8, 2014
 
Saggi    
 
Abstract


Marco Paoli

I. L'incisione al servizio della dedica.
Gli apparati decorativi nelle dediche dal Cinquecento al Settecento*



Lo studio degli apparati figurativi quali corredo delle dediche nelle edizioni a stampa di antico regime deve ovviamente tener conto della contemporanea illustrazione libraria, poiché la dedica, come è noto, è una sezione standardizzata del prodotto-libro europeo. Ma l'analisi del fenomeno fa registrare in molti casi sensibili scostamenti tra quanto avviene nel corpo del testo, accompagnato da immagini silografate o incise a bulino, e le pagine riservate alla dedica. Accade di frequente in opere dedicate che alle illustrazioni del testo corrisponda una minima ornamentazione della pagina contenente l'inizio dell'epistola dedicatoria o del frontespizio, e che, in termini più generali, un secolo come il Seicento francese, il «Grand Siècle» della letteratura ma anche dell'illustrazione libraria, presenti un moderato utilizzo dell'incisione al servizio delle dediche. Al contrario, il Seicento italiano segna un vero e proprio trionfo dell'ornamentazione dedicatoria, di pari passo con il fiorire dell'editoria illustrata. Quindi, il fattore in gioco di cui bisogna tener conto è un altro, ed è il rilievo che viene assegnato, più o meno contemporaneamente, alla funzione della dedica, in particolare della dedica mecenatica. In presenza di una solida tradizione incisoria e di un ampio spazio rivolto all'illustrazione del testo può così accadere che un semplice fregetto silografico preceda in molti casi l'epistola dedicatoria: è ciò che avviene frequentemente nella Francia del Seicento, in un'epoca in cui la dedica di tipo venale ha perso progressivamente la sua efficacia agli occhi degli autori e dei patroni; mentre ciò non accade negli stessi anni in Italia dove essa mantiene la sua centralità, quale fusto principale del fiorente albero del mecenatismo. La tesi che verrà proposta in questo intervento è che l'ornamentazione araldica e figurativa dell'epistola dedicatoria a livello europeo è un fenomeno che trova nell'editoria italiana la sua più articolata espressione, in forza di tre motivazioni principali: a) il fiorire di una robusta cultura del libro illustrato; b) la contemporanea, diffusa dipendenza degli autori (e in qualche misura degli stampatori ed editori) dai mecenati, data la secolare debolezza economica e di status del letterato della Penisola e la penuria sul mercato di lettori-acquirenti; c) la frammentazione del patronage in centinaia e centinaia di mecenati piccoli e grandi, sia appartenenti a dinastie di governo o a famiglie semplicemente aristocratiche, anche di provincia, sia titolari di cariche ecclesiastiche, da cardinale giù fino a monsignore, arciprete, preposto alla cattedrale, canonico e monaco; con la conseguenza quindi che il bacino dei potenziali mecenati risulta amplissimo, mentre in Francia e in Spagna è la corona e la corte che quasi monopolizzano gli interventi di dedica. Il presente studio si propone anche di evidenziare l'influenza che l'esempio delle dediche illustrate italiane finirà per avere su altre produzioni nazionali, in particolare su quella francese, come quando l'arte e la cultura della Penisola si affermeranno in Francia con Maria de' Medici o Mazzarino, oppure quando interverranno nel singolo rapporto mecenatico autori o dedicatari italiani. In quel caso gli esempi francesi raggiungono un livello qualitativo che supera i modelli italiani. L'inserimento nelle edizioni a stampa cinquecentesche di elementi figurativi a supporto del messaggio contenuto nel microtesto di dedica risente della tradizione manoscritta, e si avvale delle stesse strategie visive reperibili nei codici miniati. La presenza dello stemma gentilizio del patrono fa la sua comparsa in Italia fin dai primi anni del Cinquecento, nella parte inferiore del fregio silografico che inquadra la pagina frontespiziale, a imitazione delle bordure miniate in apertura dei manoscritti, o all'interno di cornici architettoniche che ormai distinguono autonomamente il libro a stampa dal codice, come nel caso dello stemma di papa Leone X, dedicatario del De divina Trinitate di Giano Vitale, inserito tra due chimere reggicolonne, con viluppi vegetali che avvolgono il ritratto dell'autore di profilo (Roma, Silber, 1521; Fig. 1). Su questa strada si giungerà a concedere allo stemma del mecenate una localizzazione di assoluta preminenza, come nel frontespizio delle Facetiae di Domizio Brusoni (Roma, G. Mazzocchi, 1518; Fig. 2) dove l'arma del cardinale Pompeo Colonna è sorretta da quattro angeli in volo, ad attestazione del ruolo che l'autore gli attribuisce nel rapporto di patronage appena instaurato. Anche in Francia si fa sentire la grande tradizione dei codici miniati, con silografie che uniscono la scena della consegna dell'opera al patrono e l'esibizione del suo stemma, come la raffigurazione di Symphorien Champier che offre ad Anna di Francia il volume de La nef des dames vertueuses, stampato a Lione nel 1503 da Jacques Arnoullet (Fig. 3). Prevale tuttavia, nella pubblicazione dello stemma del dedicatario sul frontespizio, una mise en page che riduce al minimo i toni celebrativi: ad esempio, lo stemma del cardinale de Chastillon fa la sua nuda apparizione, senza orpelli decorativi, sul frontespizio de L'histoire naturelle des estranges poissons marins (Paris, R. Chaudière, 1551; Fig. 4), nonostante nell'intitolazione della dedica il personaggio venga definito «mecenate degli studiosi» («Mecenas des hommes studieus»); e così pure lo stemma di Jean de Rieux, patrono delle Histoires prodigieuses di Pierre Boaistuau, (Paris, V. Norment e J. Bruneau, 1564). Anche quando il dedicatario è direttamente connesso con la materia trattata, la comparsa dello stemma sulla pagina frontespiziale avviene senza cornici e senza figure allegoriche: si vedano Les chroniques et annales de Poloigne (Paris, Jean Richer, 1573; Fig. 5), dove Enrico di Valois (il futuro Enrico III) è il dedicatario e al tempo stesso il re di Polonia (col titolo di Enrico V). L'editoria italiana non è altrettanto parca. Le pistole vulgari di Niccolò Franco (Venezia, Gardane, 1539; Fig. 6) inseriscono sulla sommità dell'edicola architettonica che inquadra il titolo lo stemma di Francesco I di Francia, senza che questi ne sia il dedicatario, ma solo il destinatario di una delle lettere pubblicate; eppure i due possenti telamoni che sostengono il timpano giocano a favore dell'autorità del regnante. Inoltre, i tipografi e gli incisori escogitano soluzioni tipologiche nuove ed efficaci: ad esempio il capolettera con cui si apre la dedica recherà al suo interno lo stemma del patrono: si veda la V con stemmi Medici-Da Toledo nella dedica al duca di Toscana de La moral filosofia di Anton Francesco Doni (Venezia, Marcolini, 1552; Fig. 7); e la Q con stemma del Delfino di Francia Enrico di Valois (futuro Enrico II), cui il celebre stampatore Gabriel Giolito de Ferrari dedica l'Orlando Furioso (Venezia, 1542; Fig. 8). Oppure si farà ricorso al magistero tecnico di disegnatori ed incisori per esaltare gli apparati decorativi: ora è l'applicazione, con effetti da trompe l'oeil, delle regole della prospettiva e del chiaroscuro che fa balzare lo stemma del cardinale Juan de Toledo quasi al di fuori del frontespizio dell'Historia de la composición del cuerpo humano di Juan de Valverde (Roma, A. Salamanca e A. Lafrery, 1556; Fig. 9); ora è un pittore affermato come il cremonese Antonio Campi, nell'atto di dedicare a Filippo II di Spagna la sua Cremona fedelissima (Cremona, I. Tromba e E. Bartoli, 1585; Fig. 10), che disegna un frontespizio inciso a bulino, realizzato da Agostino Carracci, in onore dell'illustre patrono, con le figure allegoriche della Storia e della Pace e stemma Asburgo. Quindi, l'importanza che gli autori del Rinascimento italiano attribuiscono all'istituto della dedica mecenatica, considerata fonte di ristoro delle spese affrontate per la stampa e di remunerazione professionale, sollecita a dismisura le potenzialità comunicazionali della calcografia, cui all'epoca era ordinariamente affidata la circolazione delle immagini, e dà vita a vere e proprie macchine trionfali con lo scopo per niente dissimulato di magnificare il patrono: ancora Filippo II di Spagna è l'oggetto delle attenzioni interessate di un letterato italiano tra i più votati al ricorso al patronage, Girolamo Ruscelli, che congegna con il tipografo veneziano Rampazzetto un arco di trionfo frontespiziale, con panoplie classiche e figure di nemici vinti, inquadrante lo stemma asburgico e la titolazione della dedica (1566; Fig. 11). Connotati teatrali presenta invece il frontespizio architettonico, con scene relative alla materia trattata, del De ludis circensibus di Onofrio Panvinio (Venezia, G.B. Ciotti, 1600; Fig. 12), sovrastato comunque dallo stemma di Francesco Maria II della Rovere, su cui un putto tiene sospesa la corona del ducato di Urbino. Le risorse del frontespizio calcografico sono tali che, a fine secolo, si giunge a concepire una sintesi figurativa dell'intero processo di dedica di un'opera, come nel primo volume della grande enciclopedia naturalistica di Ulisse Aldrovandi, avente per tema l'Ornithologia (Bononiae, apud F. de Franciscis Senensem; apud J.B. Bellagambam, 1599, Fig. 13): nella parte inferiore, l'autore vi è raffigurato in atto di offrire il volume a Clemente VIII, con il pontefice raffigurato in una positura non ufficiale, piegato in avanti per accogliere con ambedue le mani il dono; l'autore è genuflesso, con la fisionomia resa realisticamente; i cardinali commentano la scena e sullo sfondo è la città di Bologna; alla sommità della pagina è lo stemma di Clemente VIII; nella parte mediana, affiancano il titolo l'immagine di Aristotele che dona la Fisica ad Alessandro Magno e quella di Plinio il Vecchio che dona la Storia Naturale a Vespasiano, vale a dire due exempla di felice incontro tra autore e mecenate, a dimostrazione che la prassi dedicatoria affonda le sue radici nella storia antica, e deve quindi essere osservata da tutti gli attori in causa, patrono compreso. A giudicare dal materiale a me noto, considerando i due principali centri tipografici Lione e Parigi, l'editoria francese segue un percorso assai meno ambizioso sotto il profilo che qui ci preme. La tipologia che risulta prevalente, anche nelle dediche al sovrano, e che si confermerà pure nel secolo successivo, è quella del fregetto silografico, con motivi vegetali, stilizzati o con piccole figure, che delimita unicamente la parte superiore della prima di dedica. La scelta adottata dagli stampatori è improntata alla massima convenzionalità, nel senso che non verranno recepite le varianti adottate dai colleghi italiani, quali cornici silografiche poste intorno all'intitolazione o poste a riquadrare l'intera pagina come il testo fosse quello di un'epigrafe. Così, nella penuria di apparati decorativi di rilievo, acquista particolare significato la tavola contenuta nelle Tableaux accomplis de tous les arts libéraux (Paris, J. e F. de Gourmont, 1587; Fig. 14), dove è la raffigurazione dell'autore, Christophe de Savigny, in atto di offrire l'opera a Ludovico Gonzaga, duca di Nevers, effigiato seduto su di uno scranno; la scena si svolge all'interno di una sala in cui è affisso un arazzo recante lo stemma dei Gonzaga-Nevers, ma sul portone di accesso è pure visibile l'emblema gentilizio dell'autore; i due personaggi sono ambedue elegantemente abbigliati, e li differenzia, oltreché la positura, il fatto che il duca abbia il capo coperto mentre il de Savigny si è tolto rispettosamente il berretto. La circostanza che il dedicatario sia italiano, appartenente tra l'altro ad una dinastia tra le più sensibili alle pratiche mecenatiche, ha fatto sì che l'autore faccia accompagnare la dedica da un'immagine carica di inequivocabili contenuti simbolici. Il divario tra editoria francese ed editoria italiana si accentua maggiormente nel corso del Seicento. Il nuovo secolo rappresenta nella Penisola il riposizionamento della figura dell'autore rispetto al livello di autonomia intellettuale e di alta considerazione di sé raggiunto nel Rinascimento, per cui Lodovico Domenichi aveva potuto parlare nel 1553 di «santa amicizia» tra principi e letterati, con i primi impegnati a fornire i mezzi necessari per gli studi e i secondi che in cambio assicurano l'immortalità. Ora il letterato italiano non occupa più la posizione paritetica con il mecenate che ancora il Marino gli riconosceva nella dedica dell'Adone (1623), quando celebrava la «reciproca scambievolezza» e lo scambio tra oro e alloro, tra scettri e penne. Il letterato seicentesco è sempre meno dispensatore di gloria e di immortalità e sempre più "servo" nei confronti del mecenate "padrone". Tale mutato atteggiamento è alla base dello sviluppo esponenziale nelle stampe italiane degli apparati visivi a corredo dell'epistola dedicatoria con la funzione di incensare il patrono, quando i testi fanno sfoggio dell'adulazione più smaccata e delle lodi più sperticate grazie alle virtù e ai meriti riconosciuti al dedicatario. Il caso vuole che il Seicento si apra con una pagina di dedica a Enrico IV di Borbone incisa a bulino, nel 1600 appunto, da Philippe Thomassin che ne è anche il firmatario (Ritratti di cento capitani illustri di Aliprando Caprioli, Roma, D. Gigliotti, 1600 ca.; Fig. 15), in cui il doppio stemma del regnante, sovrastato da tre corone e inserito nel giro di due collari con onorificenze, giganteggia togliendo spazio al testo vero e proprio della dedica: un esempio quindi di adattamento in terra d'Italia da parte di un dedicante francese del cambiamento che era in atto. Ma la novità più rilevante in questa corsa appena iniziata in Italia alla visualizzazione simbolica del dono dell'opera è rappresentata dall'utilizzo disinvolto dell'antiporta in chiave allegorica ed araldica; e dal massiccio ricorso al frontespizio interamente calcografico, affidato dunque all'esclusiva cura dell'incisore. Entrambe le procedure contano numerosi esempi, che coinvolgono sia autori celebri che misconosciuti, sia patroni di grande lignaggio che personaggi minori: evidentemente la posta in gioco è ampiamente condivisa a tutti i livelli della Repubblica letteraria e della società reale; nonostante le contraddizioni e le divisioni dell'età barocca. I principali centri tipografici interessati: Venezia e Roma; ma anche Padova, Bologna, Parma e Firenze. I frontespizi possono conservare l'equilibrata struttura architettonica rinascimentale, come quello che rivela al lettore Il Saggiatore di Galileo Galilei (Roma, Giacomo Mascardi, 1623; Fig. 16), dove lo stemma del dedicatario Urbano VIII Barberini trova la sua ordinata collocazione al pari delle personificazioni della Filosofia Naturale e della Matematica, come dell'impresa dell'Accademia dei Lincei; oppure l'architettura frontespiziale esemplifica, nello stesso torno di tempo, l'horror vacui barocco, di cui è esempio l'apertura del trattato su La fortificatione di Francesco Tensini (Venezia, 1624; Fig. 17), in cui la congerie di figure allegoriche, artiglierie e macchine belliche ridotte a modellini distrae l'attenzione dell'osservatore dallo stemma del dedicatario, il doge Francesco Contarini, raffigurato, tale stemma, in scala troppo ridotta. Altre volte la piccolezza dello scudo gentilizio viene superata con l'espediente di due fame alate, con tanto di tuba sonante, che affiancano l'insegna araldica, come nel caso de Il nobile veneto di Antonino Collurafi (Venezia, A. Muschio, 1623; Fig. 18), celebrante i fratelli Donati, dedicatari del trattato. La centralità della presenza simbolica del patrono è comunque la regola di base: nel frontespizio dei commentari al De phisico auditu di Aristotele (Padova, G.B. Pasquati, 1648; Fig. 19), l'allegoria dei cinque sensi, sotto forma di nereidi e tritoni immersi nelle acque della laguna, è sovrastata dalla personificazione di Venezia e dallo stemma del doge Francesco Molin, cui il celebre professore dell'ateneo patavino Giovanni Cottunio indirizza l'opera; vale a dire l'argomento del testo è subordinato alla diffusione a chiare lettere del coinvolgimento del patrono nelle vicende dell'elaborazione dell'opera e della sua stampa. L'antiporta calcografica assolve ancor di più alle esigenze di cooptazione del mecenate, offrendo rispetto al frontespizio maggiore libertà di trattamento dello stemma e del nome del dedicatario. Così, nell'Anatomia ingeniorum di Antonio Zara (Venezia, A. Dei, 1615, Fig. 20), il complicato emblema araldico dell'arciduca Ferdinando d'Asburgo troneggia al centro della pagina con le sue dimensioni dilatate per consentirne la lettura, e gli fanno da cornice allegorica, con evidente intento celebrativo del futuro imperatore, Minerva, patrona degli uomini di Stato, la Fede Cristiana, la Provvidenza, la Vittoria, l'Immortalità, l'Intelligenza, e la Maestà Regale. Ma la fantasia di chi progetta la raffigurazione dell'antiporta non ha limiti: lo stemma del cardinale Scipione Borghese, dedicatario della commedia Erotilla di Giulio Strozzi (Venezia, G. Violati, 1615; Fig. 21) viene scomposto nei suoi elementi araldici dal disegnatore michelangiolesco Andrea Commodi (1560-1638), al punto che l'aquila coronata con le ali spiegate occupa la posizione di maggiore visibilità, mentre il draghetto diviene una sorta di animale domestico con cui giocano quattro amorini in primo piano. Un'operazione questa resa possibile dalla notorietà dello stemma Borghese ed evidentemente non applicabile ad altre casate. Ma, l'ape Barberini, elemento costitutivo di un altro celebre emblema araldico (Fig. 22), finisce per posarsi con effetto illusionistico, per la fitta peluria che la ricopre, sull'ultima pagina di dedica di un volume del 1630 indirizzato a Taddeo Barberini (M. Ghetaldi, De resolutione et compositione matematica, Romae, Ex Typographia Reverendae Camerae Apostolicae). È comunque con grande disinvoltura che vengono presentate le insegne araldiche di mecenati minori: lo stemma di Lelia Malaspina Paleotti è appeso come un festone teatrale per la tragedia Acamante di Mario Mazza (Bologna, G.B. Ferroni, 1642; Fig. 23), quello di Giuliano Spinola diventa una sorta di attributo di Euterpe per la Musarum pars prima di Baldassarre Bonifacio (Venezia, G.G. Hertz, 1646; Fig. 24); quello di Carlo Nembrini Gonzaga è allusivamente deposto ai piedi di Minerva, dea della sapienza, per Il nuovo zodiaco figurato di Antonio Lupis (Venezia, G.M. Ruinetti 1697; Fig. 25); quello di Giuseppe Toppi viene addirittura dipinto, si direbbe, in diretta da un putto armato di pennello e tavolozza per Il Gedeone evangelico dello stesso Lupis (Venezia, G.M. Ruinetti, 1697; Fig. 26). È significativo che gli ultimi tre esempi menzionati siano stati incisi dall'infaticabile suor Elisabetta Piccini, francescana veneziana dedita all'illustrazione del libro, ad attestare come il genere antiporta si fosse a tal punto standardizzato da richiedere l'intervento di artisti specializzati. Il capitolo dell'antiporta seicentesca italiano non cessa di fornire materiali per lo studio del mecenatismo nella Penisola. Che l'adulazione nei confronti del patrono avesse raggiunto livelli parossistici è testimoniato dallo stemma Medici posto in mezzo al cielo, nella posizione del sole nel momento in cui la mezzaluna ottomana viene oscurata, ad allusione della lotta dei Granduchi di Toscana contro le insidie turchesche: si tratta dell'antiporta incisa dal grande Jacques Callot per la tragedia Il Solimano di Prospero Bonarelli, dedicata a Cosimo II (Firenze, P. Cecconcelli, 1620; Fig. 27). Che poi l'esaltazione della splendida singolarità del mecenate possa essere accresciuta dall'esposizione del suo nome o del suo titolo senza che ne venga visualizzato lo stemma dinastico, è ulteriore operazione retorica che trova applicazione, ad esempio, nell'antiporta della tragedia Flerida gelosa di Giovanni Battista Manzini (Parma, S. e E. Viotti, 1631; Fig. 28), dove, sotto la corona ducale, è la scritta «Al Serenissimo di Parma»; o nell'antiporta dell'Aristobulo di Luigi Manzini (Roma, L. Grignani, 1638, Fig. 29) con l'esibizione del solo nome del dedicatario, il marchese Anton Giulio Brignole Sale. Tale fiera delle vanità, fatta di belle immagini e di artifici retorici, coinvolge marginalmente anche un autore francese, Philippe de Bethume, quando il suo Le conseiller d'estat, ancora lui vivente, viene tradotto in italiano e dedicato a Carlo II Gonzaga duca di Mantova (Venezia, P. Baglioni, 1646; Fig. 30); ma a firmare l'epistola dedicatoria è il traduttore Muzio Ziccatta. L'antiporta ci consegna una raffinata allegoria: la personificazione della Curiosità, mentre cerca di entrare nell'abitazione del consigliere di stato, titolare dei più riposti segreti, è fermata sulla soglia dalla Segretezza, davanti al portone che reca a bella vista lo stemma Gonzaga. Una soluzione iconografica, quindi, tutta italiana, mentre la ristampa dell'opera stampata a Parigi nel 1665 non recherà alcuna figurazione. Passando alla Francia del Seicento, sono almeno due le realtà che ci si presentano innanzi. Da una parte una prassi dedicatoria che appare prevalente, improntata alla massima semplicità basata sulla formula grafica del fregetto silografico posto in testa alla prima di dedica; dall'altra parte episodi di alto livello decorativo in cui è avvertibile la presenza dei modelli italiani, con la massima concentrazione negli anni in cui è sensibile l'influenza di protagonisti aperti alla cultura della Penisola, come Maria de' Medici o il cardinale Mazzarino, e comunque con riferimento ad ambiti di stretta vicinanza alla corte. Veniamo alla prima delle fattispecie. Anche nel periodo in cui operano incisori del calibro di Léonard Gaultier, artista specializzato in frontespizi incisi su matrice di rame, la dedica a Enrico IV delle Opere di Pierre de Ronsard (Paris, Nicolas Buon, 1609; Fig. 31) si apre con un semplice fregetto silografico, nonostante la pagina frontespiziale riproduca un trionfo architettonico e scultoreo del grande poeta, a firma appunto di Gaultier. Il fregetto diviene calcografico e reca una minuscola scena con Minerva dea della Guerra e della Sapienza, nella dedica a Luigi XIII della traduzione francese delle Metamorfosi di Ovidio (Paris, veuve Langelier, 1619; Fig. 32), quando invece il frontespizio è una complessa macchina allegorica, con ampio sfoggio di prospettiva architettonica e di scene simboliche. L'uso di tale mise en page di tono minore per la pièce liminaire dedica prosegue negli anni successivi del regno di Luigi XIII, anche per intitolazioni al re medesimo o alla Regina Madre, come testimonia la celebre dedica dell'Adone del Marino (Parigi, Oliviero da Varano, 1623; Fig. 33) e quella dei Rerum Gallicarum Commentarii di Beaucaire de Péguillon (Lione, C. Landry, 1625; Fig. 34). La diffusione della tipologia interessa anche centri tipografici minori come Bordeaux, considerando anche esempi di dedica a Luigi XIII (La Couronne de fleurs, Bordeaux, J. Millanges, 1624; Fig. 35). Vi ricorrerà pure Tommaso Campanella dedicando al sovrano il primo volume delle sue opere (Parigi, Dubray, 1636; Fig. 36), anche se non rinuncerà ad una bizzarria che nessun autore francese si sarebbe mai permesso di fare; vale a dire associare, nella vignetta del frontespizio, allo stemma coronato dei Borbone la "campanula" allusiva del proprio cognome, con la quale si proponeva di risvegliare gli uomini alla lettura del libro della natura e alla scuola di Dio. La dedica semplicemente introdotta da un fregetto silografico acquista particolare importanza dal punto di vista della storia dell'editoria del «Grand Siècle» in quanto è tipica della produzione di Corneille, almeno dal 1633 con la stampa della commedia Melite ou les fausses lettres (Paris, F. Targa; Fig. 37), dedicata a Monsieur de Liancour, fino alla tragedia Oedipe dedicata al sovrintendente alle finanze Fouquet (1659; Fig. 38), passando da Le Cid (1637; Fig. 39), La Galerie du Palais (1637; Fig. 40), la Place Royalle (1637; Fig. 41), la Médée (1639; Fig. 42), L'illusion comique (1639; Fig. 43), Horace, tragedia dedicata al cardinale Richelieu (1641; Fig. 44), Cinna (1643; Fig. 45), La mort de Pompée (1644; Fig. 46), Le menteur (1644; Fig. 47), La suite du menteur (1645; Fig. 48), Theodore vierge et martyre (1646; Fig. 49), Rodogune princesse des Parthes (1647; Fig. 50), Sanche d'Aragon (1650; Fig. 51), Andromede (1651; Fig. 52). Successivamente Corneille, divenuto assai critico nei confronti della dedica venale, indirizzerà le sue opere prevalentemente ai lettori. Ma anche in questa fase "mecenatica" il grande letterato non cede alle lusinghe della dedica caricata dei simboli araldici del patrono, mantenendo fede all'essenzialità del decoro: non dimentichiamo che l'Oedipe del 1659 è dedicato al gran mecenate Fouquet che ne aveva sollecitato la composizione; né che La mort de Pompée è indirizzata al cardinale Mazzarino, di cui peraltro Corneille paragona le virtù a quelle degli eroi latini, senza però assecondare la mania araldica e allegorica del primo ministro. Anche Racine indirizzerà a Luigi XIV la tragedia Alexandre le Grand (Paris, Girard 1666; Fig. 53) e a Colbert la Berenice (1671, Fig. 54) utilizzando la stessa parca ornamentazione minimalista; ed è noto che le successive tragedie usciranno senza dedica (Iphigenie, Paris 1675; Esther, Paris 1689; Phedre et Hippolyte, Paris, 1677). Ugualmente, Charles Perrault ricorrerà alla parca tipologia dell'epistola con fregetto silografico. Ma egli farà di più, con il più importante libro illustrato del Seicento francese: i suoi Les hommes illustres qui ont paru en France pendant ce siecle del 1696 è opera ornata da 104 ritratti incisi, ma è privo di dedica. A giudicare dal materiale a mia conoscenza questo atteggiamento da parte di autori e stampatori nei confronti della dedica mecenatica domina la scena editoriale della Francia del Seicento, ed ha la sua diretta ricaduta nell'uso limitato degli apparati decorativi: così opere interamente illustrate come l'Histoire sacrée en tableaux di Fine de Brianville, incisa da Sebastien Leclerc (Paris, de Sercy, 1670-1675; Fig. 55), ospita appena una vignetta con l'emblema dei due soli in onore del Delfino di Francia. Il versante opposto è rappresentativo di un filone altamente celebrativo della figura del patrono che attraversa l'intero secolo e che è imputabile alla penetrazione dei modelli italiani. Durante il regno di Enrico IV un incisore fortemente italianizzante come il menzionato Léonard Gaultier, si cimenta in frontespizi calcografici dalla struttura architetturale dove trova posto lo stemma del dedicatario, secondo una tipologia diffusa nella Penisola, in particolare nella Roma dei Papi: si considerino le opere teologiche di Pierre de Besse e di Jacques Suares stampate a Parigi da Nicolas du Fossé, dedicate al vescovo di Parigi (1606; Fig. 56), al cancelliere di Francia de Sillery (1608; Fig. 57), ancora al vescovo di Parigi (1608; Fig. 58), al cardinale du Perron (1609; Fig. 59). Nessun dubbio che gli autori firmatari della dedica intendano mostrare al pubblico il prestigio goduto dai loro mecenati, il cui stemma è affiancato da vasi spargenti incenso o da due angeli muniti della palma del martirio, quasi che i simboli della religione cattolica testimoniassero delle virtù dei patroni. Contemporaneamente Gaultier - per il frontespizio dell'opera storica di Jacques-August de Thou presidente del Parlamento di Parigi (Paris, 1606; Fig. 60) - architetta una macchina trionfale per il dedicatario Enrico IV che non tralascia nessun particolare per restituire visivamente la gloria del regnante: lo stemma entro rami di alloro, scene delle sue virtù militari, e la sua effigie con il capo cinto di alloro in forma di medaglione imperiale affiancato da putti che diffondono il suono della sua fama. Tutto contribuisce, insieme al testo della dedica elogiativo dell'azione pacificatrice del Borbone contro i mostri della ribellione, ad esaltare la statura morale del personaggio. Il ritratto a figura intera di Enrico IV accompagnerà quello di Luigi XIII in altri frontespizi incisi da Gaultier, ad indicare, ben oltre la sua morte, la continuità di un potere che non andava posto in discussione. Morto da appena un anno il re di Navarra accompagna allusivamente il figlio ne Les remonstrances di Jacques de la Guesle (Parigi, Chevalier, 1611; Fig. 61), opera dedicata alla Reggente Maria de' Medici: in quel caso il frontespizio riunisce simbolicamente i protagonisti della celebrazione in atto, i due regnanti ritratti e la dedicataria il cui titolo è esplicitamente dichiarato: «A la Reyne Regente». Più avanti nel Seicento, nel Theatre geographique du Royaume de France di Michel de la Roche-Maillet (Paris, Le Clerc, 1632; Fig. 62), la coppia regale occupa il posto ordinariamente riservato nei frontespizi incisi alle personificazioni delle virtù, generando così un'assimilazione retorica tra il "Giusto" Luigi XIII e il "Grande" Enrico IV; giocata cioè sulla valorizzazione morale della corona. Ben riconoscibile quindi anche in Francia, sulla scorta, si è detto, dell'esempio italiano, un serrato dialogo tra dedicante e mecenate, che si avvale efficacemente delle risorse comunicazionali degli apparati decorativi della dedica. Paladino di tale relazione di patronage, con l'obiettivo diretto di promozione della propria immagine pubblica, è il cardinale Mazzarino. Egli, creato cardinale da Urbano VIII, fa sua l'arte dell'elogio - genere letterario ed artistico lanciato dal pontefice e dal suo entourage - ed incoraggia la produzione di pubblicazioni encomiastiche, panegiristiche, e fa dell'esibizione pubblica del suo stemma, della sua immagine araldica, un punto fermo che gli autori non potranno ignorare. A che grado di esaltazione si possa giungere con Mazzarino è testimoniato dal frontespizio inciso da Grégoire Huret per la tesi sostenuta alla Sorbona da Leonard Goulas nel 1647 (Fig. 63): il primo ministro siede su un seggio simile ad un trono e il suo stemma pende da un'architettura magniloquente; il personaggio è circondato da antichi consoli e littori, da Romolo e Remo con la mitica lupa, dalla personificazione della Francia che presenta al suo cospetto le Lettere, la Pace e la Giustizia venute a chiedere asilo, e infine dalla Religione munita delle chiavi di S. Pietro. L'anno dopo l'arte di Claude Mellan dà forma ad una celebrazione del mecenate tutta sbilanciata sul tema della sua azione pacificatrice (Fig. 64): il ritratto del personaggio è offerto da un angelo alla Francia, raffigurata come una giovane donna con la testa velata, mentre l'Europa è semisdraiata ai suoi piedi; al livello inferiore Ercole, da sempre associato alla corona francese, si trova ad essere enfaticamente duplicato su ciascun lato dell'epigrafe recante il testo della dedica a firma di Antoine Talon, autore della tesi di teologia offerta al cardinale; in primo piano è Bellona, la dea della guerra, ridotta in catene da due putti, con le armi illusionisticamente deposte sul pavimento. Il tema di Mazzarino custode della Pace, di cui la Francia gode ormai da decenni, ritorna nel frontespizio di un'opera di un autore italiano gravitante attorno alla corte di Luigi XIV, Il tempio della Pace edificato dalla virtù dell'eminentissimo cardinale Mazzarino (Paris, Cramoisy, 1660, Fig. 65) di Ascanio Amalteo, dove l'edificio allegorico eretto in onore della statua della Pace è sovrastato dagli elementi dello stemma di Mazzarino, le stelle dorate, allusive dell'eternità, e il fascio, simbolo dei consoli e degli imperatori romani: una scomposizione dell'emblema araldico che abbiamo visto praticata con disinvoltura in Italia, e che è qui riproposta da un letterato italiano. Ancora dalla Penisola, da un grande interprete del Barocco romano, Pietro da Cortona, proviene il disegno per il frontespizio della tesi sostenuta al Collegio d'Harcourt nel 1658 da François Le Bouthillier, abate di Chavigny (Fig. 66): la scena raffigurante Giasone che si impadronisce del Vello d'Oro dopo aver sconfitto il mostro era stata originariamente predisposta dall'artista per il cardinale Pier Maria Borghese , morto prematuramente nel 1642; e sul frontone del tempietto dello sfondo è ora opportunamente inciso lo stemma di Mazzarino. Ancora in stile italiano è l'antiporta di una raccolta di elogi rivolti al primo ministro che lui stesso avrebbe voluto vedere riuniti e che uscì invece postuma nel 1666, Elogia Julii Mazarini cardinalis (Fig. 67): il ritratto del personaggio vi è sostenuto dalla Fama munita di tuba, mentre la Storia scrive le sue lodi su di un libro sorretto dal Tempo, e mentre sullo sfondo è la sagoma inconfondibile del Colosseo, forse a memoria del fatto che in quello stesso anno 1666 Luigi XIV aveva fondato nella città eterna l'Accademia di Francia. Una tale valorizzazione del patrono non poteva non interessare gli altri protagonisti della vita pubblica francese, Jean-Baptiste Colbert, cui si può veder intitolata l'Historia Byzantina del Du Cange (Parigi, 1680; Fig. 68), con la prima di dedica recante la vignetta del suo stemma con sullo sfondo la colonna Traiana, ad allusione della faraonica operazione di calcatura del celebre monumento promossa dal ministro; e, in primis Luigi XIV, cui rivolgevano dediche anche autori italiani, sia a motivo del suo patronage esportato a Roma quale finanziatore di costose edizioni archeologiche, sia a motivo della sua fama internazionale di mecenate, come nel caso di Carlo Cesare Malvasia che gli indirizza la sua Felsina pittrice (Bologna, Barbieri, 1678; Fig. 69), facendo inserire nella pagina di dedica un fregio silografico con un eloquente sole splendente. La strada era tracciata verso l'ultimo secolo che per intero sarebbe stato attraversato dalla tradizione della dedica, il Settecento. In Italia, la decorazione punta principalmente sul ritratto del dedicatario che tende ad occupare quasi interamente lo spazio dell'antiporta con un limitato ricorso ai simboli e alle allegorie. Si veda l'immagine del nobile veneziano Alvise Pisani, incisa dal principale illustratore lagunare Francesco Zucchi, che apre per volere del dedicante, lo stampatore Giambattista Albrizzi, il primo tomo delle opere di S. Agostino (Venezia, 1729; Fig. 70): il busto del patrono, incorniciato in un ovale rocaille, campeggia in testa al volume come fosse una tela collocata nel portego del suo personale palazzo; in ossequio al rituale che vuole che il dedicatario disponga liberamente dell'opera indirizzatagli, come fosse la sua avita dimora. Ma la soluzione del ritratto del mecenate settecentesco passa obbligatoriamente dalla più grande impresa editoriale italiana della prima metà del secolo, la pubblicazione dei Rerum Italicarum Scriptores del Muratori (Milano, Società Palatina 1723-1738): 24 dei 27 volumi recano dediche, e 19 di queste sono precedute dal ritratto del dedicatario, il primo dei quali è l'imperatore Carlo VI di Asburgo, seguito da cardinali e principi italiani e stranieri, tra cui Maria Teresa ancora arciduchessa d'Austria (Fig. 71). L'officina dei Rerum contribuì così a diffondere e a standardizzare la tipologia dell'ovale con ritratto del dedicatario, che, peraltro era già diffusa da decenni quando si era trattato di raffigurare invece il volto dell'autore. In Francia la tipologia è praticata dal principe degli eruditi, quel Bernard de Montfaucon che ha viaggiato a lungo per l'Italia pubblicando un Diarium italicum (1702), e che sarà impegnato per anni a dare una sistemazione a materiali archeologici e documentari in gran parte conservati nella Penisola. La sua dedica al giovane cardinale Alessandro Albani dell'Opera Omnia di Giovanni Crisostomo si arricchisce nel secondo volume del ritratto del prelato (Parigi, 1718; Fig. 72), ed anche al cospetto di un mecenate francese, il conte d'Estrées, dedicatario dell'opera antesignana della moderna archeologia, L'antiquité expliquée (Parigi, 1722, II ed., tomo I, I parte), egli non rinuncerà ad offrirgli l'onore del ritratto a piena pagina (Fig. 73). Montfaucon attingerà a piene mani dai modelli decorativi della corte pontificia anche per le panoplie araldiche poste in testa alle dediche: si veda quella di Clemente XI mecenate dell'opera di Eusebio Panfilio (Parigi, Rigaud, 1707; Fig. 74); e tale struttura ornamentale dell'epistola dedicatoria verrà adottata anche dai padri Maurini della sua stessa congregazione per la possibilità di accogliere al suo interno il ritratto miniaturizzato del patrono: penso alla dedica allo stesso papa Clemente XI dell'Opera Omnia di S. Gregorio Magno (Parigi, Rigaud, 1705; Fig. 75). Più avanti nel secolo troviamo la formula adattata per una dedica al sovrano, quando Luigi XV viene raffigurato in atto di impartire ordini durante la battaglia di Fontenoy nella vignetta di dedica dell'Art de la guerre del Puységur (Paris, Jombert, 1748; Fig. 76): la microscena, abilmente disegnata da Cochin, ingentilisce la pagina altrimenti appesantita dall'eccessiva grandezza del corpo dell'intitolazione «Au Roy». A questa data del secolo diciottesimo gli apparati decorativi della dedica sono un fatto editoriale acquisito da parte delle principali tipografie europee: a l'Aja si dedicano libri sia con panoplie araldiche (1725; Fig. 77) che con un'antiporta allegorico con ritratto del mecenate (1741; Fig. 78); in Germania, a Ulm (1728; Fig. 79) e a Lipsia (1728; Fig. 80), si ricorre alla vignetta con il ritratto entro ovalino, oppure, al ritratto del patrono a figura intera come in un volume dei Concilia Germaniae stampato a Colonia (1759; Fig. 81) e dedicato all'arcivescovo di Praga. Ciò solo a titolo esemplificativo di un articolato progetto celebrativo che almeno due secoli prima aveva avuto, si è detto, il suo principale impulso dall'editoria italiana, e a cui successivamente avrebbe dato un significativo contributo l'illustrazione del libro francese. Di lì a qualche decennio l'intero edificio del mecenatismo entrava in crisi, anche in Italia dove più che altrove esso aveva prosperato, con la conseguente decadenza della moda delle dediche. Mi sia permesso concludere questo rapido percorso con una bizzarra raffigurazione di offerta dell'opera al mecenate, posta in apertura della Scuola equestre di Federigo Mazzuchelli (Milano, Giegler, 1805; Fig. 82): l'opera è indirizzata dall'autore al proprio cavallo, e del tutto parodico è anche il testo dell'epistola dedicatoria. La scena, raffigurante il Mazzuchelli con in mano un libro e al suo fianco il proprio beniamino, ripropone in chiave ironica il classico triangolo autore-opera-patrono; ma in un momento ormai dissacrante per la prassi dedicatoria.  

M. P.






Note

* Il presente contributo è il testo della mia relazione al Seminario Die Tradition der Widmung in der Neulateinischen Welt (Freiburg im Breisgau, 5-6 dicembre 2013), organizzato dal Ludwig Boltzmann Institut für Neulateinische Studien di Innsbruck. Esso costituisce un ampliamento del capitolo iv del mio libro La dedica. Storia di una strategia editoriale, Lucca, Pacini Fazzi 2009, con uno sguardo rivolto al contesto europeo, in particolare alla situazione francese. Sempre utile in proposito il riferimento a F. Calot-L.M. Michon-P. Angoulvent, L'art du livre en France, Paris, Delagrave 1931; mentre per le edizioni dedicate al cardinale Mazzarino si veda, Y. Loskoutoff, Fascis cum sideribus III. Le symbolisme armorial dans les éloges du cardinal Mazarin, ses prolongements dans les mazarinades, chez Corneille, Racine et La Fontaine, in "xviie siècle", 2002, 214, pp. 55-98.torna su