni a manca in testimonio il Cielo». torna su
34 Mazzocca, Il letterato cit., pp. 947-48. torna su
35 Cfr. Barbarisi, Parini e le Arti, cit., pp. XV-XVIII e 27-35. torna su
36 Parini, Tutte le opere cit., p. 884.torna su
37 Morgana, Le Lezioni cit., p. XXXVI. torna su
38 Ivi, p. XL. torna su