3, 2009
 
Wunderkammer    
 


Melchiorre Missirini

Dediche

a cura di Paolo Rambelli



1. Cic: in Lael:1 = In obsequio2 comitas adsit, assentatio vitiorum adiutrix procul amoveatur, quae non modo amico, sed ne libero quidem digna est.     Se lodi, o osservi alcuno, sii sempre compagnevole, e schifa l'adulazione eccitatrice di vizj, che non solo non conviene ad amico ma anche a uomo libero, è disdicevole!
       
2. Cic. in Lael:3 = atque hoc quidem videre licet, eos, qui antea commodis fuerint moribus, imperio, potestate, prosperis rebus inmutari, spernique4 ab iis veteres amicitias.5     E, in effetti, possiamo vedere questo, che quelli che prima avevano modi affabili, vengono trasformati dal potere politico e militare e dalla ricchezza, prendono le distanze dalle vecchie amicizie




Nota

«Vero tipo dell'arcadico, il bello ideale di quella razza di accademici»6 − com'ebbe a definirlo Gian Pietro Vieusseux di cui fu sodale − Melchiorre Missirini (Forlì 1773 − Firenze 1849) ben incarna la figura del letterato di professione che si va affermando tra Settecento e Ottocento. Figlio di un industriale della seta fu da questi avviato agli studi in seminario, dal quale uscì − in effetti − sacerdote, ma giacobino e, per di più, letterato, tanto che fra le sue prime prove poetiche si conta un inno all'Albero della Libertà nuovamente innalzato nel 1796 nella piazza maggiore della città («or che il felice secolo / nutre propizi eventi, / sciogliete i dolci accenti / cantiam la libertà»). Lasciata nel 1813 la città natale, nella quale già aveva ricoperto, tra l'altro, i ruoli di professore di eloquenza e di bibliotecario, Missirini, pur senza lasciare l'abito talare, si misurò tra Roma e Firenze con tutti quei mestieri delle lettere che nel primo Ottocento lusingavano − spesso invano − i letterati di poter vivere del proprio. Fu, quindi, segretario e biografo del maggior artista del tempo, Antonio Canova, pro-segretario e storico dell'Accademia di San Luca, corrispondente dei più diversi giornali (dalla «Biblioteca italiana» all'«Antologia» del Vieusseux, dal «Giornale dei Letterati» di Pisa all'«Indicatore Livornese») e traduttore sia dalle lingue classiche che dalle moderne, accumulando negli anni l'associazione a ventinove diverse accademie letterarie e scientifiche, dall'Arcadia romana (col nome di Tirinzio Cariteo) alla Société des Sciences Phisiques, Chimiques, et Arts Agricoles et Industriels de France. Quella di Missirini appare così − a prima vista − come una figura di transizione tra il mondo cortigiano (e curiale) fin de siècle e quello post-rivoluzionario sensibile ai richiami nazionalistici protoromantici: un'impressione che pare trovare conferma nella varietà della straripante bibliografia (il suo biografo Antonio Mambelli conta poco meno di cinquecento scritti e raccolte di versi, tra opere edite ed inedite), nella quale si evidenziano − a fianco della preponderanza di testi dedicati alle arti figurative − la traduzione del Canto all'Italia di Byron, la tragedia patriottica d'intonazione senecana Teano, e il trattato scientifico Pericolo di seppellire gli uomini vivi creduti morti, con tanto di appendici legislative, che fa proprî i principi di fondo dell'Editto di Saint Cloud e sulle cui indicazioni fu edificato il cimitero romano del Verano. Missirini, in realtà, rimase legato per tutta la vita a una visione eroica e idealizzante del mondo classico. «Divoratore − come lo definisce Mambelli − dei versi di Vittorio Alfieri»7 fin da ragazzo, non smise mai di nutrire la propria cultura − e i propri scritti − alla fonti filosofiche e letterarie dell'antichità. La parte più cospicua e interessante delle sue carte inedite − conservate nel Fondo Piancastelli della Biblioteca Comunale di Forlì − è costituita proprio dalle raccolte di massime tratte dai più autorevole scrittori greci e latini (Cicerone in testa), ordinate sistematicamente per via alfabetica e dedicate ai temi più diversi, compresi quelli di maggiore attualità, come l'utilità delle accademie poetiche e il dibattito tra classici e romantici. Il principio dell'autorità dei classici continua a prevalere, in Missirini, sul principio dell'autorialità che i contemporanei cercano di affermare. Il suo è uno sguardo rivolto soprattutto al passato ma per trarne − sulla scorta dell'esempio alfieriano − una lezione etica puramente ideale. Lo conferma anche la pagina del massimario manoscritto conservato nel Fondo Piancastelli (con segnatura Carte Romagna 296/13) in cui Missirini registra per un possibile scritto sul tema delle dediche due passi tratti dall'Ad Laelium, ovvero dal trattato ciceroniano sull'amicizia. La scelta sembra far propria la duplice prospettiva del trattato alfieriano Del principe e delle lettere, e il suo stesso vocabolario. Nel primo passo (Ad Laelium, xxiv. 89) Missirini si rivolge, infatti, al dedicante (ovvero al letterato) invitandolo a «schifare» l'adulazione, vizio indegno di un «uomo libero», mentre nel secondo (Ad Laelium, xv. 54) analizza la posizione del dedicatario, di cui condanna la doppiezza. Qui gli accenti alfieriani sembrano più lontani, ma basta risalire di poche righe nel trattato ciceroniano per scoprire che questa massima chiude una riflessione sulla figura del tiranno, con particolare riferimento a Tarquinio, e sulla sua impossibilità di coltivare amicizie sincere.8 Anche il passo originale da cui è tratta la prima citazione, d'altra parte, non termina in realtà con la formula «ne quidem libero digna est», ma prosegue osservando «aliter enim cum tyranno, aliter cum amico vivitur» [in un caso, infatti, si vive con un tiranno, nell'altro con un amico].

P. R.




Note

1 M. Tullii Ciceronis, Laelius. De amicitia, Leipzig, Teubner, 1881, pp. 55-56. torna su
2 Missirini omette qui, senza indicarlo, l'inciso «autem, quoniam Terentiano verbo lubenter utimur» [comunque, giacché ci serviamo volentieri del motto di Terenzio].torna su
3 M. Tullii Ciceronis, Laelius. De amicitia, cit., p. 40. torna su
4 Missirini inserisce qui l'enclitica -que che non compare nelle edizioni moderne.torna su
5 Missirini omette la chiusura della frase «indulgeri novis» [e si abbandonano alle nuove].torna su
6 G. Leopardi, Epistolario, a cura di G. Brioschi e A. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 1586.torna su
7 A. Mambelli, L'abate Melchior Missirini e i suoi tempi, Forlì, Valbonesi, 1938, p. 3torna su
8 52 Non ergo erunt homines deliciis diffluentes audiendi, si quando de amicitia, quam nec usu nec ratione habent cognitam, disputabunt. Nam quis est, pro deorum fidem atque hominum! qui velit, ut neque diligat quemquam nec ipse ab ullo diligatur, circumfluere omnibus copiis atque in omnium rerum abundantia vivere? Haec enim est tyrannorum vita nimirum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benevolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus amicitiae 53. Quis enim aut eum diligat, quem metuat, aut eum, a quo se metui putet? Coluntur tamen simulatione dumtaxat ad tempus. Quodsi forte, ut fit plerumque, ceciderunt, tum intellegitur, quam fuerint inopes amicorum. Quod Tarquinium dixisse ferunt exulantem, tum se intellexisse, quos fidos amicos habuisset, quos infidos, cum iam neutris gratiam referre posset. 54. Quamquam miror, illa superbia et inportunitate si quemquam amicum habere potuit. Atque ut huius, quem dixi, mores veros amicos parare non potuerunt, sic multorum opes praepotentium excludunt amicitias fideles. Non enim solum ipsa Fortuna caeca est, sed eos etiam plerumque efficit caecos, quos complexa est; itaque efferuntur fere fastidio et contumacia, nec quicquam insipiente fortunato intolerabilius fieri potest (Al Laelium, xv). [52 Non si dovrà quindi prestare ascolto agli uomini che marciscono negli agi, qualora discutano dell'amicizia, che non gli è nota né in teoria né in pratica. Chi mai, infatti, in nome degli dei e degli uomini, vorrebbe circondarsi di ogni ricchezza e vivere nell'abbondanza a condizione di non amare nessuno e di non essere, da nessuno, amato? Questa, infatti, è certamente la vita dei tiranni, [una vita] in cui non vi può essere alcuna fedeltà, alcun affetto, alcuna fiducia in una solida benevolenza, [in cui] ogni cosa desta sospetto e inquieta, senza alcuno spazio per l'amicizia. 53. Chi, infatti, potrebbe amare la persona che teme, o dalla quale pensa d'essere temuto? Eppure si rende [loro] onore per ipocrisia, per un certo periodo. Che se per caso, come accade il più delle volte, sono andati in rovina, allora si vede quant'erano privi di amici. Si racconta che Tarquinio, ormai esule, dicesse di aver finalmente compreso allora quali fossero gli amici fidati e quali gli sleali, non essendo più in condizione di restituire i favori a nessuno. 54. Per quanto mi meravigli che con tanta superbia ed impudenza abbia potuto avere un amico. E come i modi di chi ho ricordato non poterono procuragli veri amici, così i mezzi di tanti potenti rendono impossibili amicizie sincere. Infatti non solo la Fortuna stessa è cieca, ma di solito rende ciechi anche coloro che bacia; così si lasciano quasi trascinare dall'alterigia e dall'arroganza, né v'è qualcosa che possa divenire più insopportabile di uno sciocco fortunato].torna su