14, 2020
 
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Il Decimosettimo libro di Lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1604)

a cura di Anna Laura Puliafito



Il Decimosettimo libro di Lettere dedicatorie di diversi si compone di 24 carte numerate che raccolgono 11 dediche, cui seguono l’indice degli Autori delle dedicationi (c. 23v) e quello dei Personaggi, a quali sono dedicate le Lettere (c. 24r). Il volume è introdotto dalla dedica di Comino Ventura (datata «Dalla stampa mia il quinto di Febraro l’anno di nostra salute 1604») a monsignor Giovanni Antonio Barzizza de’ Cazzani (cc. n.n., ma [1r]-[3r]), canonico della cattedrale di Bergamo, dottore in legge canonica e civile, e «cavaliere aureato», cioè insignito dell’ordine cavalleresco pontificio della ‘Milizia Aurata’ (o dello ‘Speron d’oro’) per il suo contributo alla diffusione e gloria della Chiesa. I testi cui si riferiscono le dediche del libro Decimosettimo sono molto diversi tra loro. La serie si apre con la dedica di Battista Guarini, «Di Vinegia, al dì primo Novem[bre] 1594» (cc. 1r-2v,) al noto cardinale Ascanio Colonna (cfr. «Margini», iv (2010); x (2016)), oratore e uomo di lettere, del Segretario, celebre trattato sull’arte cancelleresca uscito nel 1594 (Il segretario dialogo di Battista Guarini nel qual non sol si tratta dell’ufficio del segretario, et del modo del compor lettere ma sono sparsi infiniti concetti alla retorica, alla loica & alle morali pertinenti. All’illustrissimo et reuerendissimo cardinal Colonna dedicato, In Venetia, appresso Ruberto Megietti, 1594). Il testo era stato ristampato nel 1600, e Guarini coglie l’occasione per sottolineare il ruolo fondamentale ricoperto dai segretari, che esprimono i «concetti» dei loro signori, riverberandone la grandezza, come nel caso dei grandi segretari delle corti europee, dal signore di Granvelle (Nicolas Perrenot) e Francisco Cobos (Covos) y Molino, consiglieri di Carlo V, al signor de Villeroy (Nicolas de Neufville) e a Gilbert Baiard, consiglieri alla corte di Francia, e infine al Bembo e al Sadoleto, scelti da Giovanni de’ Medici, futuro Leone X, per accompagnarlo una volta asceso al Soglio Pontificio. Tre delle dediche si riferiscono a volumi di argomento etico-religioso. Il reverendo Antonio Faenzino dell’ordine dei Minori conventuali offre (cc. 5r-6r; senza data) a Giovanna d’Austria, moglie del Granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, un commento al testo del Padre Nostro e dell’Ave Maria (Meditationi pie intorno all’oratione dominicale, et alla salvation angelica. Del Rev. P. F. Giovann’Antonio Faenzino dell’ordine M.C., in Fiorenza, Nella Stampa di loro Altezze [Giorgio Marescotti], con licenza del Reverend. Mons. Vicario, et del R.P. Inquisitore di Toscana, 1571). Nella dedica, datata «Nel nostro Convento di San Jacopo della Giudecca di Venesia, la vigilia della gloriosissima Annunciation della Madre di Grazie nostra Avvocata. 1565» (dunque verosimilmente il 25 marzo 1565), viene sottolineato il ruolo della preghiera «pia, ed efficace elevatione della mente nostra in Dio», da sempre «di tanto valore nel cuore, et nella lingua de’ cari servi di Giesu Christo, che per essa son diventati familiari de gl’Angioli». Tra tutte le preghiere le due scelte si distinguono in particolare, «l’una per esserci insegnata da Giesu Christo, l’altra per essere tutta ripiena di dolcezza angelica». ll Priore di San Giacomo alla Giudecca, il teologo sevita Raffael Maffei, dedica invece a fra’ Luigi Diedo (cc. 9r-10v) l’Orator christiano. Dialogo del molto reuer. p. maestro Raffael Maffei vinitiano della Congregation de’ Serui: nel quale discorrendosi deuotamente per tutti i luoghi necessari, s’ha piena cognition dell’oratione et de’ frutti d’essa; onde l’huomo possa douentar perfetto orator christiano (Con la tauola delle cose notabili, In Vinetia, appresso Giorgio de’ Caualli, 1565). Si tratta della prima edizione dell’opera, ristampata nel 1566. Viene offerta al Primicerio, primo canonico del capitolo della Basilica di San Marco. La dedica ne onora le origini e la parentela con il Doge Girolamo Priuli, ricordando la comune amicizia con fra’ Cipriano Maiuoli, dell’ordine dei Crosechieri, come eran detti a Venezia i frati dell’Ordine dei Crociferi. Diedo è celebrato, tra le altre cose, come colui che con «le parole e con gli essempi» mostra la sua piena «osservanza de’ santi et catholici precetti», dove le «parole, o son documenti per il prossimo, o oration alla Maestà di Dio: et gli essempi sono, o con la carità usata in beneficio de’ poveri, o con la frequanza a’ divini uffici, o co’l gastigo, che si da a’ nostri corpi con le discipline et co’ digiuni». Il trattatello è dunque un modo per «confermare» il suo saldo proponimento di «bene operare, et dinotamente orare». Il monaco olivetano Giulio Cesare Albicante, abate del Monastero benedettino di San Vittore, si distinse anche per la sua attività di letterato. Tra le sue opere un Trattato della mansuetudine di Giesu Christo ([...] di don Giulio Cesare da Milano monaco di Montoliveto (In Milano, per Pacifico Pontio, 1589), che egli offre al cardinale «Ascanio» Carafa in una breve dedica in cui, come frequente consuetudine, egli insiste più sulla propria volontà di offrire un tributo, che sul valore delle «deboli carte» offerte («Di S. Vittore di Milano il 17 d’Agosto 1589», c. 17r-v). In realtà l’intestazione è errata e il dedicatario è il noto cardinale e letterato Antonio Carafa, congiunto di Paolo IV, figura di spicco alla corte di Pio V, papa dal 1566. Un trattato di comportamento è invece La donna di corte, discorso di m. Lodouico Domenichi. Nel quale si ragiona dell’affabilità & honesta creanza da douersi vsare per gentildonna d’honore (In Lucca, per il Busdrago, [ad istanza di Bernardin Fagiani], 1564). L’autore, Ludovico Domenichi, lo offre «Al S. Domenico Ragnina, Gentiluomo Ragugeo», come recita il frontespizio del volume originale. Si tratta del gentiluomo e letterato dalmata Dinko Ranjina (cc. 6v-7v) che, lasciata la nativa Ragusa, era stato a Messina, dove il Domenichi l’aveva conosciuto, e a Firenze, per poi tornare in patria. Pur con qualche variante nella disposizione della pagina, la dedica riproduce quella che appariva nel libro II della raccolta del Comino (1602), compreso l’errore nella datazione: il «Giorno di San Pietro [29 giugno] 1594» va in realtà anticipato al 1564, come appare anche nel volume originale (cfr. «Margini», ii (2008)). E proprio a una donna sono dedicate le Rime di Jacopo Sannazaro, verosimilmente nella stampa del 1574 curata da Ludovico Dolce (cfr. «Margini», iii (2009); xi (2017); xii (2018); xiii (2019)) poiché in genere Ventura si riferisce ad edizioni relativamente recenti e di aerea veneta (Rime di m. Giacopo Sannazaro. Nuouamente corette et reuiste, per m. Lodouico Dolce, In Venetia, appresso Christoforo Zanetti, 1574). Si tratta della celebre dedica a Cassandra Marchese, amica e protettrice del Sannazaro, dama della corte d’Aragona e protagonista di una complessa vicenda matrimoniale che la vedeva legata ad Alfonso Castriota, marchese di Atripalda. La forma della dedica è quella che già si incontrava nell’edizione dei Sonetti e Canzoni, usciti contemporaneamente a Roma, per Antonio Blado d’Asola, e a Napoli per Giovanni Sulzbach, nel 1530, anno della morte del poeta. In un testo breve e conciso, (c. 8r-v, senza data), Sannazaro rievoca metaforicamente l’operazione compiuta nel raccogliere i propri componimenti, «non altrimente, che doppo grave tempesta pallido e travagliato nocchiero» intravvedendo la terra si sforza di raggiungerla e «come miglior può, i fragmenti raccogliere del rotto legno». Li offre alla Marchese perché «delle belle Eruditissima, delle Erudite bellissima [...], di senile prudenza, di maturo giudicio, di humanissimi et ornatissimi costumi dotata» giudichi le sue «vane, et giovanili fatiche», selezionando «con giusta bilancia» le Rime, a vantaggio delle «studiose Donne» che le leggeranno dopo di lei. Le leggi del verso latino presentate però in lingua volgare sono oggetto dell’Arte metrica facilissima; da Oratio Toscanella della famiglia del maestro Luca Fiorentino tirata in lingua regolata italiana (In Venetia, appresso Giouanni Bariletto, 1567), una delle prime opere in volgare sull’argomento. L’opera è offerta dall’autore a Giovan Battista Malmignati, membro di una nota famiglia di Lendinara, nel rodigiano, mecenate e protettore di musicisti e letterati. Proprio a Lendinara il Toscanella (cfr. «Margini», v (2011)) era stato pubblico precettore fino al 1566, un periodo che egli ricorda con piacere e gratitudine. La dedica è per lui occasione per sottolineare l’importanza del verso nella poesia, e la forza di quest’ultima nel creare diletto sulla base del verosimile. In due casi le opere dedicate sono volgarizzamenti. Si tratta nel primo caso del volgarizzamento del trattato sulle istituzioni veneziane di Gasparo Contarini, la cui princeps era uscita postuma a Parigi (De Magistratibus et Republica Venetorum Libri Quinque authore Gasparo Contareno […], Parisiis, ex officina M. Vascosani, 1543). Il volgarizzamento, dedicato all’«Università d’Eboli», venne pubblicato nel 1544, a cura di Eranchirio (o Eranchiero) Anditimi, da identificare molto verosimilmente con Ludovico Domenichi (La Repubblica, e i Magistrati di Vinegia, di M. Gasparo Contarino, nuovamente fatti volgari. Con gratia e privilegio, In Vinegia, appresso Girolamo Scotto, 1544; cfr. «Margini», ii (2008); iv (2010); v (2011); xi (2017); xiii (2019)). Molte ristampe seguiranno, e nel 1551 presso la stamperia di Blado Sabino usciranno a breve distanza testo latino (De Magistratibus et Republica Venetorum libri quinque, authore Gaspare Contareno Patricio Veneto. Cum privilegio, Venetiis, apud Baldum Sabinum, Anno 1551) e volgarizzamento. Sarà Francesco Sansovino, sotto lo pseudonimo di Giovanni Tatti, ad offrire questa diversa edizione probabilmente dello stesso volgarizzamento all’influente cardinale François de Tournon, diplomatico e consigliere di Francesco I (La Repubblica, e i Magistrati di Vinegia, di M. Gasparo Contareno. Nuovamente fatti volgari. Con gratia e privilegio, In Vinegia, per Baldo Sabini, l’anno 1551). È la dedica, non datata, di questa edizione che Ventura inserisce nella sua raccolta (c. 16r-v). Sansovino vi sottolinea come il cardinale potrà apprezzare «che differenza sia dalla honesta libertà alla non regolata Tirannide di quei che son soli al governo». Si rinnovano così le formule del mito politico del governo misto scelto per Venezia, vero «Paradiso terreno» creato dai «primi fondatori di questa Repubblica». Il volgarizzatore Giacomo Bonfadio offre invece al conte bresciano Fortunato Martinengo (cc. 22r-23r) la sua traduzione della Pro Milone di Cicerone (Oratione di Cicerone, in difesa di Milone, tradotta di latino in uolgare da Giacomo Bonfadio. Con privilegio, per anni XX, In Vinegia, In casa de’ figliuoli di Aldo, 1554). Tra le altre cose il Bonfadio, originario del Lago di Garda, era stato precettore di Torquato Bembo, figlio di Pietro, durante un soggiorno a Padova, dove aveva conseguito il dottorato in diritto civile. Nel 1544 era poi divenuto lettore di retorica presso l’Università di Genova, città di cui a breve divenne anche lo storiografo ufficiale. La sua vita si concluse tragicamente con una condanna a morte per sodomia, circostanza ancora non del tutto chiarita, che potrebbe coprire accuse di eresia, visti i legami del Bonfadio con i circoli valdesi napoletani. Chiarito in tutta certezza non è nemmeno l’anno della sua morte, datata da alcuni 1551, ma alternativamente anche 1560 oppure 1582. Anche il dedicatario Fortunato Martinengo è implicato nei movimenti ereticali del Cinquecento; discepolo di Aonio Paleario, fu corrispondente di Pier Paolo Vergerio e Giulia Gonzaga. Martinengo fu però anche amico di Sperone Speroni e membro dell’Accademia degli Infiammati, e dunque profondamente interessato alla diffusione del volgare come lingua di cultura. Nella dedica Bonfadio ricorda come, appena uscito dal servizio in casa di Giovan Battista Grimaldi, «bramoso di libertà e tranquilla vita più che mai cervo assetato di fonte», egli si sia «messo a tradurre» l’orazione, completata «in un mese, quasi concorrendo col periodo della Luna». Bonfadio si dice molto soddisfatto del lavoro fatto a paragone con gli altri volgarizzamenti sul mercato («Non so quel che a voi ne parerà: a me veramente piace ella molto, quando miro all’altrui tradottioni»), ma sottolinea quanto il testo volgare risulti inferiore all’originale latino. La grande eccellenza di Cicerone ha tolto «a’ posteri […] la speranza di eguagliarlo», e di fatto il volgarizzatore – ed è motivo topico – sente di non riuscire ad eguagliare il suo ingegno; d’altra parte è lo strumento linguistico a non avere ancora «quelle forze, che per aventura il tempo le darà». E se Cicerone ha potuto elevarsi al Consolato «quasi condotto per mano de la eloquenza», i nuovi tempi non dispongono ancora di chi promuova efficacemente un volgare ancora acerbo («hora ci stiamo al basso, ne si muove a sollevarci chi devrebbe»). La dedica si conclude in tono personale, quasi intimo: «Io v’inviterei a godere la bella vista di questo ridente mare, nel quale hora mirando vi scrivo: ma perché fra pochi dì dissegno di partirmene, sosterrò volentieri il desiderio, c’ho di rivedervi, con la speranza di essere tosto con voi in maggiore contentezza, che qui non ho». Con una lunga dedica (cc. 18r-21v, «Di Venetia il primo di Luglio 1569») l’autore Agostino Gallo offre il suo dialogo dell’agricoltura ad Emanuele Filiberto, Duca di Savoia (Le Vinti Giornate dell’Agricoltura et de’ Piaceri della Villa di M. Agostino Gallo. Delle quali, sette non sono più state date in luce, et tredici di nuovo son ristampate con molti miglioramenti. Con le figure de gli istrumenti pertinenti, et con due tavole: una della dichiaratione di molti vocaboli, et l’altra delle cose notabili, In Venetia, appresso Gratioso Percaccino, 1569). Figlio di un bottegaio della piana bresciana, Agostino aveva appreso i rudimenti della grammatica e dell’abaco, ed era poi entrato in contatto con Angela Merici, fondatrice delle Orsoline. Trasferito in città a Brescia, si era legato col matrimonio ad una famiglia della piccola nobiltà rurale. Nella dedica Gallo afferma di aver deciso di dedicare il volume al Duca (cfr. «Margini», i (2007)) avendo saputo della «grandissima dilettatione» che egli aveva per l’agricoltura e dell’interesse con cui aveva «accettata e letta» la sua opera dopo che, subito dopo la stampa, era stata presentata «ad alcuni principali signori della Corte sua». Ciò potrebbe significare che la dedica fu aggiunta in un secondo momento – ma manca per ora la collazione di tutti gli esemplari a eventuale sostegno di tale ipotesi – oppure si può pensare che il rifermento sia qui ad una precedente stampa del dialogo, la cui vicenda editoriale è piuttosto complessa. Tra 1564 e 1569 il dialogo, l’unico del genere nel panorama cinquecentesco, circola esteso prima su dieci, poi su tredici giornate, cui nel 1569 altre sette si aggiungono (Le sette giornate dell’agricoltura di M. Agostino Gallo, nuovamente aggiunte alle Tredici altre volte date in luce. Con privilegio, In Venetia, Appresso Gratioso Percaccino, 1569). È forse a questo testo che fa riferimento il Gallo. Nello stesso 1569 vede infatti la luce l’edizione definitiva, le Vinti giornate appunto, da cui è tratta la dedica riproposta dal Ventura. Le Vinti giornate costituiscono uno dei più fortunati testi rinascimentali sull’argomento (dieci sono le ristampe entro il 1596). Presentano un lungo dialogo tra un proprietario terriero, Giovan Battista Avogadro e il suo ospite, Vincenzo Maggio. Nella dedica Gallo sottolinea il valore dell’agricoltura, che gli sembra giovare al corpo quanto all’anima: dal suo esercizio dipende infatti la sopravvivenza dei popoli, e, per altro verso, dalla conoscenza «di herbe, di frondi, et di fiori, di frutti, et d’altri infiniti effetti mirabili» l’intelletto umano è spinto «alle speculationi naturali, et sopranaturali», fino alla considerazione della causa superiore da cui «la vita, i costumi, et le scienzie, et la istessa natura hanno dependentia». Ne risulta la vera ispirazione di tutta l’opera, che nell’agricoltura vede una delle più nobili occupazioni umane, e nel suo rilancio una riforma morale che si oppone alle dinamiche del commercio cittadino. Per questo il Gallo offre la sua lode al Duca, che alle doti di guerriero ha affiancato l’interesse per lo studio dell’arte, secondo il modello classico, come era stato nel caso di Ciro celebrato da Senofonte, che voleva i suoi popoli «all’arte della guerra congiunta con lo studio delle lettere, allo studio dell’Agricoltura […] inclinati». Le lodi di tutta la Casa Savoia, protettrice della fede cristiana, culminano nella speranza che la protezione del Duca possa far riacquistare all’agricoltura l’antico splendore che le derivava dal suo «primo institutor, che fu il Sommo Iddio, et dal suo primo operator che fu Adamo». Concludo questa breve rassegna del diciassettesimo libro con una dedica che mi sembra poter colpire molto anche il lettore odierno, negli ultimi mesi impegnato ad affrontare un’emergenza sanitaria, economica e sociale di dimensioni inaspettate, e tale da influire profondamente sulla nostra percezione della natura e della scienza, e delle nostre capacità di controllare l’una e trovare risposte nell’altra. Nel 1576 esce a Verona la Raccolta delli componimenti scritti in lode del clarissimo signor Nicolo Barbarigo podestà di Verona (Veronae, apud Sebastianum et Joannem a Donnis fratres, 1576). Si tratta di diversi componimenti in versi, in latino ma anche in diversi volgari settentrionali come veronese, bergamasco, trevisano, in lode del Podestà di Verona, che già sul verso del frontespizio, nel volume originario, viene celebrato come raro esempio di buona amministrazione, anche in tempi particolarmente difficili. Compilatore del volume è Cesare Nichesola, da identificare molto probabilmente con il canonico e collezionista di antichità nato verso la metà del secolo, laureato in giurisprudenza a Padova, poi accademico Filarmonico, che coltivò il suo grande interesse per la botanica creando un famoso giardino nella sua villa di Pontone, in Valpolicella. Il volume è offerto a Fulvio Ruggeri, bolognese, a lungo al servizio del cardinale Giovan Francesco Commendone, che egli aveva accompagnato nella sua missione in Germania prima, in Polonia poi. Ora, come si afferma nella dedica, ne stava aspettando il rientro a Bologna. Nichesola giustifica la scelta di Ruggieri come dedicatario per averlo sentito tessere lui stesso le lodi del Barbarigo proprio all’inizio del suo mandato veronese. Ora che questo sta volgendo al termine, Nichesola pensa che Ruggieri gradirà leggere i componimenti in lode del Podestà ed essere messo al corrente della sua «eroica» azione sociale e politica, non avendola potuta seguire di persona. Questa particolare prospettiva modifica in parte i toni e i rapporti della dedica: Nichesola non cerca protezione, ma vuole unirsi al Ruggieri in una comune lode, dando il suo speciale apporto alla raccolta. Per questo afferma di voler narrare le cose «stravaganti» dell’azione di Barbarigo, definite come quelle che lo mettono al di sopra di ogni altro politico antico e moderno. La dedica comincia così offrendo un quadro dei primi interventi attuati dal Barbarigio, dal restauro del Palazzo del Podestà, compiuto in grande velocità e con gran successo, alla riforma delle prigioni. I luoghi in cui venivano rinchiusi gli uomini fino alla sentenza, sono grazie a lui passati da luoghi «più tosto simiglianti a sepolture» a luoghi che possono essere «commodamente habitati», così che l’«innocente» non sarà «consumato» dalla loro «asprezza», e il «colpevole» non sentirà il peso della pena prima del tempo. La riforma architettonica è stata affiancata da misure in grado di sostenere «la pace e quiete universale», e abbassare ai minimi storici il numero degli omicidi. Grazie alla collaborazione con l’allora Capitano Alvise Contarini egli è inoltre riuscito «per via di arbitrale sententia et compositione» a porre fine allo scontro tra le diverse fazioni cittadine e a facilitare la collaborazione tra i gruppi sociali, ponendo fine agli «streppiti» tra «Cittadini Mercanti, et Cittadini Nobili». Ma il momento in cui «quest’huomo heroico» ha mostrato tutta la forza della sua virtù è stato quando «invidiando la fortuna a così felici successi» è stato messo di fronte ad un «horribile et spaventoso principio di Pestilenza nella Città». Dal 1575 infatti Milano, e poi Venezia e molte città d’Italia venivano colpite da una terribile epidemia che toccando anche Verona aveva ridotto la città allo stremo. La drammaticità della situazione andava oltre l’emergenza sanitaria, poiché la città era stata isolata da tutte le altre, che l’avevano privata di tutti gli scambi commerciali con l’esterno. Gli stessi mercanti si erano trovati di fronte a grandi problemi finanziari e di smercio; i cittadini si erano ritirati in campagna, o quando erano rimasti in città non osavano rifornirsi come di consueto. D’altra parte i contadini avevano abbandonato la città per timore del contagio e si mostravano molto insofferenti nei confronti dell’autorità pubblica. Mentre i nobili che ricoprivano gli incarichi pubblici erano sul punto di darsi per vinti, il Barbarigo aveva fatto della sua virtù lo strumento della provvidenza divina e con la collaborazione del Capitano Domenico Priuli e del Vescovo Agostino Valier era riuscito a ridare «grandissima speranza» al popolo ormai disperato. Era intervenuto per arginare il contagio sul piano sanitario, ma aveva varato anche una serie di misure economiche e sociali. Aveva garantito ai più poveri «abondantia di pane», accordandosi «con gli pistori» perché i forni producessero certe quantità di pane, secondo le loro capacità, da dare in elemosina, facendo dell’«humanità» un «saporitissimo companatico». Per dare a chi riceveva gli aiuti il senso di guadagnarseli, Barbarigo aveva deciso di ridare splendore all’Arena, facendo in modo che «un infinito numero di operarij» in tempi brevissimi ripulisse il «nobilissimo Amphiteatro fra mille immonditie dishonoratamente sepolto». Ai poveri ed infermi era riuscito a procurare «habitanze, medicine, vittuaglia, vestimenti, et ogni altra cosa oportuna, con maniere nuove e singulari». Una delle misure più rilevanti, che Nichesola si augura verrà mantenuta dai successori, era stata però la costituzione di un «Monte delle farine», finanziato dalle donazioni di nobili e mercanti, dove i bisognosi potevano acquistare farina a prezzo inferiore a quello di mercato. In questo modo Barbarigo, «a guisa di Hercole» era riuscito con l’aiuto di Dio a «triomphare di tutti gli mostri che se gl’erano contrapposti». La felicità e la gratitudine per il suo operato avevano trovato espressione in una serie copiosissima di componimenti che lo celebravano. Su questi, certamente di diverso valore letterario, Nichesola sposta il motivo topico delle offerte di dedica in cui la dignità del dono non consiste nel valore dell’oggetto offerto, ma nella devozione dell’offerta stessa. Il volume che egli offre a Ruggieri è in ogni caso una selezione dei migliori tra questi componimenti celebrativi, segnati anch’essi almeno in parte dalla «stravaganza», per essere redatti anche «alla San Zenata, Bergamasca, et Villanesca». Su di essi Nichesola spera di conoscere il parere del dedicatario, che invita a scrivergli a Padova, dove si recherà a brevissimo termine per continuare gli studi. Il resoconto dell’operato del Barbarigo che il giovane Nichesola affida alla dedica si aggiunge di fatto agli scritti celebrativi contenuti nel volume. È un resoconto preciso ed appassionato, che sottolinea quanto l’azione del Podestà sia stata appropriata e lungimirante. È certamente grazie anche a questo tipo di interventi che nel corso dei secoli la battaglia contro la peste è stata in gran parte vinta. L’auspicio è che come lei anche lo sfuggente Covid-19 possa presto essere arginato.



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Bibliografia

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• C. Vecce, Sannazaro, Jacopo, in Dizionario biografico degli italiani, 90, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2017, ad vocem.

A. L. P.