15, 2021
 
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Il Decimo ottavo libro di Lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1604)

a cura di Anna Laura Puliafito



Il Decimo ottavo libro di Lettere dedicatorie di diversi si compone di 23 carte numerate che raccolgono 12 dediche, cui seguono l’indice dei Personaggi, a’ quali sono dedicate le lettere (c. 22v) e quello degli Autori delle dedicationi (c. 23r). Il volume è introdotto dalla dedica di Comino Ventura (datata «Dalla stampa mia il 13. di Marzo 1604») al «Molto Reverendo Padre e mio Signor colendissimo» padre Faustino Leali, priore del Convento dei Celestini di Bergamo (cc. n.n., ma [1r]-[2r]). La «pregiatissima corona di molti nobilissimi personaggi» scelti dal Ventura per il volume, vede in maggioranza dedicatari di testi drammatici (quattro commedie e tre tragedie), cui si aggiungono un dialogo, una favola pastorale e una boschereccia, una raccolta di rime e prose, un testo di elevazione. La serie si apre con la dedica di Girolamo Porro, «Di Venetia a’ 25. di Febraro 1593» (cc. 1r-2r,) alla «cavagliera» Laura Passi dei Tassi, figlia di Enea Tassi, nipote del cardinal Albani e moglie di Giorgio Passi, ambasciatore di Bergamo a Venezia, dei Sette Salmi Penitenziali. Si tratta verosimilmente dell’opera di Agostino Agostini che il Porro pubblica in triplice edizione (Venezia, Anversa e Colonia) nel 1595 «secondo l’esemplare di Venetia» (I sette salmi penitentiali imitati in rime dall’eccellentiss. dott. Agostino Agostini. […], In Venetia, appresso Girolamo Porro, 1595). Dalla dedica dello stampatore alla Passi, che al momento non è stato possibile riscontrare in nessuno degli esemplari esaminati, risulta che l’autore aveva inizialmente donato l’opera «in semplice scrittura» al vescovo di Verona (c. 1v). Giuseppe degli Orologi offre ai membri dell’Accademia Olimpica di Vicenza (c. 14v-16r, «Di Venetia, 22. di Genaio 1562») il suo dialogo L’inganno (L’inganno. Dialogo di Gioseppe Horologgi. Con Privilegio, In Vinegia appresso Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1562), che affronta il tema della finzione come rappresentazione e come piacevole diletto per «ingannare lodevolmente il tempo». È invece nuovamente il curatore, Gherardo Spini, ad offrire a Mario Colonna (cc. 9r-11v, «Di Fiorenza a 23. di Gennaio 1563») la nuova edizione della raccolta aggiornata delle Rime e prose di Giovanni Della Casa (Rime, et prose di m. Giovanni Della Casa. Riscontrate con li migliori originali, e ricorrette con gran diligentia. Aggiuntovi due Tavole l’una di tutte le desinenza delle sue Rime, l’altra delle cose più notabili, che nel Galateo si contengono, In Fiorenza, per Filippo Giunti, 1598). Il testo, che propone l’aggiunta di una serie di componimenti originariamente esclusi dalla raccolta, segue l’edizione fiorentina dei Giunti (1564), con il rimario in quell’edizione dedicato a Laura Battiferra degli Amannati (Firenze 1564, cc. 59r-112r), ma con l’aggiunta dell’Orazione a Carlo V e una tavola del Galateo. Il Colonna, letterato attivo presso la corte fiorentina di Cosimo, era stato inviato nel 1564 come ambasciatore presso l’imperatore Massimiliano II per porgergli le condoglianze per la morte del padre e festeggiare la successione al trono. La prima delle commedie di cui Comino sceglie di riportare la dedica (cc. 7v-8v) è La matrigna, di Giovan Francesco Loredan, offerta dal figlio Sebastiano al padrino Muzio Marcello (La matrigna. Comedia del signor Giovan Francesco Loredano. Di nuovo posta in luce. Con privilegio, In Venetia, 1601, Alla Libreria della Speranza). La commedia vuole rappresentare un’immagine di matrigne «non tanto malvagie quanto il volgo le tiene […] quando molti Padri che pur amano la loro prole, non restano di dare a i figlioli Matrigna» (c. 8r). Sebastiano pubblicava peraltro nello stesso anno e presso lo stesso stampatore un’altra commedia del padre, La Berenice (Berenice. Comedia del signor Giovan Francesco Loredano. Di nuovo posto in luce. Con privilegio, In Venetia, 1601, Alla Libreria della Speranza; cfr. «Margini», 2, 2008). Segue la dedica de L'alchimista (L’alchimista. Comedia di m. Bernardino Lombardi comico confidente. […], In Ferrara, Appresso Vittorio Baldini, 1583. Con licenza de’ Superiori), offerta dall’autore al cavalier Giulio Pallavicini (c. 12r-v, «Di Ferrara, 20. di Maggio 1583»). L’opera, dapprima destinata solo alla rappresentazione sulle scene ferraresi, venne ristampata anche tre anni dopo (In Vinegia, appresso gli heredi di Marchio Sessa, 1586), e successivamente nel 1602 (In Venetia, 1602, Appresso Lucio Spineda), sempre con la dedica al Pallavicini. Ventura reproduce nuovamente la dedica dell’editore Ludovico Domenichi al signor Aldigieri Della Casa (c. 20r-v) della commedia I Lucidi (I Lucidi. Comedia di Agnolo Firenzuola Fiorentino, In Fiorenza, appresso Bernardo Giunti, 1549). La stessa dedica è ripresa nell’edizione del 1552 (In Firenze, appresso i Giunti, 1552). In essa Domenichi spiega di essere entrato in possesso della «Comedia composta già dal Rev. et molto virtuoso M. Agnolo Firenzuola», e sostiene di darla alle stampe con la «tacita licenza del padrone [morto nel 1543], il quale senza dubbio havrà molto più caro vedere le sue virtuose fatiche poste in publico, che non lasciarle defraudate dal [sic!] suo nome, et divulgate con l’altrui». La dedica era già stata riprodotta nel libro xvi (cfr. «Margini», 13, 2019), e in entrambi i casi reca l’indicazione erronea «Di Fiorenza a’ 26 Feb[braio] 1559», ma si tratta di un errore che va corretto in 1549. L’ultima commedia citata è la Prigione d’Amore (Prigione d’Amore. Commedia nuova del eccellentissimo sign. Sforza Oddi […], Di nuovo data in luce, In Venetia, 1591 Ad Istantia di Filippo Gionti). La dedica a Galeazzo Paleotti, figlio di Camillo e nipote del cardinale Gabriele Paleotti («Di Pisa il primo di Aprile 1590», cc. 21r-22r) è firmata da Lelio Gavardo, rettore dello Studio pisano già dal 1588. Vi si legge, come veniva accennato già sul frontespizio, che la commedia era stata messa in scena allo Studio ed interpretata dagli studenti in occasione del Carnevale. Poiché il Paleotti non aveva potuto presenziare alla rappresentazione, il Gavardo aveva deciso di darla alle stampe, come era di fatto avvenuto. Tra le tragedie compare, prima fra tutte, la Elisa di Fabio Closio messinese (Elisa. Tragedia di Fabio Closio […], In Trevigi, Appresso Fabritio Zanetti, Con licenza de’ Superiori 1601). L’opera, come nel caso dell’editio princeps del 1598 (In Messina, appresso Pietro Brea, 1598), è offerta a Diego Zapata, «corriere maggiore della Maestà Cattolica nel regno di Sicilia», il membro dell’alta nobiltà a capo della Regia Correria di Sicilia, come viene chiamato il servizio postale del Regno di Sicilia dal 1535 al 1786 (cc. 2v-5r). Gli eredi della famiglia Zapata ricoprirono la carica per successive proroghe a partire dal 1549, fino a che nel 1629 la vedova di don Diego Zapata riuscì ad ottenere da Filippo IV di Spagna l’ereditarietà della carica, che restò agli Zapata fino all’estinzione della famiglia nel 1709. La dedica si dilunga sulla poetica della tragedia e discute le diatribe letterarie del tempo sullo stile poetico. Riprendendo il topos dell’invidia e della debolezza del proprio ingegno, Closio afferma di aver scelto espressamente una veste grafica con «margini molto ampli, acciò quelli alli quali [la tragedia] non piacerà nella maniera da me composta, possano aggiungere, e minuire quanto di manchevole o soverchio conosceranno in essa, e formarsela in quel modo, che giudicheranno migliore» (c. 5r). L’autore Adriano Valerini offre al conte Paolo di Canossa la sua tragedia Afrodite (Afrodite. Nova tragedia di Adriano Valerini da Verona, In Verona, per Sebastiano & Giovanni dalle Donne fratelli, 1578). Nella dedica al pronipote di Ludovico di Canossa, vescovo di Bayeux e discendente della celebre Matilde (cc. 5v-6r, «Di Verona l’ultimo di Marzo 1578»), il principio di similitudine che giustifica l’offerta viene iperbolicamente individuato nel fatto che come «dalla Tragedia è stata causata la Comedia, il poema Epico & Lirico», così dal «ceppo» della stirpe di Canossa «hanno avuto principio e son derivate molte famiglie, che ai giorni nostri sono delle più illustri». La similitudine continua nel riconoscere la nobiltà ed eccellenza dei personaggi che compaiono nelle tragedie così come infiorano la genealogia della famiglia; l’ammonimento morale che deriva da esse, come la moltitudine di «esempi egregi» che i Canossa hanno offerto al mondo con le loro «honeste, e virtuose imprese»; l’origine «dalle cose sacre & celesti» che ebbe la Tragedia «in quel modo, che dal Cielo, e per volere divino la vostra eterna prole nacque al mondo». E infine, si afferma che così come le tragedie sono piene di «sentenze» e «de morali, e gravi detti», allo stesso modo «gli scritti» e «i dotti ragionamenti» dell’illustre Ludovico possono essere considerati «oracoli» (c. 5r-v). L’ultima tragedia citata nella raccolta è la Polissena, offerta dall’autore al «patron suo osservandissimo», il conte Sebastiano di Londrone (Polissena. Tragedia di M. Bongianni Gratarolo. Con privilegio, In Vinegia, presso Altobello Salicato, 1589, Alla Libraria della Fortezza). Nella dedica (c. 13r-14r, «Di Salò, a 29. Di Luglio 1589») Gratarolo (cfr. «Margini», 12, 2018) dichiara di cimentarsi in una tragedia, non tanto per la dignità ad essa riconosciuta da Aristotele, né «perché ella fosse la più famigliare, che si havessero gli antichi, che n’havevano più gusto, che i moderni non hanno», quanto per il fatto che la scarsa produzione «in questa nostra lingua» sembra lasciare ancora «campo» libero per poterne «sperar qualche gloria». Al giovane Sebastiano, che aveva militato nella cavalleria di Filippo II, Gratarolo, concludendo, augura di poter accompagnare sempre le prodezze della «militia» e della «cavalleria» allo studio delle lettere «sapendo che gli antichi facevano gli stessi sacrifici alle Muse, che ad Hercole» (c. 13v). Le ultime due dediche da citare si riferiscono al Filleno di Illuminato Perazzoli e al Contrasto amoroso di Muzio Manfredi. Nel primo caso (Filleno, fauola boscareccia d'Illuminato Perazzoli […], In Venetia, appresso Nicolò Moretti, 1596) si tratta della dedica del medico Giovan Battista Fabbio ad Orazio Forciruoli, governatore generale di Romagna per il Duca di Ferrara, Alfonso II d’Este. (cc. 16v-17v, «Di Venetia, il dì 6. Di Maggio, 1595»). Racconta lo stesso Fabbio che la favola fu messa dapprima in scena durante il carnevale del 1594, in occasione delle nozze tra il principe di Venosa Carlo Gesualdo e la figlia di Alfonso d’Este, donna Leonora. Fabbio ricorda di aver ricevuto direttamente dall’autore un manoscritto, contentente non solo una copia del testo rappresentato, ma anche una serie di madrigali. Di qui la decisione di darlo alle stampe una volta giunto a Venezia per il conferimento del cavalierato di San Marco, sostenuto dalla famiglia Grimani. La scelta del dedicatario riprende l’obbligo di gratitudine del Perazzoli per il suo protettore, sotto la cui egida i testi erano stati composti. Effettivamente il volume del 1596 (e le successive ristampe), contengono, oltre alla favola boschereccia, ventiquattro componimenti, tra madrigali e ballate (cc. 46r-52v). Va seganlato che l’edizione «di nuovo corretta, & ristampata» del 1601 (In Trevigi, Appresso Fabritio Zanetti), ugualmente dedicata al Forciruoli, nel riferirsi all’autore sul frontespizio reca l’errata dicitura «Ferazzoli». L’ultima dedica riportata è quella scritta dall’autore Muzio Manfredi, che porge a donna Vittoria Doria, moglie di Ferrante II Gonzaga duca di Guastalla (cc. 18r-19v, «Di Ravenna, il primo giorno di Ottobre 1601»; cfr. «Margini», 2, 2008), la sua pastorale (Il contrasto amoroso. Pastorale di Mutio Manfredi, il Fermo Academico Invaghito […] Con privilegio, et licenza de’ superiori, In Venetia, 1602, Appresso Giacomo Antonio Somaschio). Il Manfredi si presenta come membro dell’Accademia degli Invaghiti, fondata a Mantova nel 1562 da Giulio Cesare Gonzaga, e destinata a divenire celebre nella storia della musica europea per aver patrocinato l’Orfeo di Claudio Monteverdi (1607). Nella dedica il Manfredi ricorda l’attività letteraria di Ferrante Gonzaga, alla cui corte aveva goduto di un’eccellente posizione nella seconda metà degli anni Ottanta, e che egli stesso aveva seguito nella composizione di una favola boschereccia, l’Enone, «opera della singolarità del suo intelletto», che «è tale, o sarà, una volta che finita sia, che peraventura nel genere rappresentativo non haverà paragone» (c. 19r). Il Contrasto vuole rispondere soprattutto al gusto delle nobili donne di corte. L’autore sottolinea anzi che «tutte le persone di essa sono donne, fuor solamente un giovanetto Pastore», cosicché, volendo, Vittoria potrà «vederla rappresentare, con le […] proprie donne e donzelle […] sendo anche Fileno così giovane, che una donna fingere commodamente il potrebbe, et un’altra Amore per il Prologo, quando il Prologo mutar non lo voleste, o non recitarvelo» (c. 19v). Manfredi ricorda infine (ibid.) di aver dedicato a Vittoria i Cento Madrigali pubblicati dodici anni prima (Cento madrigali di Mutio Manfredi il Fermo academico Innominato, Invaghito e di Ferrara [...] con gli argomenti del medesimo a ciascun madrigale, per esser tutti di straordinari soggetti, In Mantova, appresso Francesco Osanna, 1587).



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