10, 2016
 
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Pier Jacopo Martello

Sermoni della Poetica. Proemio

a cura di Damiano D'Ascenzi



Fra tutte le poesie latine che ho mai gustate a’ miei giorni, comecché io abbia provato un piacere nel leggerle che a bastanza esprimer non posso, niuna per avventura mi ha più dilettato delle Satire, Pìstole, o sieno Sermoni di Orazio. Quest’onorato ed ingenuo poeta calca una strada la più utile, la più aggradevole che mai si possa immaginare da ingegno, e nella medesima ostenta una tal quale felicità di cammino che ciascheduno può agevolmente invogliarsi d’imprenderlo e può sperare di terminarlo, quantunque a ciò conseguire sia vano e temerario ogni sforzo. Egli affetta una trascuragine in quel suo numero, e non so che di prosaico in que’ suoi versi, che, nascondendone l’arte sotto un’artificiosa naturalezza, dà magior spirito alla verità de’ suoi sentimenti, e s’insinua con più credito negli animi de’ suoi leggitori. Né pensare (dice egli nella Satira quarta) che se qualcuno scriva, come io, con istilo il qual più s’accosti alla prosa, costui sia poeta. Schernisce di una maniera dilicata ed insieme ammaestrativa in modo che l’insegnare, accompagnato da circostanze piccanti e ridevoli, non riesce sì disgustoso né sì sprezzato dagli svogliati o superbi. Per quella ragione adunque, per la quale può parere agevole agl’imprudenti la via ch’egli batte, ho io osato di camminarci, imitando il suo carattere ed il suo genio, giacché non son così folle che presumessi di poter imitare il suo candido stile o le sue leggiadre espressioni: per la qual cosa fare, e per farle in guisa che le punture inseparabili dalla satira sieno tali che non possano offender veruno, ho lasciati a parte gli argomenti morali e politici, ristringendomi unicamente a’ poetici, dimanieraché, nulla toccando i governi o i costumi e la civile conversazione, solamente si correggano gl’intelletti in una facoltà della quale chiunque privo si conoscesse, non per questo avrebbe a considerarsi come uomo inutile alla repubblica, anzi potrebbe consolarsi in riflettere che questa bell’arte non è di quelle le quali sieno al commerzio dell’onesto vivere necessarie. Né qui mi saltino agli occhi i poeti come ad uno della lor gente che, ribellando dalle massime a noi ordinarie, non cerca anzi di sostenere, contro chi mantenesse il contrario, non potersi vivere al mondo senza poesia o senza poeti. Appena un secolo ne può contar due o tre che meritino il nome d’insigne, di grande, di originale in qualche città dell’Europa, e pure tutto il restante dell’universo, per tutti quegl’intervalli di tempi che notabili non son per poeti, si governa con saviezza, con giustizia, con dignità, e la repubblica ha tutto il suo compimento, come lo ha la corte di un principe, ancorché non ammetta fra ’ salariati i cantanti. Dal viversene adunque senza, argomento il potersene viver senza, avvegnaché senza versificatori il mondo non sia mai vissuto, fra ’ quali io mi sono, ed arrossirei giustamente di annoverarmi, quando non valessi o non mi adoperassi a servire gli amici e la patria che di canzoni. Ma perché ho conosciuto che appunto fra tanti facitori di versi pochi son quei che trapassino alla dignità di poeti, per non esser simil arte sinceramente insegnata, ho creduto dover coll’esempio d’Orazio medesimo rivelarne gli arcani che si conservano in petto di questi pretesi maestri, le cui scuole sarebbero fallite omai di uditori se si sapesse il mistero di ciò che vassi ad apprendere. Né mi si rinfacci che per me si può malamente insegnar cosa della quale io mi protesto ignorante, imperocché, quantunque vanamente mi sia ingegnato di essere quel che non sono, ho però qualche maggior conoscenza di un mestiere impreso una volta, che non han quelli i quali non si son mai dilettati di professarlo; e come alcun di costoro ha saputo spacciar precetti di un’arte per esso non assaggiata, ed ha sedotto a seguirlo gl’ingegni di molti secoli e ancor del presente, così non dispero di poter ancor io rivelare i secreti per conseguire una facoltà nella quale, comecché con infelice riuscita, mi son mescolato, e ciò sarà forse con frutto, e, se fortuna vorrà, con applauso. È stata un’esquisita politica della peripatetica scuola l’involvere in termini astrusi ed abbisognanti d’interpetri i suoi oracoli, cosa che a loro favore ha prodotto un effetto per verità stravagante e fuor d’ogni credere strepitoso. Gl’interpetri del medesimo testo si son divisi in opposte fazioni, e lo stesso libro che è scudo in mano degli uni è spada in mano degli altri; lo che certamente non sarebbe avvenuto se con ingenua candidezza e facilità avesse voluto Aristotile dispiegarsi da se medesimo in guise intellegibili a ciascheduno. E qui mi protesto conoscere il rispetto dovuto ad Aristotile come a quegli che nella maniera del separare la verità dal soffismo coll’arte del ragionare non ha chi lo preceda, nelle metafisiche speculazioni non ha chi lo eguagli, e nella storia degli animali non ha chi lo vinca. Il suo difetto è l’essersi impegnato alla spiegazione de’ principî naturali che non si possono sensibilmente spiegare, al che molto più infelicemente si sono azzardati i moderni con certi sistemi che hanno abbagliate le fantasie senza appagar gl’intelletti, e con novitadi delle quali giustamente non è contenta la religione. I suoi settari nello studio della poetica si sono tanto ostinati a non mover passo che sull’orme incerte, e talvolta non ben conosciute, del loro oscuro maestro; dimodoché, avendo l’Ariosto pubblicato un poema, il quale per le sue esimie doti può dirsi, come vien detto, divino, con tutto altro in capo fuori che d’uniformarlo alle leggi prescritte da quel filosofo, ed essendo con questa sorta bizzarra di componimento piaciuto a tutte le nazioni, a tutte le lingue, gl’innamorati del nostro legislatore si son distillati i cervelli a provare che l’autore del Furioso non ha fatto cosa che da Aristotile non venga insegnata. Ma nella guisa che fra ’ naturali filosofi ha preso piede quell’independenza d’ingegno che ciascheduno aver puote nello speculare circa i principî della natura, così ancor fra ’ poeti non è impossibile lo stabilire un sistema affatto diverso dal greco ed a qualunque intendimento adattabile senza periglio di equivocare. Un bravo moderno, discorrendo della naturale filosofia e del come renderla, d’inaccessibile ch’ella era, facile e piana agl’ingegni, s’immaginò di assidersi alla comedia con Pitagori, con Platoni, e con Aristoteli, e con coloro alla fine i di cui nomi suonano con tanto strepito nell’orecchie degli uomini. Al vedersi da questi una macchina alata sollevarsi all’aria di mezzo al teatro, figuravasi che l’uno di essi pronunciasse come un’occulta virtù la traeva alla sommità della scena, sostenendo l’altro essere quel volo una simpatia fra la macchina e la soffitta, nel mentre un altro aggiugneva che, abborrendosi il vuoto dalla natura, volevasi che il vano di quella scena per quella macchina fosse riemputo. Quand’ecco venir Cartesio improvvisamente a scoprire esser la mole da oculte funi tirata, e in tanto salire in quanto altra più pesante forza scendeva. Lo che, movendo a riso gli astanti, levava loro la maraviglia di quelle astruse sentenze, e partivano informati del prima ignoto artificio. Il medesimo per l’appunto adiviene della poetica, avvegnaché Aristotile, diportandosi da valente filosofo, non discende nelle sue regole a que’ particolari de’ quali abbisognerebbe chi veramente vuol professare la poesia; anzi quelle stesse nasconde in termini dal comune intendimento rimoti, ed in espressioni spesse volte oscure ed equivoche: nel quale, siasi difetto o mistero, concorrono più d’Aristotele i suoi medesimi chiosatori. Quand’ecco Orazio nella Lettera a’ Pisoni, e dopo lui Boileau nel suo famoso poema della Poetica, appianando gli ardui insegnamenti in riflessioni pratiche non meno che agevoli, fanno partir chi li legge contento di aver qualche cosa di suo profitto imparata. E comecché tutto il dicevole sia stato detto da questi due sovra di molti particolari, ma non di tutti quelli che al poeta, ed al poeta specialmente italiano, son necessari, ho io creduto opportuno il compilare a guisa di poetiche instituzioni gli annessi versi ne’ quali ho espresso con tutta schiettezza quel tanto che avrei voluto fosse a me stato per tempo detto, imperocché, con simili avvertimenti, o non avrei osato di poetare o bene avrei poetato. Ma dirà alcuno aver io di gran lunga errato (poiché carità verso di altri mi moveva a scrivere e non speranza di gloria) a scrivere in verso, come quegli che mi conosco innetto al ben verseggiare. A questo per mia discolpa replicherò che, quantunque ove sia forza mostrarsi sustanzialmente poeta io mi confessi di buona voglia innettissimo, non ho poscia per lo contrario sì bassa opinione di me medesimo ch’io non mi creda da tanto da saper chiuder precetti in misure che a mero versificatore appartengono, e che nulla di poetico in se medesimi hanno fuori del numero e della rima, contentandosi l’insegnamento di un’espressione ignuda, regolata e quanto men puossi sovrabbondante, e notabilmente agevolandosi a’ leggitori l’apprenderlo colle desinenze e coi metri. Se poi avessi in queste satire, o sermoni, ch’io spero in ogni modo innocenti, lasciata correre qualcheduna di quelle forme che i poeti ammettono nel loro dire più da idolatri che da cattolici, protesto di farlo con un cuore tutto contrario a quelle profane voci, fermo di vivere e di morire costantissimo in quella Fede in cui colla bocca per terra ringrazio Dio d’esser nato.

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Nota

Il testo qui trascritto − che riproduce le pagine 237-43 di Versi / e / Prose / di / Pierjacopo / Martello // [fregio] // in Roma / Per Francesco Gonzaga in via Lata / MDCCX. / Con licenza de’ Superiori − è il Proemio con cui il poeta arcade e tragediografo oriundo di Bologna corredò i suoi nove Sermoni della Poetica in terzine, dati alle stampe nel 1710 a Roma (ove Martello si era trasferito nel biennio precedente al séguito dell’ambasciatore felsineo presso la Santa Sede), ma il cui inizio deve esser forse fatto risalire al 1700 (cfr. Noce 1963, pp. 511-12). Come suggerisce l’incipit del primo sermone, «Sempre io starommi ad ascoltar, né mai / fra lo stuol che dettando arte poetica / t’assorda, Italia mia, me pure udrai?» (appariscente la ripresa dell’emistichio iniziale delle Satire giovenaliane «Semper ego auditor tantum?»), l’operetta didascalica martelliana nasce sull’onda di un’ansia comunicativa: l’autore, dopo aver per lungo tempo passivamente subìto l’inflazione di trattati di poetica intrisi di un autoritario quanto astratto dogmatismo aristotelizzante, sente di dover prendere la parola e inserirsi nel coro precettistico mediante un personale vademecum indirizzato all’aspirante poeta, costellato di consigli empirici e tutto affidato alla persuasione che ut pictura poësis. Tra le «instituzioni» più interessanti, quella che invita a schivare un’incontrollata proliferazione di dettagli superflui nelle sequenze prosopografiche («Che importa a me, quando il re d’Argo armossi / saper se alle gambiere avea d’argento / fibbie con correggiuoli o negri o rossi?», iii 40-42) in favore di una più sobria gerarchizzazione delle informazioni («Così pittore a crin per crin non piglia / a imitar chiome d’oro, e il pel trascura / se stender barbe o se curvar vuol ciglia / [...]. / Su quel ch’ei vuole in maggior pregio aversi / mette il pittor più finimento e forza; / languir fa il resto in fra color men tersi», iii 79-81 e 241-43); quella che raccomanda la specularità personaggio-ambiente («Tal, se a tendere insidie alcun s’adopra, / pingasi in loco intorniato e folto / di vie, di boschi», iii 184-86); quella che prescrive la verosimiglianza nella sermocinatio applicata alle figure di pastori nelle composizioni bucoliche («Proprio sia, non traslato, ogni lor detto: / quando umil cosa e pastoral si canta / lo stile umile sia, ma non abbietto», v 280-82). Fin dal principio del Proemio viene svelato l’indebitamento oraziano del suo estensore: di “Orazio satiro” si cita, in modalità esplicita non letterale, un passo di chiara impronta metapoetica: «neque enim concludere versum / dixeris esse satis neque, siqui scribat uti nos / sermoni propiora, putes hunc esse poetam» (Sermones i 4 40-42). Nella traduzione che improvvisa di questi esametri − «Né pensare che se qualcuno scriva, come io, con istilo il qual più s’accosti alla prosa, costui sia poeta» − Martello ottempera a ciò che propugna negli adiacenti sermoni, ovverosia il diniego della ridondanza nemica dell’«evidenza»: nel riadattamento del bolognese si rileva infatti l’eclissi della prima infinitiva oggettiva «concludere versum [...] esse satis», la degeminazione di «neque [...] neque» e il fondersi dei due verbi estimativi «dixeris» e «putes» in «pensare». Alle satire del Venosino è poi ascritto il pregio stilistico dell’«artificiosa naturalezza», espressione che pare recuperare il concetto di neglegentia diligens di matrice ciceroniana, forse con la mediazione della “sprezzatura” castiglionesca (cfr. Burke 1998, p. 12). In aggiunta all’inserto oraziano, campeggia nel testo anche un’ampia citazione non letterale sguarnita di rinvio alla fonte: il «bravo moderno», che ha illustrato i progressi della filosofia mediante l’apologo di Pitagora, Aristotele e Cartesio spettatori a teatro, altri non è che Bernard Le Bovier de Fontenelle, autore del dialogo diegetico di argomento cosmologico Entretiens sur la pluralité des mondes (1686): è proprio nel primo dei sei colloqui del libello francese che viene affabulato ciò cui allude Martello: «...mi immagino sempre la natura come un grande spettacolo rassomigliante a quello dell’Opéra. Dal posto che occupate all’Opéra non vedete certamente il teatro così come esso è; le decorazioni e i macchinari sono disposti in modo da rendere, da lontano, un effetto piacevole, e quelle ruote e quei contrappesi che fanno tutti i movimenti sono nascosti alla vostra vista. [...]. C’è forse soltanto qualche macchinista nascosto nella platea che si preoccupa di un volo che gli sarà sembrato straordinario, e che vuole assolutamente scoprire come sia stato compiuto. Vedete bene che questo macchinista somiglia molto ai filosofi. [...]. Immaginatevi tutti i saggi all’Opéra, i vari Pitagora, i vari Platone, i vari Aristotele e tutte quelle persone il cui nome fa oggi tanto rumore, supponiamo che essi vedessero il volo di Fetonte, apparentemente trasportato dal vento, e che essi non potessero scoprire le corde e che non sapessero come fossero disposte le quinte del teatro. Uno di essi direbbe: “È una virtù segreta che solleva Fetonte”. L’altro: “Fetonte è composto di certi numeri che lo fanno salire”. Un terzo: “Fetonte ha una certa predilezione per il soffitto del teatro; non è a suo agio se non è là”. L’altro: “Fetonte non è fatto per volare, ma preferisce volare più che lasciare vuoto il soffitto del teatro” [...]. Alla fine sono sopraggiunti Descartes ed alcuni altri moderni, che hanno detto: “Fetonte sale perché è tirato su da alcune corde e perché scende da un contrappeso più pesante di lui”» (de Fontenelle 1978, pp. 77-78). Taluni periodi del Proemio, poi, sono veri e propri “doppioni” di altrettanti segmenti in versi ubicati al di là dell’anticamera prosastica. Ad esempio, nei pronunciamenti a proposito del carattere esornativo dell’attività letteraria alla luce del più complesso congegno della vita associata («questa bell’arte non è di quelle le quali sieno al commerzio dell’onesto vivere necessarie») e della rarità degli autentici ingegni poetici («Appena un secolo ne può contar due o tre che meritino il nome d’insigne») vengono ritessuti i versi 55-60 del Sermone primo: «Ma della poesia cui solo è scopo / il sollevar con armonie la mente, / non far dotto, espor testi, o dar silopo, / come non necessaria a ogni vivente / vuol perfetti i suoi seguaci, e darne al mondo / appena uno per secolo consente». Anche dello scetticismo circa l’ostica teoresi filo-aristotelica («È stata un’esquisita politica della peripatetica scuola l’involvere in termini astrusi ed abbisognanti d’interpetri i suoi oracoli») si danno ulteriori avvistamenti nei Sermoni: «Né Aristoteli Omero avea per guida: / libero feo quanto guidar dovea / Aristotele a dir ciò ch’altri guida. / [...] / da Stagira attendiam l’arte febea?» (iii 28-30, 33). Nella zona terminale del Proemio, Martello − non prima di essersi giustificato per il ricorso al «numero e alla rima» affermando che, se proprio si vuole insegnare a poetare, il minimo è farlo poetando, in modo che il lettore-allievo possa vedere in esecuzione lo strumento nel cui uso l’autore-maestro intende renderlo competente − suggella il proprio discorso con una clausola formulare atta ovviamente a far sì che l'opera non incorra nella censura ecclesiastica: «Se poi avessi in queste satire, o sermoni, ch’io spero in ogni modo innocenti, lasciata correre qualcheduna di quelle forme che i poeti ammettono nel loro dire più da idolatri che da cattolici, protesto di farlo con un cuore tutto contrario a quelle profane voci, fermo di vivere e di morire costantissimo in quella Fede in cui colla bocca per terra ringrazio Dio d’esser nato». Testo liminare di accompagnamento orfano di apostrofi propiziatrici di munificenza o protezione − benché la conclusiva locuzione «colla bocca per terra» possa apparire come un relitto di quelle strategie dell’«abbassamento» previste dal codice dedicatorio (Terzoli 2003, p. 170) − il Proemio martelliano è un tipico avviso ai lettori post-rinascimentali, il quale, da «appannaggio del tipografo-editore» che vi riversava ragguagli sulla «mise en page» e «segnalazioni di errata» (Marini 2011, p. viii), s’è evoluto ormai in uno «spazio in cui» l’autore in persona può «esibire le proprie doti di polemista con inserti di [...] saggistica militante» (ivi, p. iii): e invero quella dei Sermoni della poetica, come ogni prefazione che si rispetti, è ben presidiata da richiami citazionali autorevoli ed è porosa a enunciazioni ora prodromiche rispetto al restante tessuto verbale, ora responsive ai «colpi di detrattori futuri o già presenti» (ivi, p. xliv).

D. D.




Bibliografia

Burke 1998
P. Burke, Le fortune del Cortegiano’. Baldassarre Castiglione e i percorsi del Rinascimento europeo, trad. di A. Merlino, Roma, Donzelli, 1998.

de Fontenelle 1978
B. de Fontenelle, Colloqui sulla pluralità dei mondi, trad. di M. Monaldi, Lecce, Adriatica Editrice Salentina, 1978.

Marini 2011
P. Marini, Introduzione, in G. Ruscelli, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di A. Iacono e P. Marini, Roma-Manziana, Vecchiarelli, 2011.

Noce 1963
H.S. Noce, Note sul testo, in P.J. Martello, Scritti critici e satirici, a cura di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963.

Terzoli 2003
M.A. Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des lumières et invention romantique. Actes du colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, a cura di G. Bardazzi e A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003.