4, 2010
 
Saggi    
 
 Abstract


Guglielmo Gorni − Paola Allegretti

Dedica (e onomastica) in alcune opere tarde di Dante



1. «La necessità corale dell'amicizia» (Contini)
In alcune opere di Dante si può seguire l'elaborazione, quasi per accrescimenti progressivi, di una specifica andatura proemiale, che annuncia l'argomento del libro, e soprattutto le ragioni che hanno mosso l'autore: tutto cioè un dispositivo preliminare di presentazione e in alcuni casi anche di offerta dell'opera a destinatari privilegiati, ben individuati anche quando restano innominati. Si noti che nel libello giovanile la dichiarazione esplicita del destinatario, Guido Cavalcanti, si legge solo alla fine del paragrafo di apertura della seconda parte, il paragrafo 19 che inizia con la citazione dell'attacco delle Lamentationes di Geremia Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium (Vita Nova 19 1 [Ah! Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo! È divenuta come una vedova, la grande fra le nazioni]),1 citazione latina definita da Gorni una sorta di rirubricazione del libello, per la parte in morte di Beatrice. Infatti in quel secondo limine si ripropongono tre elementi marcanti, a procedere dall'ultimo verso il primo: il ricordo del destinatario-dedicatario globale (a fianco di altri, parziali e anch'essi innominati, ricordati puntualmente ai singoli testi), il richiamo alla ragione linguistica che seleziona la raccolta dantesca, e la ripresa delle Lamentationes di Geremia, di una chiave cioè di elegia funebre biblica, che caratterizzava già anche il secondo sonetto del libello (O voi che per la via d'Amor passate 2 18). Ecco la conclusione del paragrafo 19 della Vita Nova: E simile intenzione so ch'ebbe questo mio primo amico a cui ciò scrivo, cioè che io li scrivessi solamente volgare (Vita Nova 19 10). La menzione dell'innominato primo amico riprende quella, simmetrica, appunto del paragrafo 2 (Vita Nova 2 1), che racconta l'origine aneddotica dell'amicizia tra Dante e Cavalcanti, e che lascia trapelare proprio nell'insistita notazione di amistà quella condivisione patetica, che Contini pone quale elemento definitorio dello Stil Novo. L'amicizia, come si vedrà, si ritaglia però anche in séguito una permanenza tematica fondamentale nelle dediche di Dante, anche quando esse occuperanno una posizione di apertura del libro o diventeranno una lettera di accompagnamento. Il secondo paragrafo del libello esordisce dicendo che: A questo sonetto fu risposto da molti, e di diverse sententie: tra li quali fu risponditore quelli cui io chiamo primo delli miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia Vedesti, al mio parere, onne valore. E questo fu quasi lo principio dell'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato (Vita Nova 2 1). Il primo amico non è nominato, ma la sua riconoscibilità è legata all'incipit del sonetto risponsivo, inviato all'allora ignoto autore di A ciascun'alma presa e gentil core (Vita Nova 1 21): e l'amicizia, che principia dal primo testo che Dante si attribuisce, procede aumentando fino alla misura di tutta la raccolta completa, e cioè proprio della raccolta o libello in quanto tale.2 E questo nonostante che (come ammette Dante) si conoscano risposte anche ad altri testi della Vita Nova, in modo parallelo all'esistenza di altri primitivi destinatari parziali. Si ricordi infatti la canzone dell'Amico di Dante Ben aggia l'amoroso e dolce core (Rime 75),3 che è una risponsiva della canzone Donne ch'avete intelletto d'amore (Vita Nova 10 15), di séguito alla quale è trascritta nel canzoniere vaticano (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3793). Anche Cino da Pistoia compose una canzone di conforto per la morte di Beatrice, raccontata nel paragrafo 19: è la consolatoria Avegna ched el m'aggia più per tempo (Rime 76), sullo schema metrico di Donna pietosa e di novella etade (Vita Nova 14 17), elemento che basta a dimostrare una conoscenza dell'intero libello beatriciano, prima della stesura interrotta del De vulgari eloquentia, che cita, secondo una variante rilevante, l'incipit della canzone ciniana. La prassi onomastica allusiva (o per antonomasia, collegata cioè a un incipit) del succitato passo di Vita Nova 2 1 si ritroverà proprio nell'incompiuto De vulgari eloquentia, applicata questa volta all'innominato Dante, definito amico in relazione a Cino da Pistoia.4 Le considerazioni sviluppate nel prosieguo di questa ricerca dànno un peso rilevantissimo a tale pratica citatoria: piuttosto che una figura retorica di modestia, essa si costruisce infatti come una formula transitiva che indica un amico esplicito, Cino da Pistoia. E cioè, in quanto tale, forse il probabile destinatario privilegiato, o dedicatario, del De vulgari. Nel tentativo di edizione dell'incompiuto trattato, testimoniato dalla recensione GT,5 un dato che fa riflettere in questo senso è la rubrica apposta al capitolo I 17, terzultimo capitolo del primo libro: «Quod ex multis ydiomatibus fiat unum pulchrum; et facit mentionem de Cino Pistoriensi».6 Evidenziare, anche se in un paratesto non riconducibile all'autore (che mai avrebbe divulgato un'opera non finita), il solo nome di Cino tra i tanti del trattato, davvero non parco in menzioni e citazioni di autori, è appunto un elemento che merita una riflessione specifica. Quando la presentazione del libro diventa elemento proemiale, come nel De vulgari, si dichiara un proposito, quello di cercare di giovare (alla lingua di coloro che praticano il volgare) «locutioni [...] prodesse temptabimus» (VE I 1 1), e l'opera è equiparata ad un beneficio in vantaggio di una necessità generale, per un beneficiario quindi indistinto, anzi universale, quale è l'insieme indicato nell'endecasillabo, di norma avvicinato a questo passo, «(le turbe, ch'eran molte e grandi) / d'infanti e di femmine e di viri» (Inf. iv 30): Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam invenimus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus − cum ad eam non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit − volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas, plerumque anteriora posteriora putantes, Verbo aspirante de celis locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum (VE i 1 1).

[Poiché non ci risulta che nessuno prima di noi abbia svolto una qualche trattazione sulla teoria dell'eloquenza volgare, e ci è ben chiaro che quest'arte dell'eloquenza è necessaria a tutti − tant'è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini, per quanto lo consente la natura −, nel nostro desiderio di illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le piazze, e spesso credono di avere davanti a sé ciò che sta alle loro spalle, tenteremo, assistiti dal Verbo che ci ispira dal cielo, di giovare alla lingua della gente illetterata; e per riempire una così grande coppa non ci limiteremo ad attingere l'acqua del nostro ingegno, ma, desumendo e mettendo assieme da ciò che altri ci forniscono, vi mescoleremo dentro quanto vi è di meglio, così da poterne mescere un dolcissimo idromele].
La dimostrazione del proemio procede elencando prima la novità dell'argomento, che non è stato ancora trattato da nessuno («neminem [...] quicquam invenimus tractasse»), e poi l'indispensabile e universale importanza di una vulgaris eloquentie doctrina, la quale è universalmente necessaria («penitus omnibus necessariam videamus») in quanto aspirazione naturale, concessa a tutti, in modi e misure prestabilite dalla Natura: «in quantum Natura permictit». La funzione dell'autore è determinata da immagini veterotestamentarie: egli aiuterà coloro che errano come ciechi nelle piazze, «qui tanquam ceci ambulant per plateas» (posto usualmente in parallelo con «erraverunt caeci in plateis», Lam 4 14 [vagavano come ciechi per le piazze]), non attingendo esclusivamente all'acqua del proprio ingegno «non solum aquam nostri ingenii» (cfr. «deriventur fontes tui foras et in plateis aquas tuas divide», Prv 5 16 [scorreranno al di fuori le tue fontane, distribuisci i tuoi ruscelli nelle piazze]). Tali immagini avevano già trovato una realizzazione figurale in paragoni e miracoli del Nuovo Testamento, che rilevavano l'impossibilità che i ciechi fossero condotti da altri ciechi: «sinite illos caeci sunt duces caecorum, caecus autem si caeco ducatum praestet ambo in foveam cadunt» (Mt 15 14 [lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadono in un fosso]), e che davano un senso salvifico alla già topica equivalenza tra lo scaturire dell'acqua e il fluire dell'eloquenza: «sed aqua quam dabo ei fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam» (Io 4 14 [l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna]). In questo capitolo esordiale del De vulgari eloquentia si evidenzino dunque i seguenti elementi: l'argomento è nuovo, è necessario con un'espressione litotica di universalità ('quasi a tutti'), e questa definizione discende da un disegno della Natura (perché andrà senz'altro fregiata di lettera maiuscola, e non depressa ad inciso riguardante i bambini), e la Natura è qui ricordata proprio nella stessa funzione che ha nell'esordio della Metaphysica di Aristotele: «Omnes homines natura scire desiderant», tradotto pedissequamente nelle prime parole del Convivio. L'autore, innominato, invoca per questa dottrina dell'eloquio in volgare l'aiuto del Verbo che spira dal cielo, e adopera così, in una dossologia inedita e forse di matrice virgiliana, un nome divino «Verbo aspirante de celis» significativamente (e cioè in modo paraetimologico e figurale) attinente all'argomento, secondo la formula derivativa e divulgata di Verbum-verbum, sottolineata da Mengaldo nel suo commento. Si ritengano anche le due fonti bibliche riconoscibili: Lamentationes e Proverbia.

2. La grida del Convivio come dedica universale
La formulazione del De vulgari, si amplia e si arricchisce nella dimostrazione elaborata e diluita in più passaggi del Convivio, del cui esordio si considereranno le seguenti pericopi (i 1 1 e 8-10): Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. [...] Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui che elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E io adunque [...] misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi (Conv. i 1 1 e 8-10). Anche qui la Natura si accampa aristotelicamente in principio (cfr. Inf. xi 97-105), come generatrice di un bisogno universale al quale soccorrevolmente provvede l'autore innominato, che giustifica con una catena sillogistica questa elargizione di ricchezza (evangelicamente 'talenti' o 'mine') e acqua. La dimostrazione rende necessarie nell'uomo l'amicizia e la compassione. Difficile trovare nei commenti una chiosa puntuale all'inciso «non me dimenticando» (Conv. i 1 10). La tramatura delle citazioni di questo brano è infatti molto spessa: la mensa (che è ovviamente legata al titolo) dalla quale si raccolgono le briciole per i miseri, oltre all'episodio della mulier chananea (Mt 15 27), contiene anche il ricordo della parabola escatologica del povero Lazzaro e del ricco Epulone (Lc 16 19-25 parabola divitis epulonis); coloro che in bestiale pastura mangiano erba e ghiande sono assimilabili anche ai compagni di Ulisse, ridotti tali da Circe (metamorfosi che, ancora ai tempi di Dante, interessa gli abitanti di gran parte di Toscana «che par che Circe li avesse in pastura», Purg. xiv 42-54); il fonte vivo non è solo quello dei Proverbi, che cita opportunamente Vasoli nel suo commento («lex sapientis fons vitae ut declinet a ruina mortis», Prv 13 14 [l'insegnamento del saggio è fonte di vita per evitare i lacci della morte]), ma anche quello del discorso sulla aqua viva con la Samaritana (Io 4). Difficile pensare che, in tale contesto sostenuto, l'inciso «non me dimenticando» abbia un valore superfluo, banale o addirittura colloquiale (si pensi, per assurdo, al significato francese dell'espressione). Nell'Eneide Ulisse davanti a Polifemo, secondo le parole di Achemenide, «nec talia passus Ulixes / oblitusve sui est Ithacus discrimine tanto» (Aen. iii 628-29 [ma Ulisse non tollerò queste cose, né si dimenticò di sé, l'Itaco, in così grande pericolo]),7 non si dimentica di sé stesso nel pericolo mortale ed escogita la salvezza per sé e i compagni, cioè, in buona sostanza, non si smentisce; e nella costruzione retorica virgiliana Ulisse è nominato per ben due volte nel breve giro di due esametri. Mentre la Vulgata è piena di appelli, nei quali è la divinità che ingiunge di non dover essere dimenticata, e cioè di sintagmi che non hanno pertinenza con questo luogo, ma che Dante adopera nelle invettive dell'Epistula «scelestissimis Florentinis intrinsecis», ai quali ricorda che l'empio è colpito dalla punizione della dimenticanza di sé stesso, egli che in vita si è dimenticato di Dio: «hac nimirum persepe animadversione percutitur impius, ut moriens obliviscatur sui, qui dum viveret oblitus est Dei» (Ep. vi 2 10 [da questa punizione per certo l'empio spessissimo è colpito, che morendo si dimentichi di sé stesso, egli che in vita si è dimenticato di Dio]). Nel contesto, «non me dimenticando», che è la causa efficiente della misericordia dantesca, potrebbe avere due significati. Il primo si legherebbe strettamente al passo immediatamente precedente che dice: «E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito della pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando» (i 1 10). Il significato sarebbe allora 'non dimenticandomi di come sono stato miseramente anch'io un tempo', e andrebbe ampliato con le affermazioni del proemio della Monarchia che esplicitano una sorta di catena solidale nella divulgazione (e nell'ampliamento) della conoscenza: «come furono arricchiti dal lavoro degli antichi, così anch'essi lavorino a vantaggio dei posteri, affinché da loro le generazioni future abbiano di che essere arricchite» (Mon. i 1 1). Resta che quest'accezione, sebbene in modo reticente, sottolineerebbe la miseria di quel «conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati» nel pronome «me», per essere stato appunto anch'io a quella bestiale pastura, mentre l'esperienza personale, che viene lì contestualmente affermata, è il vanto di un merito rilevante: «io [...] fuggito della pastura del vulgo». L'espressione potrebbe però essere legata anche a quanto segue immediatamente. A questa stregua «non me dimenticando» potrebbe significare 'non dimenticandomi del fatto di essere già stato altra volta liberale', «e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi» (Conv. i 1 10). Il richiamo a un impegno già contratto in precedenza, per aver già suscitato una certa quale attesa negli altri, sarebbe in linea con una affermazione, precoce, nel paragrafo 11 della Vita Nova: «Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l'udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovesse dire che è Amore, avendo forse per l'udite parole speranza di me oltre che degna» (Vita Nova 11 1). Ma in questo caso, perché il fatto di essere già stato liberale potrebbe equivalere, abbreviativamente, al solo pronome personale «me»? È infondato vedere un richiamo alla liberalità come funzione del proprio nome: «dante»? E cioè, come argomenterà ampiamente Boccaccio, esperto di paraetimologie dei nomi propri,8 secondo la funzione participiale dal verbo dare: dante 'colui che dona'? Un altro capitolo del primo libro del Convivio celebra e illustra la «pronta liberalità» nel donare. In esso si registrano ben quindici occorrenze del verbo paronomastico di Dante «dare» (e quattro della forma «datore»); per misurare questa densità si ricordi che in tutta la Comedia le occorrenze di tale verbo all'infinito presente sono ventitré (per un totale di 116 forme, dalle quali è assente il participio presente dante): Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza dalli benefici di Dio, che è universalissimo benefattore. E ancora, dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene e l'altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori delle leggi massimamente pur alli più comuni beni tenere confisi li occhi, quelle componendo. Ancora, dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sé essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere inscritti li Amphorismi d'Ipocràs ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. [...] La terza cosa, nella quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che 'l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però dice che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore non venda (Conv. i 8 2-5 e 17). La dimostrazione dell'utilità del dono, che è il secondo punto che caratterizza la «pronta liberalitate», comporta a sua volta quattro ragioni (Conv. I 8 6-16), qui omesse, ma il passaggio più rilevante dell'argomento, anche per le attinenze al già citato esordio del De vulgari, è ovviamente quello che dice: «dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza dalli benefici di Dio, che è universalissimo benefattore» (Conv. i 8 3), istituendo un rapporto di imitatio tra Dio benefattore e colui che dà beneficamente, come appunto Dante, a sua simiglianza.

3. Le ragioni di Monarchia i 1 6: il nome dell'autore?
Più che nell'incompiuto Convivio, è però nel paragrafo introduttivo al primo libro della Monarchia che simili considerazioni si ripropongono con insistenza. In questo primo paragrafo, dal tessuto estremamente polito, abbreviato, e densissimo, la liberalità dell'autore (che vorrà anche dire l'iniziativa, che egli prende autonomamente, senza inviti di mecenati o committenti) deriva da una premessa aristotelicamente universale, secondo quindi una formulazione proemiale in tutto analoga, ma senza l'esplicitezza più immatura, del Convivio (cfr. lì l'esordio: «Si come dice lo Filosofo nel principio»). La topica incipitaria dei trattati di Dante, incompiuti o invece finiti, è cioè vincolata a una struttura argomentativa sillogistica e a questa ricorrente semantica della «pronta liberalità», in cui l'aggettivo pronta, come abbondantemente è spiegato nel succitato paragrafo del Convivio (i 8), è una caratteristica di somma perfezione: «spiritus quidem promptus est, caro autem infirma» (Mt 26 41 [lo spirito è pronto, ma la carne è debole]). Si legga tutto il brano di apertura della Monarchia, per un chiaro quadro della collocazione in esso degli elementi che, nel prosieguo, si estrapoleranno: Omnium hominum quos ad amorem veritatis Natura Superior impressit hoc maxime interesse videtur: ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. Longe nanque ab offitio se esse non dubitet qui, publicis documentis imbutus, ad rem publicam aliquid afferre non curat; non enim est lignum, quod secus decursus aquarum fructificat in tempore suo, sed potius perniciosa vorago semper ingurgitans et nunquam ingurgitata refundens. Hec igitur sepe mecum recogitans, ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar, publice utilitati non modo turgescere, quinymo fructificare desidero, et intemptatas ab aliis ostendere veritates. Nam quem fructum ille qui theorema quoddam Euclidis iterum demonstraret? Qui ab Aristotile felicitatem ostensam reostendere conaretur? qui senectutem a Cicerone defensam resummeret defensandam? Nullum quippe, sed fastidium potius illa superfluitas tediosa prestaret. Cumque, inter alias veritates occultas et utiles, temporalis Monarchie notitia utilissima sit et maxime latens et, propter non se habere inmediate ad lucrum, ab omnibus intemptata, in proposito est hanc de suis enucleare latibulis, tum ut utiliter mundo pervigilem, tum etiam ut palmam tanti bravii primus in meam gloriam adipiscar. Arduum quidem opus et ultra vires aggredior, non tam de propria virtute confidens, quam de lumine Largitoris illius «qui dat omnibus affluenter et non improperat» (Mon. i 1 1-6).9

[A tutti gli uomini, su cui la natura superiore ha impresso il sigillo dell'amore per la verità, sembra che questo interessi sopra ogni altra cosa: che, come furono arricchiti dal lavoro degli antichi, così anch'essi lavorino a vantaggio dei posteri, affinché da loro le generazioni future abbiano di che essere arricchite. Stia pur certo di essere ben lontano dal proprio dovere colui che, istruito dagli insegnamenti della comunità, alla comunità non si preoccupa di recare alcun vantaggio; giacché egli non è «l'albero che, piantato lungo corsi d'acqua fruttifica nella sua stagione», ma piuttosto una perniciosa voragine che sempre ingurgita e che mai restituisce ciò che ha ingurgitato. Pensando, dunque, fra me e me a questo, perché io presto o tardi non venga rimproverato della colpa di aver seppellito il mio talento, desidero non solo inturgidirmi per la gestazione, ma produrre frutti per l'utile pubblico e mostrare verità non ancora esplorate da altri. Certo, che frutto potrebbe portare chi dimostrasse di nuovo un qualche teorema di Euclide? O chi tentasse di mostrare di nuovo l'essenza della felicità già mostrata da Aristotele? O chi si assumesse di nuovo il compito di difendere la vecchiaia già difesa da Cicerone? Nessuno, certo, ma piuttosto fastidio arrecherebbe tale superflua tediosità. E poiché, tra le altre verità mal note ed utili, la nozione di Monarchia temporale è la più utile di tutte e più di ogni altra mal nota, e, per il fatto di non arrecare immediatamente un guadagno, da nessuno esplorata, è mio proposito portarla alla luce stanandola dai suoi nascondigli, sia perché le mie veglie siano utili al mondo, sia perché io per primo ottenga a mia gloria la palma di sì grande sfida. Mi accingo ad un'opera ardua senza dubbio e al di sopra delle mie forze, non tanto confidando nel mio valore, quanto nella luce di quel Dispensatore, «che dà a ciascuno copiosamente e non lo rinfaccia»].
L'istanza universale «omnium hominum», che è circolarmente ripresa in chiusura dal dativo «omnibus» della dossologia iniziale dell'Epistula Iacobi («si quis autem vestrum indiget sapientiam postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter et non inproperat», Iac 1 5 [se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare]), si particolarizza prima nel pronome «qui [...] non curat», da cui dipende la citazione del primo salmo del Salterio («et erit tamquam lignum quod plantatum est secus decursus aquarum quod fructum suum dabit in tempore suo» Ps 1 3 [sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo]), poi senz'altro nella persona dell'autore, che spesso riflette fra sé e sé su quale possa essere un argomento che si inscriva, per novità e utilità universale, nel progresso caritatevole della conoscenza: «sepe mecum recogitans». Inciso la cui andatura è per lo meno analoga a «non me dimenticando» della grida del Convivio. L'autore è memore della parabola dei talenti, e anzi la teme come metro del giudizio con cui verrà immancabilmente giudicato («ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar», Mon. i 1 3), e ha ben chiaro il problema della utilità a molti «publice utilitati» (Mon. I 1 3), concetto ancora ribadito in una terna di aggettivi: «veritates occultas et utiles», «notitia utilissima», «utiliter pervigilem» (Mon. i 1 5). Rispetto all'incompiuto De vulgari prima si pone l'istanza universale e poi quella dell'utilità che discende dalla novità: il dolcissimo idromele è infatti qui presentato esplicitamente come un dono, cioè un beneficio al prossimo, secondo una nozione già chiaramente formulata nel Convivio. Anche il proemio della Monarchia ricerca e definisce quindi il dono della «pronta liberalitate» in tutte e tre le sue caratteristiche: dare a molti, dare cose utili e dare sanza essere domandato (cfr. Conv. i 8), confidando nel Benefattore, qui dat omnibus cioè in Colui che dona liberalmente a tutti. Ecco il senso esplicitato del raro nome divino di Largitor, alla somiglianza dei cui benefici e della cui liberalità universale si pone l'autore Dante. Con un'oltranza nella somiglianza imitativa, che trova nella forma della citazione neotestamentaria qui dat (dossologia mai altrove ricordata da Dante, e che qui chiude il paragrafo)10 una cifra onomastica assoluta.

4. Alcune note all'epistola a Cangrande: il nome del dedicatario (Ep. xiii 4 12)
Gli argomenti proemiali o incipitari di Dante sono sostanzialmente ricorrenti quando riguardano la topica dell'offerta del testo ai lettori. Si tratta di un dono che l'autore compie in risposta di un beneficio divino, da lui già ricevuto. L'imitazione liberale della misericordia e benevolenza divina è richiesta esplicitamente nel Vangelo: «ut sitis filii Patri vestri qui in caelis est qui solem suum oriri facit super bonos et malos [...] estote ergo vos perfecti sicut et Pater vester caelestis perfectus est» (Mt 5 45-48 [affinché siate figli del vostro Padre che sta nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i cattivi; siate quindi perfetti proprio come è perfetto il vostro Padre celeste], cfr. Conv. i 8 3). Dante dimostra che tale benevolenza analogica è obbligata dai dettami della parabola dei talenti, e la collega all'amicizia, illustrata da Cicerone. Anzi, nelle due opere ciceroniane, che Dante cita in apertura della Monarchia e del Convivio, e cioè il Cato Maior de senectute e il Laelius de amicitia, si leggono in due passi evidenti attinenze lessicali e tematiche con i proemi danteschi. Nel primo brano Cicerone presenta la sua opera come utile e come dono proporzionato al destinatario: «Sed mihi, quum de senectute vellem aliquid scribere, tu occurrebas dignus eo munere, quo uterque nostrum communiter uteretur» (Cato i 2 [volendo scrivere qualcosa a proposito della vecchiaia, mi sei venuto in mente tu, degno di un tale dono, che sia utile insieme a tutt'e due noi]). Nel secondo brano incipitario Cicerone dichiara di accingersi di buon grado alla scrittura richiestagli, sperando così di giovare a molti: «Itaque feci non invitus ut prodessem multis rogatu tuo» (Lael. i 4 [Pertanto mi accinsi a scrivere, di buona voglia, per essere di giovamento a molti, grazie alla tua richiesta]). Si tratta, come si vede, in germe dei nuclei argomentativi sillogizzati più ampiamente da Dante: dare a molti e dare cose utili; resta senza riscontro il principio del dare sanza essere domandato (cfr. Conv. i 8), a riprova della differente situazione tra Cicerone e i suoi corrispondenti di contro all'isolamento in questa fase dell'esule Dante, e l'autonoma iniziativa dei suoi progetti di scrittura. Di più, Dante attinge ad un tesoro interiore, dichiarato tale fin da quel cominciamento memorabile ed evangelico della lingua sciolta: «queste parole io ripuosi nella mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento» (Vita Nova 10 14), un cominciamento interno, ricevuto per grazia, che viene fatto abbondantemente fruttificare.11 Nell'epistola latina di dedica della terza cantica a Cangrande della Scala, l'offerente, «amici nomen assumens» (Ep. xiii 2 4 [assumendo il nome di amico]),12 dimostra dapprima il buon diritto di definirsi amico del nobile destinatario, visto che la sapienza istituisce da sé una relazione di amicizia addirittura con Dio («nam in Sapientia de sapientia legitur: "quoniam infinitus thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitiae Dei"», Ep. xiii 2 6 [infatti nel libro biblico della Sapienza si legge, a proposito della sapienza che gli uomini ricevono un tesoro inesauribile, usando il quale partecipano dell'amicizia di Dio]). È un'analogia (come si argomenta in Ep. xiii 4) secondo la quale possono quindi regolarsi anche i rapporti tra gli uomini, soprattutto perché a tali sentimenti di reciprocità e di scambio sono obbligati i migliori («Nos autem quibus optimum quod est in nobis noscere datum est, gregum vestigia sectari non decet, quin ymo suis erroribus obviare tenemur», Ep. xiii 2 7 [Ma noi, a cui è stato concesso di aver coscienza del meglio che è in noi, non dobbiamo calcare le orme delle pecore, perché anzi siamo tenuti a correggere le loro deviazioni]). L'amicizia così istituita è un «thesaurum carissimum» (Ep. xiii 3 9 [tesoro più caro]), come era già stato detto anche della sapientia biblica, che rende possibile un dono munusculum da parte di Dante, il quale dice di aver cercato lungamente, tra i propri doni, uno appropriato al dedicatario. Dopo lungo soppesare, l'unico dono giusto per Cangrande della Scala è la cantica del Paradiso. Si noti come l'impostazione, che parte dal concetto universale di amicizia, fino a derivarne quello particolare del dono di Dante, capovolga l'ordine delle priorità reali, come se la dedica fosse stata necessitata dai precedenti passaggi dimostrativi, e non fosse la motivazione effettiva della lettera e della sua rigida catena deduttiva: «propter hoc munuscula mea sepe multum conspexi et ab invicem segregavi nec non segregata percensui, digniusque gratiusque vobis inquirens. Neque ipsi preheminentie vestre congruum comperi magis quam Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi» (Ep. xiii 3 10-11 [e perciò esaminai molto a lungo i poveri doni che potevo farvi e ne misi qualcuno da parte e poi li riesaminai attentamente domandandomi quale fosse il più degno di voi e a voi più gradito. E non riuscii a trovare niente tanto adatto a vostra altezza quanto la suprema cantica della Comedia che s'adorna del titolo di Paradiso]). Una volta affrontata l'accusa che l'onore e la fama venga da tale offerta assicurata più al dono che al dedicatario, la congruità tra dono e ricevente (che è commisurata al discernimento di chi vuole offrire un dono utile: «la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando», Conv. i 8 5) è sottolineata anche a un livello estremamente sottile, quando si dice che già nel titolo apposto alla cantica (Paradisus) l'autore abbia voluto esprimere un presagio dell'accrescimento della gloriosa rinomanza di Cangrande della Scala: quin ymo cum eius titulo iam presagium de gloria vestri nominis amplianda satis attentis videbar expressisse; quod de proposito (Ep. xiii 4 12).

[ma, al contrario, già dal titolo che vi appongo io volli esprimere, come sarà ben apparso ai lettori più attenti ed era mio proposito, un presagio dell'accrescimento della gloriosa vostra rinomanza].
Non è un generico auspicio ad maiora, quale si legge già nel protocollo della lettera quando si auspica una perpetua crescita del glorioso nome: «et gloriosi nomini perpetuum incrementum» (Ep. xiii 1 [e che la gloriosa rinomanza possa accrescersi per l'eternità]). È piuttosto un argomento de proposito di chiave squisitamente onomastica (vestri nominis), che attiene quindi alla Scala, già celebrata nella sua figura araldica: «la cortesia del gran Lombardo / che 'n su la scala porta il santo uccello» (Par. xvii 71-72). Nel Genesi infatti la scala è la prima rivelazione del Paradiso. Così avviene nel sogno di Giacobbe, il quale: «viditque in somnis scalam stantem super terram, et cacumen illius tangens caelum, angelosque quoque Dei ascendentes et descendentes per eam, et Dominum innixum scalae dicentem sibi "Ego sum Dominus Deus Abraham patris tui et Deus Isaac"» (Gn 28 12-13 [vide in sogno una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa, e il Signore sulla scala che gli diceva: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco»]). E la presenza di questo elemento onomastico nascosto, che è segnalato ai satis attentis (come altre volte già si faceva nella Vita Nova), basta a sfatare ogni sospetto di apocrifia della lettera. Ma questa interpretazione evidenzia anche che nei titoli (giusta l'amplificazione di Boccaccio nel suo cosiddetto Accessus alla lettura della Comedia) si insinuano sottili motivi onomastici, e riprova che i motivi delle dediche dantesche sono ricorrenti, primo fra tutti quello dei frutti, utili e gratuiti, della «pronta liberalitate».

5. Appunti sull'epistola di frate Ilaro: una dedica per interposta persona?
Tenendo presente questa topica incipitaria, ricorrente e specifica, è istruttivo leggere ora alcuni paragrafi della lettera che frate Ilaro spedisce a Uguccione della Faggiola. Nell'epistola di Ilaro13 l'autore innominato della prima pars dell'opera innominata è presentato attraverso i motivi evangelici del thesauro cordis (Mt 12 35), dell'albero che si riconosce dai suoi frutti (Mt 3 10; Mt 7 18; Mt 12 33), e attraverso il motivo salmistico dell'uomo paragonato all'albero che fruttifica a tempo debito (dal primo Salmo, ricordato nel primo paragrafo della Monarchia). Ma anche il monito della parabola dei talenti, ipsum Dei [...] imperium, fa la sua comparsa: «quin ipsum Dei deterret imperium ne si qua nobis de gratia sunt concessa maneant otiosa» (Ep. 4 [poiché lo stesso comandamento di Dio impone che quei doni ricevuti da noi per grazia non restino inattivi]), e proprio nella figura terribile del giudizio (come si temeva nel passo «ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar» di Mon. i 1 3 [perché io presto o tardi non venga rimproverato della colpa di aver seppellito il mio talento]). Ecco come è articolata la presentazione dell'iste homo il quale, già dalla pueritia, hec [...] de prolatione interni thesauri a pueritia reservasse videtur (Ep. 5 [custodisse invero fin dalla puerizia la qualità del produrre dal suo tesoro interiore]), richiamo consono a quella notazione del primo paragrafo del Convivio, più sopra esaminato: «alcuna cosa ho riservata, la quale […] già è più tempo ho dimostrata» (Conv. i 1 10): Sicut Salvator noster evangelizzat, bonus homo de bono thesauro cordis sui profert bonum. In quo duo inserta videntur: ut scilicet per ea que foras eveniunt intrinseca cognoscamus in aliis, et ut per verba que ob hoc data sunt nobis nostra manifestemus interna. A fructu enim eorum, ut scriptum est, cognoscetis eos. Quod, licet de peccatoribus hoc dicatur, multo universalius de iustis intelligere possumus, cum isti semper proferendi et illi semper abscondendi persuasionem quodammodo recipiant. Nec solum glorie desiderium persuadet ut bona que intus habemus fructificent de foris, quin ipsum Dei deterret imperium, ne si qua nobis de gratia sunt concessa maneant otiosa. Nam Deus et natura otiosa despiciunt. Propter quod arbor illa que in etate sua fructum denegat ingni dampnatur. Vere igitur iste homo cuius opus cum suis expositionibus a me factis destinare intendo, inter alios Ytalos, hec, quomodo dicitur, de prolatione interni thesauri a pueritia reservasse videtur, cum, secundum quod accepi ab aliis, quod mirabile est, ante pubertatem inaudita loqui tentavit; et, mirabilius, que vix ipso latino possunt per viros excellenctissimos explicari, conatus est vulgari aperire sermone, vulgari, dico, non simplici, sed musico. Et ut laudes ipsius in suis operibus esse sinantur, ubi sine dubio apud sapientes clarius elucescunt, breviter ad propositum veniam (Epistula di frate Ilaro 2-6).

[Come il nostro Salvatore insegna, «l'uomo buono trae il bene dal buon tesoro del suo cuore». In questo detto sembrano compresi due avvertimenti, cioè che apprendiamo gli stati interiori in altri attraverso le cose che accadono esternamente, e che manifestiamo i nostri stati interiori mediante le parole che ci sono state date appunto per ciò. Infatti, come è scritto, «li conoscerete dal loro frutto». Possiamo applicare tale detto, sebbene riguardi i peccatori, molto più universalmente ai giusti, dal momento che allo stesso modo questi si lasciano persuadere sempre ad esibire e quelli sempre a occultare. Non il solo desiderio di gloria fa sì che i beni che abbiamo dentro di noi fruttifichino esternamente, anzi lo stesso comandamento divino impedisce che, se alcune grazie ci sono concesse, queste rimangano infruttuose. Infatti Dio e la natura disprezzano ciò che rimane infruttuoso. Perciò quell'albero che a tempo debito non dà frutti è destinato al fuoco. Pertanto sembra che quest'uomo, la cui opera intendo destinarvi con le mie glosse, tra gli altri italiani custodisse invero fin dalla puerizia la qualità del produrre dal suo tesoro interiore; poiché, secondo quanto ho appreso da altri, prima di diventare adulto cercò di dar voce a concetti inauditi, notizia degna di ammirazione; e, ancora più mirabile, egli si sforzò di esporre chiaramente in volgare concetti tali che uomini eccellenti possono a stento esporre con chiarezza persino in latino, in volgare ripeto non comune, ma in versi. E per permettere che le sue lodi consistano nelle sue opere, dove senza dubbio risplendono meglio per i sapienti, verrò brevemente al mio proposito].
La lettera di Ilaro, quale è giunta a noi, è evidentemente lacunosa (a tacer dell'assenza di alcune parti canonicamente proprie di un'epistola, mancano autore e titolo dell'opera dedicata), ma ci sono alcune notazioni cursive di importanza cruciale, da affiancare al tessuto delle citazioni bibliche già evidenziato come quello tipicamente esordiale in Dante. Si tratta di elementi dell'argomentazione che risaltano proprio perché mancano di una trattazione contestuale specifica o di una presentazione particolare, quale invece Dante riserva agli stessi temi nei suoi testi di dedica. Prima di tutto la notazione che il glossatore o primissimo commentatore dell'Inferno, frate Ilaro, applica a se stesso: «fideliter tamen laboravi et animo liberali» (Ep. 18 [tuttavia mi applicai con fedeltà e con buona volontà]), e poi l'altra notazione: «Et ut per illum amicissimum vestrum iniunctum fuit, opus ipsum destino post[il]latum» (Ep. 19 [E dal momento che fui incaricato da quel vostro grande amico, vi mando l'opera stessa postillata]). Si tratta di due relitti lessicali notevoli, che risultano un po' immotivati nel contesto attuale: che vorrà dire che le chiose sono state apposte animo liberali, e come mai Dante è, senza nessuna dimostrazione della cosa, amicissimum vestrum di Uguccione? Soprattutto sono le spie lessicali dei due motivi incipitari, la «pronta liberalitate» e l'amicizia, che altrove (nel primo paragrafo della Monarchia, nel primo capitolo del Convivio, nell'epistola a Cangrande della Scala, ma già anche nel secondo paragrafo della Vita Nova) vengono invece particolareggiatamente spiegati e illustrati ai destinatari, o lettori privilegiati. Recentemente Carlo Ginzburg ha riavvicinato all'epistola di frate Ilaro un passo dalla prima redazione del commento di Benvenuto da Imola, e precisamente la secunda ratio di un ragionamento articolato sull'uso del volgare per la Comedia. Ebbene, all'interno di quel paragrafo già molte volte discusso, che affronta le ragioni della scelta linguistica dell'autore, riaffiora il motivo della «pronta liberalitate», nella sua prima caratteristica, che è quella del dare a molti: ut faceret fructum de delectationem pluribus gentibus, infatti «dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza dalli benefici di Dio, che è universalissimo benefattore» (Conv. i 8 3). Ecco il brano: Sed est dubium, que est causa quod homo tantus deduxit se ad describendum vulgariter. Ratio prima est ista, que habetur in sua epistula, ut faceret fructum de delectationem pluribus gentibus, tam literatis quam illitteratis: unde si descripsisset literaliter, tunc ipsum vulgares non intellexissent, unde novum stilum voluit capere, et etiam ut faceret fructum Italicis.14

[Ma è incerto per quale ragione un tanto uomo si ridusse a scrivere in volgare. La prima ragione è quella, che si trova nella sua lettera, per fare frutto che piacesse a più persone, tanto letterate che illetterate: poiché, se avesse letterariamente scritto in latino, allora gli uomini che parlano il volgare non l'avrebbero capito, perciò volle iniziare questo nuovo modo, per produrre anche un frutto in vantaggio degli Italiani].
Come è noto, quell'inciso problematico in sua epistula all'interno di questa prima ratio dell'argomentazione di Benvenuto ha fatto pensare ad altri all'epistola a Cangrande della Scala, nella quale però la problematica della lingua è del tutto assente. Ma è ben vero, come si sta vedendo, che la «pronta liberalitate», quale si desume nel contesto, è comunque una argomentazione incipitaria e dedicatoria costante in Dante. Si tratta di un rinvio ad una epistula diversa dalla lettera di frate Ilaro, citata da Benvenuto subito sotto, nella secunda ratio? Benvenuto consulterebbe così una epistula sua (di Dante) di dedica di una cantica, e poi qualcosa coincidente con l'epistola di frate Ilaro (che dedica l'Inferno a Uguccione), oppure i due materiali che ne estrae (e cioè il motivo liberale del dare a molti, e l'incipit latino del poema) derivano da un'unica lettera, sua?


Appendice di testi

1

Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam invenimus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus − cum ad eam non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit − volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas, plerumque anteriora posteriora putantes, Verbo aspirante de celis locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum (De vulgari eloquentia i 1 1).

[Poiché non ci risulta che nessuno prima di noi abbia svolto una qualche trattazione sulla teoria dell'eloquenza volgare, e ci è ben chiaro che quest'arte dell'eloquenza è necessaria a tutti − tant'è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini, per quanto lo consente la natura −, nel nostro desiderio di illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le piazze, e spesso credono di avere davanti a sé ciò che sta alle loro spalle, tenteremo, assistiti dal Verbo che ci ispira dal cielo, di giovare alla lingua della gente illetterata; e per riempire una così grande coppa non ci limiteremo ad attingere l'acqua del nostro ingegno, ma, desumendo e mettendo assieme da ciò che altri ci forniscono, vi mescoleremo dentro quanto vi è di meglio, così da poterne mescere un dolcissimo idromele (trad. P. V. Mengaldo)].



2

[1] Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. [2] Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all'uomo e di fuori da esso lui rimovono dall'abito di scienza. [3] Dentro dall'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno dalla parte del corpo, l'altro dalla parte dell'anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Dalla parte dell'anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. [4] Di fuori dall'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una delle quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. [5] Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l'una più, sono degne di biasimo e d'abominazione. [6] Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. [7] Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! E miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo! [8] Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando. [9] E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. [10] E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito della pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. [11] Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata. Ed ha questo convivio di quello pane degno, co[n] tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. [12] E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore de' vizii, perché lo stomaco suo è pieno d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. [13] Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s'assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire. [14] La vivanda di questo convivio saràe di quattordici maniere ordinata, cioè [di] quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. [15] Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente. [16] E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene. [17] Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all'entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. [18] E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. [19] Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene alla sua grida, che non al mio volere ma alla mia facultade imputino ogni difetto: però che la mia voglia di compita e cara liberalitade è qui seguace (Convivio i 1).



3

[1] Omnium hominum quos ad amorem veritatis Natura Superior impressit hoc maxime interesse videtur: ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. [2] Longe nanque ab offitio se esse non dubitet qui, publicis documentis imbutus, ad rem publicam aliquid afferre non curat; non enim est lignum, quod secus decursus aquarum fructificat in tempore suo, sed potius perniciosa vorago semper ingurgitans et nunquam ingurgitata refundens. [3] Hec igitur sepe mecum recogitans, ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar, publice utilitati non modo turgescere, quinymo fructificare desidero, et intemptatas ab aliis ostendere veritates. [4] Nam quem fructum ille qui theorema quoddam Euclidis iterum demonstraret? Qui ab Aristotile felicitatem ostensam reostendere conaretur? qui senectutem a Cicerone defensam resummeret defensandam? Nullum quippe, sed fastidium potius illa superfluitas tediosa prestaret. [5] Cumque, inter alias veritates occultas et utiles, temporalis Monarchie notitia utilissima sit et maxime latens et, propter non se habere inmediate ad lucrum, ab omnibus intemptata, in proposito est hanc de suis enucleare latibulis, tum ut utiliter mundo pervigilem, tum etiam ut palmam tanti bravii primus in meam gloriam adipiscar. [6] Arduum quidem opus et ultra vires aggredior, non tam de propria virtute confidens, quam de lumine Largitoris illius «qui dat omnibus affluenter et non improperat» (Monarchia i 1).

[A tutti gli uomini, su cui la natura superiore ha impresso il sigillo dell'amore per la verità, sembra che questo interessi sopra ogni altra cosa: che, come furono arricchiti dal lavoro degli antichi, così anch'essi lavorino a vantaggio dei posteri, affinché da loro le generazioni future abbiano di che essere arricchite. Stia pur certo di essere ben lontano dal proprio dovere colui che, istruito dagli insegnamenti della comunità, alla comunità non si preoccupa di recare alcun vantaggio; giacché egli non è «l'albero che, piantato lungo corsi d'acqua fruttifica nella sua stagione», ma piuttosto una perniciosa voragine che sempre ingurgita e che mai restituisce ciò che ha ingurgitato. Pensando, dunque, fra me e me a questo, perché io presto o tardi non venga rimproverato della colpa di aver seppellito il mio talento, desidero non solo inturgidirmi per la gestazione, ma produrre frutti per l'utile pubblico e mostrare verità non ancora esplorate da altri. Certo, che frutto potrebbe portare chi dimostrasse di nuovo un qualche teorema di Euclide? O chi tentasse di mostrare di nuovo l'essenza della felicità già mostrata da Aristotele? O chi si assumesse di nuovo il compito di difendere la vecchiaia già difesa da Cicerone? Nessuno, certo, ma piuttosto fastidio arrecherebbe tale superflua tediosità. E poiché, tra le altre verità mal note ed utili, la nozione di Monarchia temporale è la più utile di tutte e più di ogni altra mal nota, e, per il fatto di non arrecare immediatamente un guadagno, da nessuno esplorata, è mio proposito portarla alla luce stanandola dai suoi nascondigli, sia perché le mie veglie siano utili al mondo, sia perché io per primo ottenga a mia gloria la palma di sì grande sfida. Mi accingo ad un'opera ardua senza dubbio e al di sopra delle mie forze, non tanto confidando nel mio valore, quanto nella luce di quel Dispensatore, «che dà a ciascuno copiosamente e non lo rinfaccia» (trad. M. Martelli)].



4

Magnifico atque victorioso domino domino Cani Grandi de la Scala sacratissimi Cesarei Principatus in urbe Verona et civitate Vicentie Vicario generali, devotissimus suus Dantes Alagherii florentinus natione non moribus, vitam orat per tempora diuturna felicem et gloriosi nominis perpetuum incrementum.

[1] Inclita vestre Magnificentie laus, quam fama vigil volitando disseminat, sic distrahit in diversa diversos, ut hos in spem sue prosperitatis attollat, hos exterminii deiciat in terrorem. Huius quidem preconium, facta modernorum exsuperans, tanquam veri existentia latius arbitrabar aliquando superfluum. Verum ne diuturna me nimis incertitudo suspenderet, velut Austri regina Ierusalem petiit, velut Pallas petiit Elicona, Veronam petii fidis oculis discursurus audita, ibique magnalia vestra vidi, vidi beneficia simul et tetigi; et quemadmodum prius dictorum ex parte suspicabar excessum, sic posterius ipsa facta excessiva cognovi. Quo factum ut ex auditu solo cum quadam animi subiectione benivolus prius exstiterim, sed ex visu postmodum devotissimus et amicus. [2] Nec reor amici nomen assumens, ut nonnulli forsitan obiectarent, reatum presumptionis incurrere, cum non minus dispares connectantur quam pares amicitie sacramento. Nam si delectabiles et utiles amicitias inspicere libeat, illis persepius inspicienti patebit preheminentes inferioribus coniugari personas. Et si ad veram ac per se amicitiam torqueatur intuitus, nonne summorum illustriumque principum plerunque viros fortuna obscuros, honestate preclaros, amicos fuisse constabit? Quidni, cum etiam Dei et hominis amicitia nequaquam impediatur excessu? Quod si cuiquam quod asseritur nunc videretur indignum, Spiritum Sanctum audiat, amicitie sue participes quosdam homines profitentem; nam in Sapientia de sapientia legitur «quoniam infinitus thesaurus est homibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitie Dei». Sed habet imperitia vulgi sine discretione iudicium; et quemadmodum solem pedalis magnitudinis arbitratur, sic et circa mores vana credulitate decipitur. Nos autem quibus optimum quod est in nobis noscere datum est, gregum vestigia sectari non decet, quin ymo suis erroribus obviare tenemur. Nam intellectu ac ratione vigentes, divina quadam libertate dotati, nullis consuetudinibus astringuntur; nec mirum, cum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius dirigantur. Liquet igitur quod superius dixi, me scilicet esse devotissumum et amicum, nullatenus esse presumptum. [3] Preferens ergo amicitiam vestram quasi thesaurum carissimum, providentia diligenti et accurata solicitudine illam servare desidero. Itaque, cum in dogmatibus moralis negotii amicitiam adequari et salvari analogo doceatur, ad retribuendum pro collatis beneficiis plus quam semel analogiam sequi mihi votivum est; et propter hoc munuscula mea sepe multum conspexi et ab invicem segregavi nec non segregata percensui, digniusque gratiusque vobis inquirens. Neque ipsi preheminentie vestre congruum comperi magis quam Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi; et illam sub presenti epistola, tanquam sub epigrammate proprio dedicatam, vobis ascribo, vobis offero, vobis denique recommendo. [4] Illud quoque preterire silentio simpliciter inardescens non sinit affectus, quod in hac donatione plus dono quam domino et honoris et fame conferri videri potest; quin ymo cum eius titulo iam presagium de gloria vestri nominis amplianda satis attentis videbar expressisse; quod de proposito. Sed zelus gratie vestre, quam sitio vitam parvipendens, a primordio metam prefixam urgebit ulterius. Itaue, formula consumata epistole, ad introductionem oblati operis aliquid sub lectoris officio compendiose aggrediar (Epistola xiii 1-4).

[Al magnifico e vittorioso signore, il signore Cangrande della Scala, Vicario generale del sacratissimo cesareo principato nella città di Verona e nella città di Vicenza, Dante Alighieri, fiorentino di nascita non di costumi, a lui devotissimo, augura vita felice per lunghi anni e che la gloriosa rinomanza possa accrescersi per l'eternità.
L'inclita lode della Magnificenza vostra che la vigil fama svolazzando diffonde provoca effetti diversi fra gli uomini dividendoli in due parti opposte, l'una che s'esalta nella speranza del proprio successo, l'altra che s'abbatte nello sgomento della propria disfatta. Devo confessare che la voce di questa lode, più vasta di quella che si possono attendere le azioni degli uomini d'oggi, io la giudicai un tempo eccessiva, superiore alla realtà. Ma mi pesava troppo la lunga mancanza di notizie sicure, onde, come la regina del mezzodì venne a Gerusalemme, come Pallade venne sull'Elicona, io venni a Verona a verificare sulla fede dei miei occhi quel che avevo sentito dire, e qui vidi le vostre grandiosità, vidi il bene che avete fatto e lo sperimentai; e come prima avevo dubitato per quel che si diceva di voi che si fosse esagerato, così dopo riconobbi che quel che avete fatto era eccezionale. Onde avvenne che se prima al solo sentir parlare di voi avevo provato per voi un sentimento di benevolenza dettato dalla soggezione, in seguito, appena vi vidi, questo sentimento si cangiò in sensi di grande devozione e di amicizia. Né penso, arrogandomi il nome d'amico, di peccare di presunzione − e qualcuno me ne potrebbe incolpare − se è vero che il sacro vincolo dell'amicizia stringe tra loro persone sia di dissimile sia di simile stato. Ché, se esaminiamo attentamente le amicizia dilettevoli e quelle utili, apparirà che assai spesso persone eminenti si sogliono legare ad altre di stato inferiore. E se si volge lo sguardo all'amicizia perfetta e disinteressata, non risulterà forse che uomini d'oscura fortuna ma di chiara onestà furono amici di grandi e illustri principi? E perché no, quando persino l'amicizia fra Dio e l'uomo non è impedita dall'enorme distanza che li separa? Ché, se questa affermazione sembrasse a qualcuno blasfema, ascolti almeno lo Spirito Santo che testimonia che alcuni uomini hanno parte della sua amicizia; infatti si può leggere nel libro della Sapienza a proposito della sapienza: «Perrocché ella è tesoro infinito per gli uomini, e coloro che la impiegano hanno parte all'amicizia di Dio». Ma l'ignoranza del volgo formula giudizi senza discernimento; e come conclude che il sole sia di larghezza nel diametro d'un piede, così per quel che riguarda i costumi è tratta in inganno dalla sciocca credulità. Ma noi a cui è stato concesso di aver coscienza del meglio che è in noi, non dobbiamo calcare le orme delle pecore, ché anzi siamo tenuti a correggere le loro deviazoni. Quelli infatti che sono coscienti della forza dell'intelletto razionale e del dono divino del libero arbitrio non possono essere obbligati da nessuna consuetudine; né c'è da meravigliarsene, se è vero che non essi dalle leggi, ma le leggi da essi prendono norma. È chiaro dunque che quel che ho detto sopra, cioè che io ho per voi "sensi di grande devozione e amicizia" non è per nulla un peccato di presunzione. Tenendo dunque, più che a ogni altra cosa, alla vostra amicizia come al tesoro più caro, è mio desiderio di conservarla con ogni cura e premura, prevedendo la minima cosa che possa turbarla. Dunque, siccome nei dommi dell'Etica s'insegna che il concetto dell'analogo stabilisce l'eguaglianza fra gli amici e conserva l'amicizia, per corrispondere in qualche modo ai benefici più di una volta ricevuti, è mio voto seguire il concetto di analogia; e perciò molto a lungo esaminai i poveri doni che potevo farvi e ne misi qualcuno da parte e poi li riesaminai attentamente domandandomi quale fosse il più degno di voi e a voi più gradito. E non riuscii a trovare niente tanto adatto a vostra altezza quanto la suprema cantica della Comedia che s'adorna del titolo di Paradiso. Questa, con la presente epistola che assolve perciò le funzioni di un epigramma di dedica, metto sotto il vostro nome, questa vi offro, questa vi affido. Ma il grande affetto non può far passare sotto silenzio il fatto che da questo dono che io vi faccio possa sembrare che il dono stesso più che colui che ne venga in possesso ne consegua onore e fama. Ma, al contrario, già dal titolo che vi appongo io volli esprimere, come sarà ben apparso ai lettori più attenti ed era mio proposito, un presagio dell'accrescimento della gloriosa vostra rinomanza. Ma il desiderio del vostro favore, che bramo più della vita, sarà d'incitamento a procede più speditamente verso la mèta che mi prefissi in partenza. Pertanto esaurita la formula dell'epistola mi accingerò, in veste di lector, a esporre sommariamente alcuni punti che servano come accessus dell'opera offerta (trad. G. Brugnoli)].

G. G. e P. A.






Note

1 Il paragrafo 19 della Vita Nova parla della morte di Beatrice, assunta in cielo nella schiera gloriosa di Maria (Vita Nova 19 1). Dante non può trattare di questo evento luttuoso per tre ragioni: esula dal suo proposito, a norma del proemio dell'opera; la sua lingua non è sufficiente all'assunto; e soprattutto il trattarne lo indurrebbe a essere laudatore di sé (Vita Nova 19 2). Come il numero nove abbia avuto parte nella morte della donna, a norma dei calendari arabo, siriaco e cristiano (Vita Nova 19 3-4), come già nella generazione di lei per ragioni astrologiche (i nove cieli di Tolomeo) (Vita Nova 19 5) e per il mistero della Trinità, di cui il nove è prodotto immediato, ossia miracolo, che coincide con Beatrice (Vita Nova 19 6-7). Dante scrive alli principi della terra un'epistola latina di cordoglio, di cui nel libro trascrive solo il cominciamento profetico Quomodo sedet sola civitas, che allude alla desolazione della città natale (Vita Nova 19 8-10). Il presente contributo, che gli autori dedicano con amicizia a Maria Antonietta Terzoli, si inserisce nel quadro di una ricerca più vasta e ha un pendant nel saggio Dante «con liberale animo dona» (Boccaccio): il nome dell'autore e altri elementi proemiali nella 'Monarchia', in «Studi Danteschi», lxxv, 2010, pp. 1-42.torna su
2 Sulla presumibile articolazione diacronica di questa dedica, in relazione alla canzone di Guido Cavalcanti Donna me prega, per ch'eo voglio dire, cfr. le considerazioni di G. Gorni, Una 'Vita Nova' per Cavalcanti, da Beatrice alla Donna Gentile, in Guido Cavalcanti. Dante e il suo «primo amico», Roma, Aracne, 2009, pp. 11-30.torna su
3 Si fa riferimento (soprattutto per il commento di questi testi) all'edizione D. Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di D. DE Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la fondazione Ezio Franceschini, 2005.torna su
4 Ecco l'elenco dei passi in cui compare la formula reticente «amicus eius»: «primo quidem quod qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta Cynus Pistoriensis et amicus eius» (VE i 10 2 [in primo luogo perché coloro che hanno poetato in volgare più dolcemente e profondamente, come Cino Pistoiese e l'amico suo, sono suoi servitori e ministri]); «tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum videamus electum ut Cynus Pistoriensis et amicus eius ostendunt in cantionibus suis» (VE i 17 3 [lo vediamo [...] emergere così nobile, così limpido, così perfetto e così urbano come mostrano Cino Pistoiese e l'amico suo nelle loro canzoni]); «Cynus: Digno sono eo di morte; amicus eius: Doglia mi reca ne lo core ardire» (VE ii 2 8), «Cynus Pistoriensis: Non spero che giamai per mia salute; amicus eius: Amor, che movi tua virtù da cielo» (VE ii 5 4); «Cynus de Pistorio: Avegna che io aggia più per tempo, amicus eius: Amor che ne la mente mi ragiona» (VE ii 6 6). Si noti che il pistoiese mai compare nel trattato senza Dante nei sei luoghi totali in cui è menzionato (ai precedenti va aggiunto: «nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lupum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem, quem nunc indigne postponimus, non indigne coacti», VE i 13 4 [qualcuno a nostro avviso ha sperimentato l'eccellenza del volgare, voglio dire Guido, Lapo e un altro, tutti di Firenze, e Cino Pistoiese, che ora mettiamo ingiustamente per ultimo, costretti da una considerazione non ingiusta]). Cfr. D. Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. V. Mengaldo, i. Introduzione e testo, Padova, Editrice Antenore, 1968, pp. xcii-xciv. La traduzione, qui e altrove, è del Mengaldo in D. Alighieri, Opere minori, tomo ii, a cura di P. V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979.torna su
5 La sigla G indica il manoscritto con segnatura Grenoble, Bibliothèque Civique, n. 580; con T si indica Milano, Biblioteca Trivulziana, n. 1088.torna su
6 Tale rubrica fa da pendant a quella che a VE i 6 aveva già detto: «Sub quo ydiomate primum locutus est homo; et unde fuit auctor huius operis».torna su
7 Ma Achemenide (che una tradizione voleva fondatore di Firenze) e Polifemo sono personaggi della seconda egloga a Giovanni del Virgilio.torna su
8 Si rimanda all'articolo sugli «Studi Danteschi», citato alla nota 1.torna su
9 D. Alighieri, Monarchia, a cura di P. Shaw, Firenze, Le Lettere, 2009 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), pp. 337-38. La traduzione è di Mario Martelli in Dante, MonarchiaCola di Rienzo, CommentarioM. Ficino, Volgarizzamento, traduzioni di P. D'Alessandro, F. Furlan, N. Marcelli e M. Martelli. Introduzione, nota biografica, nota ai testi e commento di F. Furlan, Milano, Mondadori, 2004, pp. 3-5.torna su
10 Interessante anche l'altro stralcio di questa parte iniziale dell'Epistula Iacobi 1 17 che Dante cita e traduce in Conv. iv 20 6 a proposito del dono divino del seme della nobiltà: «ch'è bene divino dono, secondo la parola dell'Apostolo: "Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal Padre de' lumi"».torna su
11 Sia consentito qui il rimando a G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d'Amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze, Olschki, 1981.torna su
12 Il testo della lettera e la sua traduzione sono desunti da Alighieri, Opere minori cit..torna su
13 La più recente edizione del testo è quella di B. Arduini e H. W. Storey, Edizione diplomatico-interpretativa della lettera di frate Ilaro (Laur. XXIX 8, c. 67r), in «Dante Studies», cxxiv, 2006, pp. 77-89, da cui si desume la traduzione. In quella stessa sede si tengano presenti anche i contributi di H. W. Storey, Contesti e culture testuali della lettera di frate Ilaro, pp. 57-76 e di G. Indizio, Dante e l'enigma del monaco Ilaro di S. Croce: contributo per una vexata quaestio, pp. 91-118.torna su
14 La questione, sollevata da C. Paolazzi, Le letture dantesche di Benvenuto da Imola a Bologna e a Ferrara e le redazioni del suo Comentum, in «Italia Medievale e Umanistica», xxii, 1979, pp. 319-66, a p. 323, è riaffrontata e riduscussa da C. Ginzburg, Dante's Epistle to Cangrande and its Two Authors, in Proceedings of the British Academy, cxxxix, 2005 Lectures, London, The British Academy, 2006, pp. 195-216. Così Ginzburg: «Paolazzi interpreted the words 'in sua epistula', or in his epistle (a phrase absent from later versions of Benvenuto's commentary), as an allusion to the Epistle to Cangrande. This would make Benvenuto's comment, which he made in 1375, the earliest reference to the Epistle, since the lecture was given twenty-five years before the appearance of Filippo Villani's commentary. Paolazzi rightly noted that no other letter ascribed to Dante refers to the Commedia. To support his interpretation, he then cited the following passage from the Epistle to Cangrande (15): 'Finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis'. The comparison is entirely unconvincing. Much closer to Benvenuto's talk of utility and benefit, as Paolazzi admitted, is a passage from the first version of Boccaccio's Trattatello in laude di Dante», pp. 198-99. Si noti poi che, continuando ad esaminare il passo di Benvenuto, Ginzburg ricorda proprio la lettera di Ilaro a proposito della ratio secunda, che tien dietro il passo precedente «Secunda ratio est, quoniam ipse consideravit quod reges et principes, qui olim delectabantur, et quibus opera poetarum intitulabantur, nunc ipsam poesim neglexerunt, et viciis dediti sunt: ideo se reduxit ad istum stilum. Primo enim noster incepit literaliter sic: Ultima regna canam fluvido contermina mundi», La Commedia di Dante Alighieri col commento inedito di Stefano Talice di Ricaldone, a cura di V. Promis e C. Negroni, Milano, 1888, vol. i, p. 5. Infatti così nota giustamente Ginzburg: «Benvenuto's second point echoes Convivio I, ix, 5: since sovereings do not support poetry as they did in past, Dante chose the vernacular in order to make his poems available to a larger audience. But the Latin lines he identifies as an early attempt at the Commedia come from a different source: the notorius Ilaro letter preserved in a single manuscript known as the Zibaldone Laurenziano and written in Boccaccio's own hand», p. 200.torna su