13, 2019
 
Saggi    
 
Abstract

Anna-Maria De Cesare

Le dediche nelle grammatiche volgari stampate nel Cinquecento.
Riflessioni in prospettiva storico-linguistica*



1. Introduzione
Testo strutturalmente marginale nell’economia di un’opera, che rientra nella macrocategoria dei cosiddetti peritesti (secondo la proposta di Genette 1989), la dedica è stata a lungo trascurata, in particolare nell’ambito degli studi d’italianistica. Lo statuto secondario della dedica, sia rispetto al testo vero e proprio dell’opera sia nei confronti degli altri generi testuali (in chiave della Textsortenlinguistik lo si considera talvolta un microgenere), non ne fa però ipso facto anche un genere testuale trascurabile negli studi letterari o linguistici.1 L’interesse pluridisciplinare della dedica è ormai ben noto, soprattutto per quanto riguarda i testi letterari. Se ne sono occupati, in una prospettiva di lunga durata, Paoli 2009 e Terzoli 2003: il primo, in uno studio storico-culturale sulle dediche venali prodotte in Italia tra Cinque e Ottocento; la seconda, in un percorso analitico che coglie le trasformazioni retorico-stilistiche del genere, tra Sette e Ottocento, sempre in Italia.2 La lettera dedicatoria, il sottogenere epistolare più studiato, è stata analizzata soprattutto da un punto di vista retorico e stilistico e «solo tangenzialmente da un punto di vista linguistico» (così in Matt 2014, p. 280, che rinvia per approfondimenti a Id. 2005, pp. 161-75).
Sull’ampia ed eterogena tipologia dei testi non letterari, c’è in confronto ben poco. Un’analisi della dedica nei testi non letterari risulta però preziosa da numerose prospettive. In generale, le dediche permettono di capire il contesto storico-culturale, economico ecc. in cui operano gli scrittori: informazioni di rilievo in questo senso sono fornite dall’identità del dedicatario (soprattutto quando si tratta di persone di potere: aristocratici ed ecclesiastici) e dal modo in cui l’autore (che è generalmente anche il dedicante dell’opera) mette in scena il dono dell’opera, vale a dire codifica l’atto performativo dell’offerta. Più in particolare, il testo della dedicatoria è una fonte preziosa per costruire la biografia e bibliografia dell’autore e delle persone menzionate nel testo. Il testo della dedicatoria, soprattutto quando sconfina con la tipologia peritestuale della prefazione, può anche contenere informazioni di spicco per interpretare il contenuto dell’opera, per individuare i suoi modelli e i suoi destinatari. In questo lavoro ci occupiamo delle dediche che accompagnano una tipologia di testi circoscritta: le grammatiche del volgare (toscano-fiorentino) pubblicate a stampa nel Cinquecento. Dopo una messa a punto del nostro oggetto di studio, che consisterà sostanzialmente nel definire meglio cosa intendiamo con grammatica (del volgare) e i criteri secondo i quali abbiamo costruito il corpus di opere di cui teniamo conto per il Cinquecento, proponiamo una descrizione generale di alcune caratteristiche testuali e linguistiche delle dediche presenti nelle opere del nostro corpus di riferimento (§ 2), per passare poi ad un’analisi storico-linguistica più puntuale di alcuni testi dedicatori scelti (§ 3).
2. Le dediche nelle grammatiche volgari del Cinquecento
2.1. Breve caratterizzazione della tipologia testuale studiata
In questa sede ci occupiamo delle grammatiche volgari del Cinquecento, in particolare dei testi a stampa tra il 1500 e il 1599. Si tratta, com’è ben noto, di una nuova tipologia testuale (talvolta considerata genere letterario), caratterizzata da una doppia svolta. Fino al Cinquecento, le grammatiche erano tutte sul latino e in latino, redatte da una cerchia ristretta di autori per un pubblico, anch’esso ridotto, di dotti. A partire dal Cinquecento, le grammatiche passano a codificare il volgare in volgare, rompendo con una tradizione plurisecolare.3 Le grammatiche del volgare conoscono poi una seconda svolta all’altezza del 1530 (Sanson 2011, p. 85). Da quel momento, il genere si popolarizza (Tesi 2007, pp. 209-11; Sanson 2011, cap. 2): questi testi sono indirizzati sempre più spesso a un pubblico ampio ed eterogeneo, che include la categoria dei forestieri (il termine indica i non fiorentini), dei giovani e delle donne; si tratta di un pubblico molto più differenziato di prima, che ha bisogno di strumenti didattici chiari per imparare a scrivere (o parlare) in volgare (toscano) per motivi che variano da una categoria di utenti all’altra.
Anche se appare di primo acchito molto specifica e ben circoscritta, la tipologia testuale di cui ci occupiamo in questa sede presenta in realtà dei confini assai sfumati, come mostrano anche i censimenti delle grammatiche del Cinquecento presenti nei testi di riferimento sulla questione, vale a dire Trabalza 1908; Quondam 1978 (ristampato nel 1991); Vallance 2013 e Fornara 2013.4 Limitandoci qui ai censimenti di Quondam 1978 e di Vallance 2013, che si occupano entrambi delle opere pubblicate lungo tutto il Cinquecento, notiamo che il primo contiene 82 titoli (senza contare le ristampe dei testi; ma la differenza tra ristampa e nuova edizione di un’opera non è sempre facile da tracciare e non è fatta in modo sistematico, come vedremo nel caso di Rinaldo Corso, § 3.2.2), il secondo 27 (cfr. ivi, t. i, cap. 1, pp. 17-8). L’importante scarto numerico tra i due censimenti è dovuto al modo in cui è concepita la tipologia ‘grammatica’ nei due lavori. Nell’appendice del suo saggio Nascita della grammatica. Appunti e materiali per una descrizione analitica, Quondam 1978 non si limita a censire le grammatiche in senso stretto, ma propone (come annuncia nel titolo della sua Appendice) una Bibliografia degli scritti linguistici e grammaticali delle opere pubblicate nel Cinquecento. La sua concezione di grammatica è dunque molto più ampia di quella di Vallance 2013, perché tiene anche conto di opere legate al dibattito linguistico sulla questione della lingua. Per individuare le opere grammaticali da studiare bisogna dunque fare i conti prima di tutto con il concetto di grammatica (su questo punto, mi avvalgo in gran parte delle osservazioni di Vallance 2013, pp. 20-1). Nella sua accezione tecnica, e dunque ristretta, il termine si riferisce a un’opera dotta, della tradizione erudita classica. Si tratta più precisamente di un’opera astratta e teorica, dal contenuto generalmente strutturato per argomento; nel Cinquecento sono fondamentali le parti del discorso e l’ortografia (oltre naturalmente a questioni metrico-stilistiche). In questa sede, in linea con le scelte di Vallance 2013 (e 2019) e Fornara 2013 (il primo per quanto riguarda tutto il Cinquecento, il secondo la prima metà del secolo), non ci limitiamo solo alle opere definite propriamente grammaticali (dagli stessi autori). Consideriamo invece anche i testi grammaticali che perseguono uno scopo didattico-divulgativo e che sono dunque di riflesso meno impegnativi a livello teorico, oltre a essere più brevi e schematici. Come vedremo (cfr. § 2.2.), sono testi che gli autori stessi intitolano volentieri Regole. Dato che teniamo conto sia di opere grammaticali teoriche sia di opere affini con scopo didattico-divulgativo, ci occupiamo, più concretamente, della tipologia dei trattati grammaticali. Prima di presentare il nostro corpus di testi, bisogna ancora spendere qualche parola sul termine volgare (per una riflessione puntuale su questa questione della lingua, cfr. Vallance 2013, pp. 21-60). Fino alla metà degli anni ’40 del Cinquecento, più precisamente fino alla pubblicazione della grammatica di Paolo Del Rosso (Regole osservanze, et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi, 1445), l’aggettivo volgare (che compare da solo nei titoli di molte opere grammaticali pubblicate fino a quel momento; cfr. Tabella 1, § 2.2.) si riferisce sempre a una varietà di lingua specifica: il toscano o il fiorentino (senza distinzioni nette). Gli autori della prima metà del Cinquecento non descrivono dunque il loro volgare di origine: il friulano per Fortunio; il veneziano per Flaminio, Bembo e Dolce; e così via. Questa scelta diventa più chiara, perché esplicita, dopo la pubblicazione della grammatica di del Rosso, a cominciare dai Fondamenti del parlar Thoscano di Rinaldo Corso, pubblicati nel 1549 (cfr. di nuovo i titoli delle opere incluse nella Tab. 1). Non si tratta di un dato scontato: nel Cinquecento, la maggior parte degli autori di trattati grammaticali non è di origine toscana e ha imparato il toscano come lingua seconda. Fanno eccezione, in un gruppo di una trentina di autori, solo Paolo Del Rosso, Nicolò Tani, Pier Francesco Giambullari, Michelangelo Florio e Lionardo Salviati.5
2.2. Corpus di trattati grammaticali volgari del Cinquecento
Il corpus di opere di cui teniamo conto, compilato studiando gli inventari proposti nei lavori di riferimento sulla questione (cfr. § 2.1.),6 comprende una trentina di trattati grammaticali (grammatiche o testi affini con finalità didattico-divulgativa). Nella Tabella 1 indichiamo la data della prima pubblicazione (colonna: Princeps; se l’opera esce postuma, indichiamo anche la data di morte dell’autore tra parentesi quadre), il cognome e nome dell’autore (colonna: Autore) e il titolo dell’opera (ultima colonna, nella quale segnaliamo anche i lavori di riferimento che hanno incluso l’opera in questione nel proprio inventario: Q = Quondam 1991 [1978]; V = Vallance 2013; F = Fornara 2013). I nomi degli autori e i titoli delle opere sono riportati cercando di rispettare il più possibile l’originale (con qualche adattamento nell’uso delle maiuscole e nella punteggiatura). In alcuni casi proponiamo anche delle varianti (cfr. per esempio il cognome di Acarisio) o il cognome e nome dell’autore laddove egli s’identifica attraverso il suo nome accademico (Atheneo è Marcantonio Carlino).
  Princeps Autore Titolo dell’opera
1. 1516 Fortunio, Giovan Francesco Regole grammaticali della volgar lingua (Q, V, F)
2. 1521 Flaminio, Marcantonio Regole brievi della volgar grammatica (V);
Compendio di la volgare grammatica (F)
3. 1521 Liburnio, Niccolò Vulgari elegantie (Q)
4. 1525 Bembo, Pietro Prose della volgar lingua (Q, V, F)
5. 1529 Trissino, Giovan Giorgio Grammatichetta (Q, V, F)
6. 1533 Ateneo, nome accademico di Carlino, Marcantonio La grammatica volgar dell’Atheneo (Q, V, F)
7. 1536 Acarisio [o Acharisio, Accarisio, Acarigi, Accarigi], Alberto La grammatica volgare (Q)
8. 1536 Achillini, Giovanni Filoteo Annotationi della volgar lingua (Q, V, F)
9. 1539
[1531]
Gaetano, Tizzone (detto Tizzone) La grammatica volgare trovata ne le opere di Dante, di Francesco Petrarca, di Giovan Boccaccio di Cin da Pistoia di Guitton d’Arezzo (Q, V, F)
10. 1543 Acarisio [o Acharisio, Accarisio, Acarigi, Accarigi], Alberto Vocabolario, grammatica, et orthographia de la lingua volgare (Q, V, F)
11. 1543 Alunno, nome accademico di Del Bailo, Francesco Le ricchezze della lingua volgare (Q)
12. 1545 Del Rosso, Paolo Regole Osservanze, et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi (Q, V, F)
13. 1545 Gabriele [Gabriel/Cabriele], Iacomo Regole grammaticali, non meno utili, che necessarie a coloro, che dirittamente scrivere, ne la nostra natia lingua si dilettano (Q, V, F)
14. 1549 Corso, Rinaldo Fondamenti del parlar thoscano (Q, V, F)
15. 1550 Dolce, Lodovico Osservationi nella volgar lingua (Q, V, F)
16. 1550 Tani, Nicolò Avertimenti sopra le regole Toscane con la formatione de verbi, & variation delle voci (Q, V, F)
17. 1551/2? Giambullari, Pier Francesco Regole della lingua fiorentina (Q, V, F)
18. 1555 Matteo di San Martino Le osservationi grammaticali e poetiche della lingua italiana (Q, V, F)
19. 1560 Alessandri, Giovanni Mario Il paragone della lingua toscana et castigliana (Q, V)
20. 1560
[1544]
Delminio, ovvero Camillo, Giulio Grammatica (Q, V)
21. 1563 Castelvetro, Lodovico Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di messer Pietro Bembo (Q, V)
22. 1567 Toscanella, Orazio Institutioni grammaticali volgari et latine (Q)
23. 1568 Menni, Vincenzio Regole della thoscana lingua, con un breve modo di comporre varie sorti di rime (Q, V)
24. 1570 Labella, Girolamo Regola della lingua toscana (Q)
25. 1572 Accetto, Reginaldo Il tesoro della volgar lingua (Q, V)
26. 1575 Bini, Bernardino Regole volgari in dialogo (Q)
27. 1581
[1566]
Ruscelli, Girolamo De’ commentarii della lingua italiana (Q, V)
28. 1584 Bartoli, Giorgio Degli elementi del parlar toscano (Q)
29. 1586 Salviati, Lionardo Del secondo volume degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone (Q, V)
Tabella 1: Corpus di trattati grammaticali in volgare pubblicati nel Cinquecento La lista di opere proposta nella Tab. 1 si apre con le Regole grammaticali della volgar lingua di Fortunio, la prima grammatica sul volgare in volgare mai pubblicata, che risale al 1516, e si chiude con l’opera intitolata Del secondo volume degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone di Salviati, pubblicata nel 1586.7 L’elenco include, come già detto, solo le opere che si possono considerare a tutti gli effetti come trattati grammaticali. Non distinguiamo in modo sistematico, come propone Tesi (2007, p. 210), tra grammatiche con e senza finalità didattico-divulgativa. È comunque ben noto che molte opere grammaticali del Cinquecento non sono altro che un compendio di due altre grammatiche: il Compendio di la volgare grammatica di Flaminio (1521) propone una versione semplificata delle Regole grammaticali del Fortunio (1516); La grammatica volgare di Acarisio (1536) compendia il terzo libro delle Prose della volgar lingua del Bembo (1525). Anche la Grammatica di Delminio (1560) è un’opera scolastica che ha finalità didattiche: si tratta di un breve prontuario per la scuola, forse risalente ai primi anni d’insegnamento dell’autore (Stabile 1974, p. 225). I testi inclusi nel corpus non trattano poi necessariamente tutto il ventaglio di argomenti grammaticali pertinenti all’epoca; come indica per esempio già il titolo del volume Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di messer Pietro Bembo (1563), l’opera di Lodovico Castelvetro si concentra solo su due parti del discorso. Qualche osservazione più puntuale sulle scelte operate. A differenza di Vallance 2013 e Fornara 2013, abbiamo incluso nel corpus le Vulgari elegantie (1521) di Niccolò Liburnio, un’opera composta di tre libri che affrontano questioni di retorica, ortografia e morfologia. Nell’opera, la materia grammaticale è dunque tematizzata, anche se ha meno peso rispetto a quella retorica, e il suo trattamento è “svolt[o] senza alcun ordine e sistematicità” (così in Mammana 2005, p. 66). Sempre a differenza di Vallance 2013 e Fornara 2013, abbiamo anche incluso nel corpus Le ricchezze della lingua volgare (1543) di Francesco Alunno, che secondo il giudizio di Trabalza contiene poco di grammaticale (Trabalza 1908, pp. 117-8), perché si configura piuttosto come un lessico (Tesi 2007, p. 212), ma che presenta un’appendice intitolata Regolette particolari della volgar lingua, ristampata poi insieme ad altri testi grammaticali del Cinquecento negli Auttori del bel parlare (1643) di Giuseppe degli Aromatari, e definita «breve grammatica» anche nell’ottica della critica contemporanea (il testo è così definito in Piscini 1988). In linea invece con Vallance 2013 e Fornara 2013, abbiamo poi scelto di includere nel corpus opere che non si occupano del solo volgare toscano, ma tengono anche conto di un’altra lingua o varietà di lingua: latino, nel caso di Toscanella (1567), e castigliano, nel caso di Giovanni Mario Alessandri (1560). Sull’ultima opera menzionata va sottolineato un dato importante: si tratta della prima grammatica comparata a noi nota. Nella selezione delle opere da considerare abbiamo invece escluso i testi che si occupano, più in generale, di questioni della lingua (per questo motivo, la nostra lista è molto più corta di quella proposta in Quondam 1991 [1978]). Abbiamo per esempio escluso Degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone. Volume primo (1584) di Leonardo Salviati, ma incluso il secondo volume dell’opera (1586), che tratta di questioni più strettamente grammaticali, come le parti del discorso (nome, aggettivo, articolo, preposizione). Per lo stesso motivo, abbiamo escluso l’opera Ragionamenti della lingua toscana (1545) di Bernardino Tomitano (considerato solo in Quondam 1978). Abbiamo poi escluso le opere che sono da ricondurre alla tipologia dei lessici, in particolare la Fabrica del mondo (1548) di Francesco Alunno, considerata «il primo vocabolario metodico della lingua» (Marcato s.a.), nella quale l’autore registra le voci di Dante, Petrarca, Boccaccio (e alcuni altri), e Le tre fontane (1526) di Niccolò Liburnio, ritenuta a sua volta «il più remoto manuale di concordanze delle parti del discorso adoperate dai grandi trecentisti», che presenta «lunghe serie di registri alfabetici delle “voci più polite et limate” dei tre autori» (Mammana 2005, p. 67). Non incluse nel corpus sono inoltre le antologie di opere grammaticali, pubblicate senza cambiamento rispetto agli originali, come Le osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri, cioè del Bembo, del Gabriello, del Fortunio, dell’Accarisio, et di altri scrittori (1560), compilata da Francesco Sansovino; o con cambiamenti minimi, come le Regole de la lingua toscana con brevità, chiarezza e ordine (1572) di Giovanni da San Demetrio (che solo Quondam 1978 include nel suo catalogo). Infine, non abbiamo tenuto conto dei testi redatti nel Cinquecento ma pubblicati più tardi, come le Regole della lingua thoscana di Michelangelo Florio, uscito a stampa per Pellegrini solo nel 1954 (Perini 1997), e le Regole della toscana favella di Lionardo Salviati, pubblicato da Antonini Renieri nel 1991.
2.3. Le dediche nei trattati grammaticali volgari del Cinquecento
Prima di descrivere le dediche presenti nei trattati grammaticali volgari del Cinquecento (§ 2.3.2) proponiamo una breve storia della dedica dal Due- al Cinquecento (§ 2.3.1.).

2.3.1. Breve storia della dedica dal Due- al Cinquecento
Non è facile datare l’atto di nascita della tipologia dedica (sulla nascita del sistema, cfr. Paoli 2009, pp. 15-20; sui modelli che sottendono il genere dal Medioevo in poi, cfr. invece Brugnolo/Benedetti 2004). Secondo gli studiosi, la prima epistola encomiastica (il cui dedicatario è però anonimo, anche se le espressioni che lo denotano, «valente segnore» di «alto legnaggio», fanno chiaramente riferimento all’origine nobile della persona in questione) è nel Tesoretto di Brunetto Latini (XIII sec.). In quanto genere testuale, la dedica trova comunque la sua origine e i suoi modelli nel mondo classico (Genette 1987, pp. 115 sgg.) e nelle lettere latine (il termine epistola tradisce il legame con il modello: Görlach 2004, p. 117).
Nei testi manoscritti del Medioevo (per cui si veda di nuovo Brugnolo/Benedetti 2004), e ancora fino all’Umanesimo, la dedica si trova generalmente o nel testo vero e proprio dell’opera o in un paratesto, in particolare nel prologo o apologo (ivi, p. 15). A quest’altezza cronologica, la dedica s’iscrive in una duplice dinamica: il dono materiale dell’esemplare manoscritto (Paoli 2009, pp. 16, 20) e il dono simbolico del contenuto dell’opera. La dedica, in questo caso, è un atto ‘privato’ tra dedicante e dedicatario. Non è tuttavia sempre facile distinguere tra dedicatario e destinatario dell’opera (Brugnolo/Benedetti 2004, p. 16). La pratica della dedica si diffonde e istituzionalizza nel Quattrocento, per via del ruolo centrale svolto dai mecenati per gli scrittori operanti nelle corti: in uno scambio simbolico che può essere sintetizzato come ‘alloro-oro’, ‘penna-spada’, gli autori dedicano la loro opera a una schiera di uomini illustri (sovrani, pontefici e cardinali, aristocratici) in cambio di soldi, favori, protezione, anche del proprio ruolo di scrittore. È in questo periodo storico che si convenzionalizza la forma della dedica, soprattutto quella cosiddetta venale, nella quale il dedicante (autore, ma non solo) si rivolge a potenti per ottenere protezione e ricompense. Le convenzioni retorico-linguistiche del genere trovano il loro modello più spiccato nel modulo della laudatio (come fonte d’ispirazione classica si cita il carme 49 che Catullo dedica a Cicerone), in particolare nell’adulazione iperbolica e ipertrofica del dedicatario (delle sue virtù, doti, titoli ecc.). Fa da contraltare l’abbassamento dell’autore e della sua opera (Terzoli 2003). Il sistema che nasce nell’era pretipografica regolerà per tre secoli i testi delle dediche. Un successivo consolidamento e al tempo stesso evoluzione del genere si ha nel Cinquecento, con l’avvento della stampa. L’atto della dedica diventa pubblico, è messo in scena in modo esibito e ostentato (Genette 1989, p. 132). L’ostentazione dell’atto è anche potenziata dalla posizione che viene a occupare il testo all’interno dell’opera. Già nelle prime Cinquecentine si osserva l’emancipazione del genere: il testo della dedica si sgancia dal testo vero e proprio, o da una componente del paratesto, per diventare enunciato autonomo, collocato immediatamente dopo il frontespizio dell’opera (sul controfrontespizio o, com’è più spesso il caso, su una nuova pagina). L’autonomia del testo e la sua collocazione liminare nell’opera sono spie del rilievo che assume non solo il contenuto della dedica, ma più generalmente anche il genere testuale stesso: dal Cinquecento in poi questa tipologia gioca un ruolo socio-culturale di spicco. Alla stregua delle dediche nei testi manoscritti del Quattrocento, il dedicante chiede protezione (materiale, sociale, intellettuale) al dedicatario offrendoli in modo simbolico il contenuto della sua opera e l’immortalità.
2.3.2. Le dediche nel corpus di trattati grammaticali volgari del Cinquecento: caratteristiche generali
Le dediche incluse nei trattati grammaticali volgari del Cinquecento (repertoriate nella Tabella 1, § 2.2.) presentano numerose somiglianze, ma anche alcune differenze importanti. Per capire meglio le caratteristiche delle dedicatorie delle opere repertoriate, proponiamo una prima descrizione generale di questi testi, soffermandoci su una serie di tratti relativi al dedicante, al dedicatario e alla dedica stessa.8
La Tabella 2 propone una prima serie di informazioni di base sulle dedicatorie, seguendo per buona parte le norme terminologico-concettuali fissate nell’Archivio Informatico della Dedica Italiana (detto aidi):9
  Data: si segnala la data dell’edizione consultata (in generale, la princeps); la data seguita da un asterisco significa che il testo della dedica è riprodotto e trascritto in AIDI (si tratta a volte di un’edizione successiva alla prima);
  Dedicante: cognome del dedicante (o dedicanti, laddove ve ne siano più di uno); quando autore e dedicante non coincidono, si indica anche il nome del dedicante e il rapporto che lo lega all’autore o all’opera; per le opere senza dedica, si indica tra parentesi quadre il cognome dell’autore dell’opera;
  Dedica: si segnala la presenza/assenza di dedica nell’opera (il secondo caso è indicato con ‘sine dedica’; i punti interrogativi, anche presenti nella colonna successiva, sono informazioni mancanti); quando è presente una dedica, si indica anche la sua tipologia (dedica epistolare o titolo dedicatorio) e la sua collocazione nell’opera; si fornisce infine, a titolo meramente indicativo, il numero delle pagine su cui si estende il testo dedicatorio;
  Dedicatario: nome e cognome; pseudonimo ecc., accompagnato dai titoli (si tratta delle informazioni fornite nell’opera).
  Data Dedicante Dedica Dedicatario
1. 1516 [Fortunio] sine dedica -
2. 1521 Flaminio dedica (epistolare?) Messer Domenigo
Evangelista Imolese
3. 1521 Liburnio dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; 3pp Nobile, & Dottrinato M.
Marco Mollino
4. 1525* Bembo titolo dedicatorio; a inizio di ognuno dei tre Libri e sul frontespizio Cardinale de Medici
Papa Clemente VII
5. 1529 [Trissino] sine dedica -
6. 1533 Carlino dedica epistolare in latino Signor Fabricio Giesualdo, Conte illustre di Consa (V)
7. 1536
[1543*]
Acarisio dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; 1p Conte Giulio Boiardo, Signore di Scandiano
8. 1536 Achillini ? ?
9. 1539* Gaetano, Libero (cugino dell’autore) dedica epistolare; verso del frontespizio; 1p
+ breve dedica interna
Donna Dorotea di Gonzaga, Marchesa di Botonto
10. 1543 Acarisio dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; 2pp Reverendo Monsignore messere Iacomo da Flisco, eletto di Savona (V)
11. 1543* Del Bailo [detto Alunno] dedica epistolare; tra due peritesti; 1p Monsignore Alessandro
Farnese, Cardinale
12. 1545 Domenico Gamucci (editore) Giovanni Tommaso Cimello (co-autore?) dedica epistolare; dopo il frontespizio; 2pp

breve dedica in latino; ultima pagina dell’opera; 2 righe
Signor Giovanvicentio Belprato, Conte d’Aversa, in Apruzzo

idem
13. 1545 Gabriele titolo dedicatorio, a inizio testo Messer Luca Pollani
14. 1549* Corso dedica epistolare; tra frontespizio e testo; 2pp Hiparcha
15. 1550* Dolce dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; 3pp Giovambattista D’Azzia,
Marchese della Terza
16. 1550 Tani ? Mag. Sig. Giovanni
Buccitelli Francese (V)
17. 1552?* Giambullari dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; 4pp Principe, Signor Don Francesco de’ Medici
18. 1555* Matteo di San Martino dedica epistolare 1; tra frontespizio e testo; 7pp
dedica epistolare 2; Parte II, prima pagina; 4pp
Monsignor Alessandro Cardinal Farnese
Jean Du Bellais
19. 1560 Alessandri dedica epistolare; tra frontespizio e testo; 6pp S. Don Antonio D’Aragona, Duca di Montalto
20. 1560 [Delminio] sine dedica (V) -
21. 1563 [Castelvetro] sine dedica (V) -
22. 1567
[1626*]
Toscanella dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto, 4pp. Messer Giovanni Giolitto
23. 1568 Menni ? ?
24. 1570 Labella ? ?
25. 1572 Accetto ? ?
26. 1575 Bini ? ?
27. 1581* Ruscelli, Vincenzo (zio dell’autore) dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; 2pp Signore Iacomo Boncompagno, Duca di Sora e Governatore Generale di Santa Chiesa
28. 1584* Bartoli dedica epistolare; tra due peritesti; 2pp Lorenzo Giacomini Tebalducci Malespini
29. 1586 Salviati dedica epistolare; tra frontespizio e altro peritesto; Reverendo Padre Francesco Panigarola
Tabella 2: Le dediche nel corpus di trattati grammaticali del Cinquecento (cfr. Tab. 1 per dettagli). La maggior parte delle opere che abbiamo potuto consultare (22 testi su un totale di 29) include una dedica (a volte anche due dello stesso dedicante, come in Corso 1549, o di due dedicanti diversi, come in Del Rosso 1545; ritorneremo sui due casi nel § 3). Sono 19 (su 23) le opere che presentano una dedica e quattro quelle che non ne presentano. Si tratta più in particolare di Fortunio (1516), Trissino (1529), Delminio (1560) e Castelvetro (1563). Queste opere si distribuiscono lungo gran parte del Cinquecento: l’assenza di dedica non può dunque essere ricondotta in modo chiaro a motivi cronologici. Può di primo acchito sorprendere non trovarne traccia nelle due opere della seconda metà del Cinquecento, quando il genere testuale della dedica è ormai consolidato e diventa praticamente d’obbligo (su questo punto, cfr. § 2.3.1.). Il motivo per cui le due opere non contengono dedica è però chiaro: l’opera è postuma nel caso di Delminio, mentre è redatta da un uomo perseguitato per la sua fede religiosa nel caso di Castelvetro. Dobbiamo anche rimarcare che lo statuto dei testi che aprono le opere incluse nel nostro corpus di trattati grammaticali non è sempre univoco. Nella bibliografia consultata c’è per esempio anche chi considera il peritesto intitolato «Agli studiosi della regolata volgar lingua» che apre la grammatica del Fortunio (1516) una dedica (è così secondo Fornara 2005 e 2013; è anche così per Vallance 2013, t. iii, Annexe 0, p. 1; altrove però Vallance si riferisce a questo peritesto con il termine préface, t. i, cap. 1, p. 21). Per capire meglio lo statuto di questo testo è importante considerare il suo contenuto. L’incipit inizia in questo modo:
(1) Soleva io nella mia verde etade, sincerissimi lettori miei, quanto di otioso tempo dallo essercitio mio delle civili leggi mi venia concesso, tanto nella lettura delle volgari cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, dilettevolmente ispendere. E scernendo tra’ scritti loro, li lumi dell’arte poetica e oratoria, non meno spessi, che a noi nella serena notte, si mostrino le stelle, e non con minor luce che in qualunque più lodato auttore latino, risplendere, non mi potea venir pensato che sanza alcuna regola di grammaticali parole, la volgar lingua così armonizzatamente trattassono (Fortunio, 1516).
Fortunio chiarisce subito che gli studiosi della lingua volgare sono i lettori. Si tratta, a nostro parere, dei destinatari, non dei dedicatari dell’opera. Gli argomenti a favore dell’ipotesi che gli studiosi della regolata volgar lingua non siano i dedicatari dell’opera sono molteplici. Prima di tutto, c’è il fatto che di norma destinatario e dedicatario sono due figure diverse (anche se non sempre chiaramente distinguibili, almeno nei manoscritti del Medioevo; su questo punto, cfr. § 2.3.1.), e che il dedicatario coincide di solito con una sola persona e non, come in questo caso, con un gruppo, per giunta indefinito, di persone. A favore dell’idea che gli studiosi della volgar lingua non siano i dedicatari dell’opera di Fortunio vi sono anche argomenti retorico-linguistici. L’intestazione del peritesto («Agli studiosi della regolata volgar lingua») si discosta da quella delle dediche del corpus (e non solo di quelle) per un tratto importante, che non manca quasi mai: non contiene infatti il sintagma che codifica il nome dell’autore-dedicante (sui moduli sintattici presenti nelle intestazioni delle dediche del corpus, cfr. § 3.1.). Il nome dell’autore non compare neanche alla fine del testo, sotto forma di firma. Inoltre, nel peritesto che apre la grammatica di Fortunio è assente un momento fondamentale, che definisce la funzione pragmatica del genere ‘dedica’: quello dell’atto performativo del dedicare (su questo punto, cfr. di nuovo § 3.1.). Il testo di Fortunio contiene invece una riflessione sulla genesi e il contenuto dell’opera. Diremo dunque, in parte in linea con Vallance 2013, che il testo intitolato «Agli studiosi della regolata volgar lingua», che apre la grammatica del Fortunio, è una lettera prefatoria. Vediamo ora più da vicino le dediche delle opere che ne presentano una, iniziando con qualche considerazione generale: la prima dedica pubblicata nel Cinquecento in un testo grammaticale sul volgare è di Niccolò Liburnio (1521), seguita da quella di Pietro Bembo (1525).10 Va poi detto che in queste opere, come in quasi tutti gli altri casi presenti nel corpus, la dedica è redatta in volgare (fa eccezione solo la dedica di Carlino 1533, scritta in latino). Questo dato è importante perché permette di osservare che gli autori dei trattati grammaticali in e sul volgare rompono subito, e in blocco, anche con un’altra tradizione plurisecolare. Il volgare è immediatamente ritenuto abbastanza aulico e prestigioso anche per rivolgersi direttamente a una persona di potere, perfino quando occupa un rango elevato nella Santa Chiesa (sia la dedica di Pietro Bembo al Papa Clemente VII sia quella di Francesco Del Bailo al Cardinale Alessandro Farnese il Giovane sono in volgare). Rinunciare al latino significa anche rendere il testo della dedicatoria accessibile a una cerchia molto più ampia di lettori. Per quanto riguarda il dedicante, si può notare che si tratta generalmente dell’autore dell’opera, tranne che in tre casi: scrive Libero Gaetano (cugino dell’autore) la dedica dell’opera di Tizzone Gaetano (1539); firma poi Domenico Gamucci (editore dell’opera) la dedica dell’opera di Del Rosso (1545); firma infine Vincenzo Ruscelli (nipote dell’autore) la dedica di quella di Girolamo Ruscelli (1581). I motivi sono principalmente due: o l’opera è pubblicata postuma, dopo la morte dell’autore (come nel caso di Gaetano e di Ruscelli) o è pubblicata da qualcun altro perché l’autore è in esilio all’estero (è così per Del Rosso). Per quanto riguarda poi i dedicatari delle opere, si osserva che pure gli autori dei trattati grammaticali del Rinascimento (che sono spesso anche letterati) hanno necessità di chiedere protezione a una persona importante. Le informazioni raccolte mostrano che si tratta tendenzialmente di (uomini) potenti e illustri: membri dell’aristocrazia (principi, conti, marchesi, duchi) o della Santa Chiesa (Papi, Cardinali, Reverendi, Governatori Generali). Si chiede talvolta protezione allo stesso mecenate: il Cardinale Alessandro Farnese il Giovane, noto mecenate del Cinquecento, è il dedicatario di due opere diverse: a lui è indirizzata la dedica della Grammatica volgar dell’Atheneo (1529), nome accademico di Marcantonio Carlino; sempre a lui sono dedicate le Osservationi grammaticali e poetiche della lingua italiana (1555) di Matteo di San Martino. Dall’inventario proposto nella Tab. 2 spicca però un caso molto diverso: si tratta della dedica di Rinaldo Corso a una misteriosa Hiparcha (torneremo su questa dedica nei §§ 3.2.1 e 3.2.2.). Passando alle caratteristiche della dedicatoria, si può evidenziare una grande omogeneità tipologica. La forma più diffusa nei trattati grammaticali del Cinquecento, presente ab initio (nell’opera di Liburnio 1521), è la dedica epistolare, che si pone in posizione liminare all’opera, dopo il frontespizio. Si tratta più precisamente di una dedica che ha la forma di lettera. Ne contiene tanto le microstrutture linguistiche (pensiamo in particolare alle forme allocutive) quanto le macrocomponenti testuali: si apre con un’intestazione (o titolazione) e si chiude talvolta anche con la firma dell’autore; nel nostro corpus, la prima componente è sempre presente, mentre l’ultima viene spesso a mancare. Solo due opere non presentano dedica epistolare: nelle Prose della volgar lingua (1525) di Bembo e nelle Regole grammaticali (1545) di Gabriele si trovano titoli dedicatori, vale a dire titoli in cui è presente un atto di dedica. Le Prose di Bembo includono quattro occorrenze di dedica: la prima occorrenza, presente sul frontespizio dell’opera, si intreccia al titolo e al nome dell’autore-dedicante (cfr. punto 2); le altre tre occorrenze (riprodotte al punto 3) si trovano invece nel titolo di ognuno dei tre Libri di cui si compone l’opera (si tratta dunque di dediche di parti specifiche dell’opera). La dedica del frontespizio reca l’informazione aggiuntiva «che poi è stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente VII».
(2) Prose di M. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della Volgar lingua scritte al Cardinale de Medici che poi e stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente VII (Bembo 1525, titolo sul frontespizio dell’opera).
(3) DI MESSER PIETRO BEMBO A MONSI /11 GNORE MESSER GIULIO CARDINALE / DE MEDICI DELLA VOLGAR LINGUA (Bembo 1525, titolo libri i, ii, iii)
3. Analisi storico-linguistica delle dediche nei trattati grammaticali volgari del Cinquecento
3.1. Codificazione linguistica dell’atto del dono
Come già indicato (§ 2.3.1.), con il testo a stampa cambia un aspetto fondamentale nel sistema dedicatorio in vigore fino alla metà del Quattrocento: la dedica nell’era di Gutenberg non è più un dono privato, che sancisce un patto tra dedicante (autore) e dedicatario (tipicamente il mecenate); essa diventa testo pubblico, accessibile a tutti i lettori dell’opera. L’accesso al contenuto della dedica da parte di una cerchia allargata di persone amplifica enormemente la «funzione comunicazionale» della dedica (cfr. Paoli 2009, pp. 17, 19) e favorisce la retorica ampollosa che caratterizza il genere soprattutto nei due secoli successivi al Cinquecento.
La veste retorico-formale della dedica stampata nei trattati grammaticali del Cinquecento (ma non solo) poggia su un insieme relativamente codificato di tratti grafici e linguistici, legati alla funzione pragmatica principale che il testo è chiamato a svolgere: il dono simbolico del contenuto dell’opera, conseguito attraverso un atto performativo di offerta. Nel suo nucleo essenziale (ma linguisticamente completo), questa funzione enunciativa è realizzata da una struttura sintattica astratta schematizzabile nel modo seguente:
(4) X dedica a Y l’opera Z
La struttura sintattica in (4) contiene un verbo trivalente (dedicare), che coinvolge cioè tre attanti: il dedicante (che coincide con il soggetto sintattico), il dedicatario (il complemento oggetto indiretto) e l’opera dedicata (il complemento oggetto diretto). Nelle dedicatorie analizzate (ma questa osservazione varrà sicuramente anche al di là dei trattati grammaticali), questo schema non si presenta chiaramente mai in questa forma, né nelle intestazioni (o titolazioni) né nel corpo del testo. Nelle titolazioni dedicatorie presenti nel corpus (includiamo qui anche i titoli dedicatori), riprodotte ai punti (5)-(18), l’atto performativo dell’offerta schematizzato in (4) ha una realizzazione fissa: sono codificati linguisticamente o il dedicante e il dedicatario (che è il caso più frequente) o il solo dedicatario (in quest’ultimo caso, l’identità del dedicante può essere sciolta dalla firma, come per esempio nelle dedicatorie di Giambullari e di Dolce, oppure non essere svelata nelle dedicatorie, come nei testi di Del Bailo e Matteo di San Martino). In tutti i casi, rimangono invece impliciti sia l’oggetto del dono (l’opera e il suo contenuto) sia il verbo che codifica l’atto performativo dell’offerta (e coincide con il nucleo sintattico della struttura). Il testo delle titolazioni dedicatorie coincide dunque con un enunciato nominale (privo di verbo temporalizzato), composto di almeno un sintagma nominale e/o preposizionale. Questo modulo sintattico-enunciativo mette in forte rilievo il rapporto tra dedicante e dedicatario o la sola figura del secondo, quando è l’unica componente dello schema in (4) a essere codificata, com’è il caso per esempio nell’intestazione di Del Bailo (punto 9).12 In generale si osserva poi che il nome del dedicatario è accompagnato, oltre che dai suoi titoli nobiliari e/o ecclesiastici, da aggettivi di encomio e deferenza, basati su espressioni elative (illustre, illustrissimo/a, eccellentissimo/a, reverendissimo, gentilissimo, studiosissimo).13
(5) Al Nobile, & Dottrinato M. Marco Mollino, Del / Chiarissimo M. Luigi Di San M. Procura / tore Sapi{en}tissimo, Nicolao Liburnio (Liburnio, 1521).
(6) DI MESSER PIETRO BEMBO A MONSI / GNORE MESSER GIULIO CARDINALE / DE MEDICI DELLA VOLGAR LINGUA (Bembo, 1525).
(7) L’ACHARISIO ALL’ILLU / stre Signor Conte Giulio Boiardo, / Signore di Scandiano (Acarisio, 1543 [prima ed. 1536]).
(8) Ala Illustris. {et} Eccelltis. Donna Dorothea di / Gonzaga Marchesana di Botonto Libero / Gaetano di pofi da Tarracina (Libero Gaetano in Tizzone Gaetano, 1539).
(9) ALLO ILLUSTRISSIMO ET REVERENDISSIMO MONSIGNOR / ALESSANDRO FARNESE CARDINALE (Del Bailo, 1543).
(10) AL .S. GIOVANVICENTIO BELPRA / TO Conte d’Aversa. In Apruzzo. / Domenico Gamucci (Gamucci in Del Rosso, 1545).
(11) AD HIPARCHA / sua rinaldo / corso (Corso, 1549).
(12) ALLO ILLUSTRISSIMO / signor giovambattista / d’azzia marchese del / la terza (Dolce, 1550).
(13) ALLO ILLUSTRISS. / ET ECCELLENTISS. / PRINCIPE IL S. DON / Francesco de Medici: Pri / mogenito del S. Duca / di Firenze. / Signor suo osservandißimo (Giambullari, 1552?).
(14) AL ILLUSTRISSIMO ET / REVERENDISS. SIGNOR MIO / Osservandiss. Monsignor Alessandro / Cardinal Farnese / dignissimo (Matteo di San Martino, 1555).
(15) ALL’ILLUSTRISSIMO ET / ECCELLENTISSIMO / SIGNORE IL S. DON / ANTONIO D’ARA / GONA DUCA / DI MONTALTO. / gio. mario alessandri (Alessandri, 1560).
(16) AL GENTILISSIMO / et studiosissimo / M. GIOVANNI GIOLITTO. / Oratio Toscanella (Toscanella, 1626 [prima ed. 1567]).
(17) ALL’ILL.MO ET ECCEL.MO / signore, / IL SIGNOR IACOMO / BONCOMPAGNO, / Duca di Sora, {et} Governator Generale / di Santa Chiesa (Ruscelli, 1581).
(18) cosmo bartoli / A LORENZO / giacomini tebalducci / malespini. / Desidera Felicità (Bartoli, 1584).
Le titolazioni dedicatorie presenti nei trattati grammaticali del corpus realizzano strutture sintattiche che variano in modo minimale: nella forma più consueta, che poggia su due componenti, la prima posizione è occupata dal nome del dedicatario, e si declina nelle due varianti ‘a x [dedicatario] y [dedicante]’, quella di gran lunga più frequente, scelta da sei autori, per esempio da Gaetano (7), e ‘a x [dedicatario] di y [dedicante]’, presente solo in Liburnio (5); meno rappresentato il secondo modulo, in cui il dedicante si presenta per primo, sia nella struttura ‘x [dedicante] a y [dedicatario]’, utilizzata da Acarisio (8) e Bartoli (18), sia in quella ‘di x [dedicante] a y [dedicatario]’, scelta unicamente da Bembo (6). L’atto performativo dell’offerta è codificato in modo esplicito anche all’interno del testo della dedica epistolare. Nelle lettere dedicatorie presenti nei trattati grammaticali del corpus analizzato si trova un paradigma relativamente ampio di predicati legati all’atto del dono. Accanto al verbo dedicare (di cui la prima attestazione nel senso di «opera letteraria offerta in atto di omaggio» risale al 1499; su questo punto, cfr. Brugnolo/Benedetti 2004, p. 30), troviamo intitolare, indirizzare e consacrare o anche il più neutro verbo dare (cfr. il campione proposto sotto); nel nostro corpus di dedicatorie, si trovano anche i verbi mandare e presentare, tipici delle dediche del Medioevo, che fanno riferimento in primo luogo all’invio e alla presentazione dell’oggetto regalato, vale a dire del manoscritto. In più di un’occasione, con l’uso del verbo accettare, l’autore fa anche riferimento alla risposta del dedicatario, auspicando l’accettazione del dono.
(19) […] laquale prego, che voglia il mio patrocinio pigliare, et accettare questo vile dono delle mie faticuzze, ch’hora maggiore darle non posso (Acarisio, 1543 [prima ed. 1536]).
(20) {et} subito che fu in mio potere mi v{en}ne in memoria di havere inteso piu volte da colui che la fece, l’animo suo essere stato d’intitolare essa {et} ogn’altra sua fatica a V. I. S. […] seguir la sua vol{on}ta, come in dedicarla a V. S. I. la quale in simile {et} in ogni altra cosa, di tutto core disidero servire (Gaetano, 1539).
(21) Et pero (dovendo eleggerlo, et tale, che non solamente mi difendesse da morsi della invidia, ma col splendore del suo nome illustrasse ancho la scurità del mio) ho eletto voi, Illustriss. S. mio, lume singularissimo di questa età, a cui, piu che ad altri dovessi indirizzare questa mia opera. La Illustrissima S. vostra adunque, si degni raccogliere i frutti della lingua volgare, prodotti dalle fatiche del suo Alunno (Alunno, 1543).
(22) À voi mando carißima giovane questo dono, perche l’amore, che portato m’havete, {et} la fermezza, {et} l’honesta vostra l’han meritato (Corso, 1549).
(23) Onde ho preso ardire di consacrare al suo nome queste mie humili fatiche (Dolce, 1550).
(24) Le presento questo mio parto. […] Le piaccia oltra lo accettarlo con quella benignità, che da la generosità del suo Illustrißimo sangue le viene, {et} come la prima, od almeno de le prime cose a lei dedicata (Giambullari, 1552).
(25) Per il che le predette mie fatiche consecrar al vostro eterno nome, sperando dalla innata vostra bontà onde che con grata amorevolezza beneficar procurate a ciascuno che vi / richieda, {et} onde che amar vi fate e reverire infino da gli inimici, che accettar debbiate piu il buon voler mio che effetto alcuno che da me riuscir ne possa (Matteo di San Martino, 1555).
(26) nè ho havuto dubio alcuno a chi dovessi dedicarla. Percioche hav{en}do io molto prima dedicato me stesso col pensiero a V. Eccel. Illust. per la molta virtù, {et} valore, che si sparge del nome suo, mi pareva, benche non conosciuto / da lei in altra occasione, di non dovermi voltare altrove, […] Degnisi dunque d’accettar quest’opera, {et} con essa la devotione dell’animo mio (Ruscelli, 1581).
3.2. Le dediche in prospettiva storico-sociale
I testi delle dedicatorie contengono una miniera d’informazioni di cui vale la pena tenere conto, oltre che da un punto di vista linguistico, anche in una prospettiva storico-culturale. Basandoci sempre sui trattati grammaticali a stampa in e sul volgare (toscano) del Cinquecento, menzioneremo tre aspetti degni di nota, relativi alla paternità dell’opera e alla sua genesi.
3.2.1. Chiarimento sulla paternità dell’opera
Le dedicatorie possono contribuire a chiarire la paternità di un testo, soprattutto nei casi in cui il nome dell’autore non compare sul frontespizio dell’opera. Nella prima metà del Cinquecento, i casi in cui il frontespizio non reca il nome dell’autore non sono rari: si può citare, seguendo Vallance (2009, p. 48), la Grammatica volgar dell’Atheneo (1533), redatta da Marcantonio Carlino, che si cela dietro il suo nome accademico e svela la sua identità nella dedica in latino (Fabricius Iesualdus / M. Antonio Atheneo Carlino; cfr. ibid.); si possono poi citare le grammatiche di Gaetano (1539), di del Rosso (1545) e di Corso (1549), tutte e tre uscite anonime.
Soffermiamoci dapprima sul caso di Gaetano (1539). Il nome dell’autore manca del tutto sul frontespizio dell’opera, intitolata La grammatica volgare trovata ne le opere di Dante, di Francesco Petrarca, di Giovan Boccaccio di Cin da Pistoia di Guitton d’Arezzo, e pubblicata a Napoli da Giovanni Sulzbach (cfr. Fig. 1). Si tratta di una grammatica pubblicata postuma per volere di Libero Gaetano di Pofi da Tarracina, il cui nome compare due volte nella dedica epistolare: una volta nell’intestazione, sotto forma del sintagma nominale complesso Libero Gaetano di Pofi da Tarracina (cfr. la trascrizione proposta al punto 8 e la riproduzione della dedica in Fig. 2), l’altra in chiusura della dedicatoria, semplicemente come Libero Gaetano. Il nome dell’autore della grammatica non compare invece neanche nella dedica, indirizzata alla Marchesa Dorotea di Gonzaga (su questa figura aristocratica, cfr. Audisio 1978, p. 11, e Sanson 2011, pp. 93-4). Nella dedica epistolare, il denominato Libero Gaetano si limita a menzionare l’autore in termini generici (si vedano le parti da noi messe in rilievo con il corsivo, in particolare la perifrasi «colui che la fece»):
(27)   DOpo molti anni é piaciuto a colui che po il tutto di farmi {per}venire ne le mani {que}sta volgare gr{am}matica, {et} subito che fu in mio potere mi v{en}ne in memoria di havere inteso piu volte da colui che la fece, l’animo suo essere stato d’intitolare essa {et} ogn’altra sua fatica a V. I. S. Et {per}ció p{en}sai (ritrov{an}domi quá appresso a lei) di farla imprimere, {et} in un medes[i]mo t{em}po far tre buoni effetti. Il primo de li quali é di sodisfare al volere di colui che so ch’era si fatto. Il sec{on}do é di c{on}t{en}tar l’an{im}o mio sí in seguir la sua vol{on}ta, come in dedicarla a V. S. I. la quale in simile {et} in ogni altra cosa, di tutto core disidero servire (Gaetano, 1539; trascrizione a c. di Barbero 2018).
Il nome e cognome del vero autore è rimasto a lungo incerto (su questo punto, si veda Audisio 1978), come attestano anche le varianti che si trovano ancora oggi nella bibliografia: lasciando da parte (per semplificare) il toponimo di Pofi da Tarracina (un luogo ubicato nella Provincia di Frosinone, nel Lazio), c’è chi opta per ‘Gaetano Tizzone’ (Quondam 1991 [1978], p. 71; Fornara 2013, p. 60), per ‘Tizzone Gaetano’ (Sanson 2011, p. 93; Vallance 2013), o ancora per ‘Tizzone Gaetano Libero’ (variante che si trova in Trabalza 1908, p. 120 e anche in Fornara 2013, p. 35). Una prova decisiva per chiarire che il cognome dell’autore è Gaetano (malgrado le sue sembianze di nome) è un documento datato 1531 (presentato nello studio di Rossi 1910) in cui Libero Gaetano (dedicante dell’opera) chiede al Senato veneziano l’autorizzazione a stampare la grammatica, presentandosi anche come cugino dell’autore. Questo documento è prezioso perché permette pure di capire che la grammatica di Tizzone Gaetano era già pronta nel 1531 (anno in cui muore l’autore; del resto, nella dedicatoria, Libero Gaetano scrive, nell’incipit del testo: «Dopo molti anni é piaciuto a colui che po il tutto di farmi {per}venire ne le mani {que}sta volgare gr{am}matica»; cfr. punto 27). Di seguito, il passo decisivo del documento in questione per fare luce su nome e cognome dell’autore:
(28)   Havendo l’humile servitor di vostra Sublimità et Illustrissima Signoria Libero Gaetano di Pofi da far stampar alcune belle regole grammaticali volgari […] novamente composte da m. Tizzone Gaetano da Pofi suo cugino, cioè grammatica, declinatione di verbi, dittionario, rimario di tutte rime et dittione overo vocaboli di Dante Petrarcha et Boccaccio […]. Die XXIII septembris MDXXXI (Rossi 1910, pp. 59-60; cit. in Audisio 1978, pp. 10-1).
Uno sguardo al modo tipizzato, ovvero normato, in cui il nome del dedicante compare nelle dedicatorie, sempre e rigorosamente nell’ordine ‘nome + cognome’ (cfr. i punti 5-18 per quanto riguarda i trattati grammaticali del nostro corpus), permette di fornire un’ulteriore prova al fatto che Gaetano sia il cognome e non il nome dell’autore (del resto già Audisio 1978 deplorava la «scarsa considerazione [da parte degli studiosi] attribuita alla pur facile norma che prevede di anteporre il nome al cognome», p. 11). Passiamo a un secondo caso: quello di Rinaldo Corso. Nel frontespizio dell’opera (ci riferiamo qui alla princeps del 1549) compaiono unicamente il titolo, Fondamenti del parlar thoscano, e il luogo di stampa, Venetiis (cfr. Fig. 3). Sono invece assenti, oltre al nome dell’autore, la data di pubblicazione e il nome dell’editore (Melchiorre Sessa il Vecchio, riconoscibile, tuttavia, dalla marca tipografica della bottega: la gatta; il nome del tipografo, Comin da Trino di Monferrato, compare nel colophon). È dunque solo dopo il frontespizio dell’opera, nella dedica epistolare, che il lettore capisce chi è l’autore: Rinaldo Corso (Figg. 4.1 e 4.2). Il nome dell’autore coincide con il dedicante, esplicitato nella titolazione della dedica:
(29)   AD HIPARCHA / sua rinaldo / corso (Corso, 1549)
Vale la pena notare che le edizioni successive dell’opera recano il nome dell’autore già sul frontespizio:14 è così nell’edizione pubblicata solo un anno dopo (1550; cfr. la trascrizione proposta al punto 30 e la riproduzione nella Fig. 5), sempre per conto di Melchiorre Sessa il Vecchio (con la stessa marca tipografica), così come nell’edizione del 1564, pubblicata a Roma da Antonio Blado (cfr. punto 31 e Fig. 6). In tutte le edizioni consultate (1549, 1550, 1564), si trova poi di nuovo il nome dell’autore nell’intestazione della dedicatoria, che rimane invariata.
(30)   FONDAMENTI / DEL PARLAR / THOSCANO. / DI RINALDO CORSO / non prima veduti cor / retti, et accresciuti. / in venetia. M D L (Corso 1550, frontespizio).
(31)   FONDAMENTI / DEL PARLAR / THOSCANO / Di Rinaldo Corso / nella sua vera, et original / lettione rappresentati. / In Roma per Antonio Blado. / 1564 (Corso 1564, frontespizio).

3.2.2. La dedica dei Fondamenti del parlar thoscano di Rinaldo Corso: approfondimenti
Se nella princeps dei Fondamenti (1549) la dedica permette di sciogliere l’identità dell’autore (Rinaldo Corso) attraverso quella del dedicante, lo stesso testo apre un’altra incognita, sulla dedicataria. Nell’intestazione della dedica epistolare compare infatti lo pseudonimo Hiparcha, che si ritrova poi qualche rigo sotto, nel testo della dedicatoria (cfr. punto 32). Da notare il rilievo grafico del nome anche al momento della sua seconda menzione: Hiparcha è l’unica parola della dedicatoria che compare in lettere maiuscole (e in carattere romano), se si prescinde dalla prima parola del testo (Questi), convenzionalmente sempre messa in rilievo a livello grafico.
(32)   Questi mesi (hà già il ventesimo sesto) che io lasciata per la febbre Bologna, et i civili studi hò paßato, {et} passo miseramente in Correggio mia si come ne patrìa, ne madre, cosi balia, {et} matrigna poco amorevole, dai molti, et gravi travagli, che voi della mente, me della mente, {et} del corpo hanno hiparcha dolcißima oltra il dovere molestato lungamente, {et} molestano di continuo, mi sono io pur finalmente riscoßo, {et} in me medesimo tornato tanto, che quello, che gran tempo prima nell’animo haveva, in ispatio di pochißimi giorni ho meßo ad effeto; (Corso 1549; trascrizione a c. di De Cesare 2018).
Hiparcha è il nome accademico di Lucrezia Lombardi (anche chiamata la Marchesina, secondo Sanson 2011, p. 96), sulla quale non disponiamo di molte informazioni. Figlia di Gabriele Lombardi, fu anche «nipote di Giambattista Lombardi, professore di medicina e filosofia alle università di Bologna e Ferrara e mecenate di Antonio Allegri» (Romei 1983). A detta di alcuni studiosi, Lucrezia Lombardi fu una delle donne più illustri d’Italia (così secondo Ortensio Lando, nel suo Commentario de le più notabili et mostruose cose d'Italia, pubblicato a Venezia nel 1569; cit. in Romei 1983); una «donna di molto senno e straordinarie bellezze» (cfr. Colleoni 1775, p. xxiv). La scarsità di informazioni su una persona così illustre (fa parte di un’Accademia, ma non sappiamo di quale; è Marchesa, ma di dove?) è alquanto sorprendente (per altri dettagli, cfr. nota 15). La dedica di Rinaldo Corso a Hiparcha è poco convenzionale da vari punti di vista (cfr. già Finzi 1959, p. 15, cit. in Sanson 2011, p. 95). Prima di tutto, non si tratta di una dedica encomiastica rivolta a una persona di potere nell’ambito di un rapporto di mecenatismo. Si tratta di una dedica amorosa,15 come suggerisce ab initio nell’intestazione, il modo in cui l’autore-dedicante identifica sia la dedicataria sia sé stesso. Mentre il nome dell’amata è celato dietro uno pseudonimo per modestia, come vorrebbe una convenzione morale del tempo (Sanson 2011, p. 96), l’autore firma nome e cognome preponendoci il pronome possessivo suasua Rinaldo Corso»). Il tono amoroso, che si fa ancora più esplicito e acuto nella dedicatoria, non si ritrova in nessun’altra dedica del corpus. Solo nella dedicatoria di Corso si trovano superlativi a valenza espressiva intimistica, ben diversi da quelli delle altre dediche analizzate, in cui i superlativi sono moduli stereotipati riferiti di norma al titolo e alle qualità del dedicatario (per cui, cfr. quanto riferito già nel § 3.2.1). Nella dedicatoria di Corso, la stessa collocazione degli aggettivi superlativi (il testo ne contiene due) risulta degna di nota: assenti nell’intestazione, questi aggettivi compaiono in due altri momenti salienti della lettera. Il primo aggettivo è collocato immediatamente dopo la prima menzione dell’amata (Hiparcha dolcißima, cfr. punto 32); il secondo si trova poco dopo, quando Corso codifica l’offerta simbolica dell’opera, rivolgendosi di nuovo direttamente alla dedicataria, anche attraverso l’impiego di un pronome di seconda persona plurale (cfr. il voi nel testo 33). Il gesto del dono trova anche una giustificazione peculiare: Corso contraccambia l’amore della donna con la grammatica; non cerca di ottenere la sua protezione, esaltandone le qualità e menzionando i suoi titoli nobiliari.
(33)   À voi mando carißima giovane questo dono, perche l’amore, che portato m’havete, {et} la fermezza, {et} l’honesta vostra l’han meritato (Corso 1549; trascrizione a c. di De Cesare 2018).
Il tono confidenziale della dedicatoria di Corso è esaltato da due altri fattori: la semplicità e brevità dell’intestazione della dedica (il modulo scelto è molto moderno). L’intestazione si esaurisce infatti in una delle formule più snelle del corpus: ‘A [dedicataria] + possessivo [dedicante]’. Basta tornare sul campione proposto ai punti 5-18 per apprezzare appieno la scelta poco convenzionale di Corso; formule snelle comparabili sono quelle di Gamucci 1545 e Bartoli 1584, ma le dediche presentano il convenzionale tono ufficiale proprio di questi testi. La peculiarità della formulazione scelta da Corso per intestare la dedica a Hiparcha può essere colta considerando anche un’altra dedica dello stesso autore: quella che scrive a Veronica Gambara, la sua protettrice alla corte di Correggio, nei suoi commenti sulle Rime spirituali di Vittoria Colonna. Sul frontespizio dell’opera intitolata Dichiaratione fatta sopra la seconda parte delle Rime della divina Vittoria Collonna Marchesa di Pescara (pubblicata a Bologna nel 1543), dove compare un titolo dedicatorio, il tono è decisamente più formale e vicino ai canoni in voga a quell’altezza cronologica. L’aggettivo illustre, intensificato dall’avverbio molto, porta al grado massimo il sentimento di stima che gode Veronica Gambara presso Corso.
(34)   DA RINALDO CORSO / Alla molto Illust. Mad. Veronica Gambara / da Correggio: Et alle Donne / gentili dedicata (Corso, Dichiaratione, 1543, frontespizio).
Tornando alla dedica dei Fondamenti del parlar thoscano, in una prospettiva di studi di genere è importante sottolineare un fatto eccezionale: Lucrezia Lombardi è una delle uniche donne alle quali si dedica una grammatica o trattato grammaticale nel Cinquecento. L’unica altra dedica scritta per una donna (Donna Dorotea di Gonzaga, Marchesa di Botonto), presente nell’opera di Tizzone Gaetano (La grammatica volgare, 1539) e firmata da Libero Gaetano, ha un tono simile a quello scelto da Corso nella dedica alla Gambara. Basta di nuovo considerare l’intestazione (riprodotta al punto 35), dove troviamo i soliti superlativi di riguardo (nella ben nota coppia Illustrissima et Eccellentissima), per capire che siamo in presenza di una dedica molto più convenzionale, volta a trarre vantaggio dallo statuto sociale del dedicatario, in questo caso particolare una donna (che ha il titolo nobiliare di Marchesa). Si tratta dunque di una classica dedica redatta per mecenatismo (su questa dedica, cfr. Sanson 2011, pp. 93-4).
(35)   Ala Illustris. {et} Eccelltis. Donna Dorothea di / Gonzaga Marchesana di Botonto Libero / Gaetano di pofi da Tarracina (Libero Gaetano in Tizzone Gaetano 1539).
La dedica di Corso presenta invece chiare affinità con la lettera dedicatoria, datata primo agosto 1504, che Bembo rivolge all’allora amata Lucrezia Borgia negli Asolani (1505). Se l’intestazione della dedica reca il tradizionale tono ufficiale (cfr. punto 36: i titoli della donna amata, del resto chiaramente identificata da nome e cognome; vi è anche un tradizionale superlativo di encomio), il testo stesso della dedica è più intimistico, «con forte valenza autobiografica, fuori dagli schemi ricorrenti, dalle usuali esternazioni di reverenza» (Brugnolo/Benedetti 2004, p. 53). Il contenuto del testo evoca infatti lo stretto rapporto che lega dedicante e dedicataria (per approfondimenti, cfr. ivi, pp. 52-54).
(36)   A MADONNA LUCREZIA ESTEN/SE BORGIA DUCHESSA ILLU/SSTRISSIMA DI FERRARA. / PIETRO BEMBO (Bembo, Asolani, 1505).
La dedica dei Fondamenti del parlar thoscano di Corso è atipica infine per il fatto che Lucrezia Lombardi è al tempo stesso dedicataria e destinataria dell’opera. Nella dedica sono menzionati altri destinatari; Corso fa infatti riferimento a un pubblico ampio, non toscano e agli stranieri (cfr. punto 37, «ciascuno quantunque Barbaro et strano»):
(37)   Et la Thoscana favella incerta fin hora, {et} sparsa hò ridutto in guisa (come vedete) che potrà per innanzi da ciascuno quantunque Barbaro, {et} strano sotto certe regole eßere impresa non altrimenti, che l’altre lingue ordinate si sien fatte per adietro (Corso 1549; trascrizione a c. di De Cesare 2018).
La grammatica è però senza ombra di dubbio rivolta in primo luogo alla Lombardi. Lo testimoniano le apostrofi alla donna che si trovano nel corso della trattazione grammaticale, come per esempio nel passo in cui l’autore esemplifica l’uso dei pronomi («Voi non dovete Hiparcha mia maravigliarvi, che questa opera sia vostra, per cio che anche io son vostro», ivi, fol. 87r; l’esempio è riportato anche in Sanson 2011, p. 98). Lo testimoniano anche le apostrofi inserite nei brani didascalici dell’opera, proposti tra due momenti della trattazione grammaticale, come nel caso in cui Corso passa dalla descrizione delle lettere e delle sillabe a quella relativa alle parti del discorso («et qui sia fine, dilettißima Hiparcha, à quanto nel principio di voler ragionare intorno alle lettere, et alle sillabe mi proposi», Corso 1549, fol. 13r). La grammatica di Corso gode di grande fama già nel Cinquecento. A questa fama hanno contributo vari fattori. Oltre alla sua formazione di giurista, capace di scrivere in modo chiaro e conciso, si evoca il fatto che Corso si sia rivolto a una donna e si rileva il tono confidenziale che ha scelto, anche nei momenti didascalici e illustrativi delle sue regole grammaticali (Sanson 2011, pp. 97-8). La sua fama di grammatico si coglie in particolare dalla scelta fatta da Francesco Sansovino nell’opera intitolata Le osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri (1562). Benché non sia nominato esplicitamente né nel frontespizio dell’opera (dove compaiono solo, nell’ordine originale, i nomi di Bembo, Gabriele, Fortunio e Acarisio; cfr. Fig. 7), né nella lettera dedicatoria che Sansovino rivolge a Paolo D’Anna (in cui menziona, sempre nell’ordine, Bembo, Gabriele, Dolce, Acarisio), assieme ad altri grammatici del tempo, Corso è entrato a far parte della cerchia degli uomini illustri. I Fondamenti del parlar thoscano di Corso occupano la parte quarta del volume, dopo quella di Bembo, Fortunio, Gabriele e prima di quelle di Acarisio (cfr. la nota manoscritta sul frontespizio riprodotto in Fig. 7). Nella breve introduzione che Sansovino pubblica prima del testo di Corso si legge un bell’elogio dell’autore:
(38)   Trattò tutto quel che si poteva trattar, ma tanto minutamente & con certo suo nuovo modo che piacque molto; Disse delle lettere assai pienamente mostrando la forza e l’uso loro; S’allargò assai ne nomi, et ne verbi; Intorno a gli articoli non lasciò nulla addietro di qualche momento; & ultimamente in tutte l’altre parti a me sodisfa egli assai, perchioche è corretto osservator della lingua, non punto Barbaro, ne difficile, o oscuro, se peraventura non si desiderassi in lui piu ordine (Sansovino 1562, pp. 326 r-v).
3.2.3. Chiarimenti sulla genesi, stesura e edizione dell’opera
Le dediche permettono anche di fare luce sulla genesi, stesura e edizione dell’opera e di trarre importanti conclusioni sulla paternità della stessa in chiave di storia della lingua italiana. Per quanto riguarda le opere considerate in questo studio, non c’è migliore esempio (già discusso in Vallance 2009) di quello delle Regole Osservanze, et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi. Sulla paternità dell’opera, che esce anonima nel 1545, c’è grande incertezza (cfr. i tre frontespizi riprodotti in Ortolano 2009, pp. 27-9, di cui il terzo, della British Library di Londra, è riprodotto anche qui in Fig. 8). Entrano in gioco tre persone: Domenico Gamucci (come si legge da note di possesso sul frontespizio di due copie rimaste, la prima nella Biblioteca Alessandrina di Roma, la seconda nella Biblioteca Vittorio Emanuele II di Napoli; cfr. Ortolano 2009, Figg. 1-2, pp. 27-28); Paolo Del Rosso (come risulta dalla nota di possesso della copia conservata a Londra); e Tommaso Cimello. Un’attenta lettura della dedica epistolare che apre le Regole, in cui sono menzionate varie altre persone, permette di capire meglio la particolarissima genesi dell’opera (su questo punto, cfr. anche Foà 1990, p. 279, e Sabbatino 1995; per ulteriori prove linguistico-testuali emerse dal confronto tra il testo della dedica e quello dell’opera, rinviamo a Ortolano 2009, pp. 47sgg. e Vallance 2009).
Prima di tutto, come si evince dall’intestazione della dedica epistolare (per cui cfr. il punto 39 e la riproduzione del testo alle Figg. 9.1 e 9.2), il dedicatario dell’opera (nonché destinatario della lettera dedicatoria) è Giovanni Vincenzo Belprato, Conte d’Aversa (Aversa si trova nella provincia dell’Aquila, in Abruzzo), mentre il dedicante è Domenico Gamucci, libraio o editore (così secondo Vallance 2009, pp. 48, 81, nota 63) o ancora curatore dell’opera (cfr. Ortolano 2009, p. 23):
(39)   AL .S. GIOVANVICENTIO BELPRA / TO Conte d’Aversa. In Apruzzo. / Domenico Gamucci (Gamucci in Del Rosso 1545).
Nell’incipit della dedica epistolare, Gamucci menziona un’altra persona, Tommaso Cimello (nella dedica: Giovathomaso Cimello), dando anche importanti indicazioni per capire la genesi e paternità dell’opera (cfr. punto 40). Il testo riporta che, alla corte dei Colonna,16 a Cimello erano state rubate tre opere finite ma non ancora corrette, tra le quali una grammatica:17
(40)   Una delle volte visitando Messer Giovathomaso Cimello, in corte della Illustrisssima .S. Donna Giovanna Aragona de Colonna; lo trovai sdegnato, et irato: et da lui subbito intesi, che gliera stato rubbato un fascio d’opere sue, non corrette, dico un libro di brevissime regole di musica : una Egloga volgare per sposamento : e quel che più dannoso riputava, un libro de brevissime regole della lingua volgare, qual gia volea mandare in luce, sacrandolo à .V.S. et al Signor Giovanbernardino suo figliolo; (Gamucci in Del Rosso 1545).
Un passo importante per capire il giallo legato alla paternità dell’opera si situa alla fine della prima pagina della lettera dedicatoria (Ortolano 2009, p. 47 fa notare che l’imperfetto lirico, in volea e promettea, si trova solo nel testo della dedicatoria; questi verbi sono ambigui tra 1a e 3a pers. sing.):
(41)   [...] gli [a Cimello] dissi, che traducendo Messer Paulo del Rosso alchune opere latine in lingua volgare, e scrivendole io mi furo da lui dettate insieme alchune avvertenze di scrivere rettamente; quali se volea [intendiamo: Cimello] correggere, ampliare; et ordinare, io senza dubbio promettea [intendiamo: Gamucci] dedicarle à V. S. [Giovanni Vincenzo Belprato] (Gamucci in Del Rosso 1545).
Paolo Del Rosso, menzionato solo in questo punto dell’opera, avrebbe dettato «alcune avvertenze» grammaticali a Domenico Gamucci, insieme a traduzioni di opere dal latino in volgare. Gamucci offre poi a Cimello di rivedere il testo, promettendo di dedicarlo a Giovanni Vicenza Belprato. Cimello accetta senza indugio («e disse io ciò farò più che volentieri») e, come riportato di nuovo nella dedica epistolare, porta il progetto di revisione a compimento in pochi giorni («E trà pochi giorni ciò mise in effetto»). Sembra che l’unico favore che Gamucci fece a Cimello in cambio del suo lavoro di revisione del manoscritto fu dedicare il testo a Giovanni Vincenzo Belprato, come voluto da Cimello stesso (cfr. anche al punto 42). Si chiude così, prima del tradizionale saluto finale («ch’io sia perpetuo servidore di V.S. à cuì quà bacio la mano inchinevolmente») e delle successive indicazioni riguardanti luogo e data di redazione della lettera («In Napoli il giorno dell’anno felicissimo della Pace. Anno del Parto della Vergine, e di Dio fatto Homo. M.D.XXXXV»), la dedica di Gamucci:
(42)   Onde restando sol, ch’io facessi la dedicatione promessa, hò voluto farla pur presto, e non co’l mandarnele una copia di mia mano; ma molte à stampa, si perche possa farne dono à molti amici, come per che li molti giovini molto ingegnosi, che specialmente in questa nobilissima Cittade [Napoli] e’n questo nobilissimo regno s’essercitano nel comporre in rime e prosa volgare se ne vagliano in quel che non sanno (Gamucci in Del Rosso 1545).
Gamucci riporta che ha una certa fretta nell’eseguire la dedica promessa a Cimello (cfr. inizio punto 42), atto che a detta di alcuni studiosi tradirebbe il furto dell’opera (assieme al fatto che nessun nome compare sul frontespizio dell’opera; cfr. Vallance 2009, p. 48). Di sicuro Gamucci non ha chiesto il permesso di stampare il manoscritto a Del Rosso, in esilio in Francia dal 1544. Invece di offrire a Belprato l’esemplare manoscritto del testo, da lui firmato, preferisce anche dedicargli l’opera a stampa, operazione naturalmente molto più lunga e complessa, ma attraverso cui può trarre un vantaggio economico. Sembra essere ben cosciente dell’affidabilità delle Regole, stese dalla mano di un fiorentino, e della fruibilità dell’opera in una città come Napoli (cfr. alla fine del punto 42). Un altro punto che può essere rilevante sottolineare per capire la dinamica in gioco è che, nel testo della lettera dedicatoria da lui redatta, Gamucci non dedica mai in modo diretto l’opera a Belprato. L’offerta del testo al Conte è sempre riferita sotto forma di promessa futura: «io senza dubbio promettea dedicarle à V. S.», «Onde restando sol, ch’io facessi la dedicatione promessa, hò voluto farla pur presto». Allo stesso tempo, Gamucci esplicita senza indugio il suo desiderio di entrare nelle grazie del Conte: «Si che per la buona occasione ch’egli facilmente havria presa la fatica; et io così sarei diventato servidor caro à V.S.»; «ch’io sia perpetuo servidore di V.S.». L’unico atto performativo diretto eseguito nella dedicatoria è quello che segue immediatamente il brano di testo appena riportato (si noti il deittico testuale quà): «à cuì quà bacio la mano inchinevolmente». A ben guardare, l’atto performativo della dedica è dunque eseguito unicamente nell’intestazione della lettera, di cui non si può però non notare la semplicità formulare, soprattutto quando la si confronta con la componente testuale che apre le lettere dedicatorie degli altri trattati grammaticali inclusi nel nostro corpus (per cui, cfr. i punti 5-18). Similmente a un pugno di altri casi (che si restringono a Bembo e Bartoli, oltre a Corso, che si rivolge tuttavia a un tutt’altro dedicatario; su questo punto, cfr. §§ 3.2.1 e 3.2.2), nell’intestazione della dedica di Gamucci a Belprato non c’è traccia dei superlativi di encomio (illustrissimo, eccellentissimo, reverendissimo). Tutto questo (mancanza di atteggiamento deferenziale nella titolazione della dedica e assenza di codificazione dell’atto pragmatico della dedica nel testo stesso) lascia trapelare una certa reticenza da parte di Gamucci nel dedicare il testo a Belprato, forse perché non spetta a lui questo onore. La dedica a Giovanni Vincenzo Belprato tanto ambita da Cimello non sembra un grosso sacrificio per Gamucci: è lui che ha l’onore di intestare il testo al Conte. L’opera contiene però una seconda dedica, sempre al Conte Belprato,18 firmata da Cimello stesso, alla fine del volume. Prima di chiudersi con gli «Errori di stampa» e il colophon, il testo della dedica, in latino, recita quanto segue (si noti l’annuncio dei quattro versi nel testo dedicatario):
(43)   Ioan. Thom. Cimelli Tetrasticon Ad. Vincentium / belpratum, Aversae Tit. Comitem.

Cum nesciretur forma qui vinceret heros:
Nam genere ac armis est tua prima domus:
Tedea formavit Venus: et vincentius inde
Dicius es, ut vincas nomine reque fimul (Cimello in Del Rosso 1545, p. F2v).
Da quanto riportato nella dedica epistolare dell’opera Regole Osservanze, et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi emerge in modo chiaro che Del Rosso non è il solo autore delle Regole; ne è comunque il principale ideatore. Come ha mostrato Vallance 2009, le revisioni sotto forma di correzioni, ampliamenti e ordinamenti apportate da Cimello sono ben poche. Si tratta di una delle grammatiche più corte del Cinquecento (ha una quarantina di pagine), che offriva dunque ampia materia a integrazioni (a meno che il testo di partenza fosse scheletrico; Vallance 2009, p. 52). Si ipotizza che siano stati aggiunti alcuni exempla ficta in cui compaiono, strategicamente, non solo i nomi del dedicatario (Belprato) e di sua moglie (Costanza della Tolfa, menzionata pure nella dedica),19 ma anche quelli di Gamucci e Cimello stessi: «tu ami la Costanza tolfa» (Del Rosso 1545, p. C4; cit. in Vallance 2009, p. 52); «questo ho avuto da Giovanbattista cimello» (ivi, p. 35). La paternità dell’opera è senza dubbio da attribuire a Del Rosso (Sabbatino 1995 attribuisce a Del Rosso la paternità naturale dell’opera e a Cimello la paternità adottiva; cfr. ivi, p. 131). Da ciò consegue un dato fondamentale in chiave di storia della lingua: la possibilità di retrodatare la prima grammatica a stampa scritta da un fiorentino in volgare e sul volgare. Non si tratta delle Regole della lingua fiorentina del Giambullari, pubblicate a Firenze nel 1552, come sostiene per esempio Trabalza (1908, cap. V), e ancora molti dopo di lui, come Migliorini 1960 e Bonomi 1986 nell’edizione moderna da lei curata (su questa questione, si veda Vallance 2009, pp. 46-7). La prima grammatica scritta da un fiorentino sul fiorentino in fiorentino è quella di Del Rosso (cfr. anche Bonomi 1998, p. 339). Malgrado questo dato ormai assodato, l’idea che la prima grammatica scritta da un toscano (o fiorentino) sia quella di Giambullari circola ancora oggi nella bibliografia;20 la si trova per esempio nel manuale di studio Geschichte der italienischen Sprache di Reutner/Schwarze (2011, pp. 113, 140). In altri importanti studi di riferimento, come la voce enciclopedica dedicata alla Grammatica redatta da Marazzini (2011), il primato va sempre a Giambullari. Su Del Rosso, invece, si tace. 4. Conclusioni
Una descrizione della dedica in chiave storico-linguistica risulta interessante da molti punti di vista. Oltre a quelli illustrati in questa sede, sulla base di un corpus di trattati grammaticali del Cinquecento, varrebbe la pena soffermarsi in futuro su altri aspetti. Il genere della dedica si presta molto bene a illustrare l’evoluzione delle Textsorten e l’interesse di una Textsortenlinguistik praticata in prospettiva storica (si veda del resto anche il capitolo di Görlach 2004, pp. 109-20). Una prospettiva storica sulla dedica può anche servire da banco di prova per testare la stabilità e validità di un concetto inteso come genere testuale.


A. M. D. C.



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H. Sanson, Women, Language and Grammar in Italy, 1500-1900, Oxford, Oxford University Press, 2011.
Stabile 1974
G. Stabile, Camillo, Giulio, detto Delminio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1974, vol. xvii, pp. 218-30.
Stammerjohann 2011
H. Stammerjohann, Italiano in Europa, in Enciclopedia dell’italiano, dir. da R. Simone, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, pp. 719-723.
Tesi 2007
R. Tesi, Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune dalle fasi iniziali al Rinascimento, Bologna, Zanichelli, 2007.
Terzoli 2003
M.A. Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des lumières et invention romantique, Actes du Colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, a cura di G. Bardazzi, A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 161-92.
Trabalza 1908
C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli, 1908.
Vallance 2009
L. Vallance, Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato. ‘Le Regole osservanze, e avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi’ (Napoli, 1545) di Paolo del Rosso, prima grammatica toscana del ’500, in «Vox Romanica», lxviii, 2009, pp. 45-97.
Id. 2013
L. Vallance,Di cose si poco per se piacenti”. Les grammairiens italiens de la Renaissance face à leur langue, Nancy, Thèse de doctorat, 2013.
Id. 2019
L. Vallance, Les grammairiens italiens face à leur langue (15e-16e S.), Berlin, De Gruyter, 2019 (in corso di stampa).


Sitografia

• AIDI, Archivio Informatico della Dedica Italiana: http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html.
• Biblioteca digitale dell’Accademia della Crusca: http://www.bdcrusca.it/scaffale.asp.
• Ctf (Corpus de textes linguistiques fondamentaux): http://ctlf.ens-lyon.fr/n_form.asp.


Note

* Ringrazio Maria Antonietta Terzoli dell’invito a stendere queste riflessioni, nate nell’ambito di due seminari di ricerca affidatimi all’Università di Basilea, tra il 2018 e il 2019. Ringrazio anche le studentesse che hanno partecipato al seminario, in particolare Muriel Barbero per il reperimento di fonti bibliografiche e l’impaginazione del testo finale. Un sentito grazie è rivolto infine a Laurent Vallance, che mi ha molto gentilmente offerto una copia della sua monumentale tesi di dottorato (ora in stampa) e mi ha fornito preziose informazioni sulle grammatiche del Cinquecento sia nel nostro scambio epistolare digitale sia in una versione precedente di questo lavoro da lui riletta. torna su
1 Basta considerare il posto che occupa la lettera dedicatoria nel volume Text Types and the History of English di Görlach 2004: a questa tipologia testuale è riservato l’intero § 3.3, intitolato The dedicatory epistle (cfr. ivi, pp. 109-20). torna su
2 Una bibliografia sulla dedica si trova all’indirizzo seguente, legato al Progetto di ricerca I Margini del Libro, diretto da M.A. Terzoli (Università di Basilea): http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html. torna su
3 Le grammatiche del volgare in latino sono, sorprendentemente, poche (nella bibliografia di riferimento, se ne menzionano cinque; cfr. Vallance 2013, p. 47), tardive (la prima, Italicæ grammaticæ pracepta, ac ratio di Scipio Lentulus, è del 1567) e perlopiù indirizzate a un pubblico straniero, per cui è legittimo usare la lingua della comunicazione internazionale, che rimane comunque comprensibile solo da un’élite. Per completare il quadro, bisogna anche menzionare le grammatiche del volgare pubblicate nel Cinquecento indirizzate agli stranieri e redatte in una lingua romanza (diversa dal volgare) o germanica. Ci limitiamo qui a citare la primissima grammatica per stranieri, la Grammaire italienne (1549) di Jean-Pierre de Mesmes (per approfondimenti, cfr. Mattarucco 2003 e Stammerjohann 2011, in particolare § 5, pp. 721-2 e Palermo/Poggiogalli 2010). torna su
4 Un altro lavoro fondamentale per la questione è quello di Kukenheim 1932, che non abbiamo però potuto consultare. torna su
5 Per approfondimenti, anche relativi al tipo di lingua che gli autori prendono a modello, cfr. Fornara 2005 e Arcangeli 2016. torna su
6 Le indicazioni fornite nei quattro lavori di riferimento (Trabalza 1908; Quondam 1978; Vallance 2013 e Fornara 2013) sono state verificate consultando di prima mano, laddove possibile, le opere da includere (o meno) nel nostro inventario. Abbiamo anche tenuto conto delle informazioni proposte nelle voci enciclopediche pertinenti del Dizionario biografico degli italiani. In questa fase di reperimento delle opere sono stati fondamentali anche la biblioteca digitale dell’Accademia della Crusca, che offre la digitalizzazione integrale di 10 opere del Cinquecento, e i libri digitalizzati da Google books. torna su
7 Com’è noto, la prima grammatica in volgare e su un volgare redatta in Italia, presumibilmente tra il 1437 e il 1441 (il che ne fa anche la prima grammatica in volgare a livello europeo), è la Grammatichetta di Leon Battista Alberti, che però non è stata pubblicata prima del Novecento (ne propone una prima trascrizione Trabalza 1908, in un’appendice della sua Storia della grammatica).torna su
8 A nostra conoscenza, le dedicatorie dei trattati grammaticali del Cinquecento non sono mai state studiate in modo approfondito come gruppo organico di testi. Vallance 2013 propone una breve descrizione delle dediche presenti in 21 opere del Cinquecento, considerando però soltanto la presenza/assenza di dedica e il nome del dedicante (t. iii, Appendice 0, pp. 1-4). torna su
9 Per approfondimenti, cfr. http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html. torna su
10 Presenta una dedica anche l’opera coeva di Flaminio (1521), che non abbiamo però potuto consultare e di cui non teniamo dunque conto nel resto dello studio. torna su
11 Qui e nelle trascrizioni a venire, la sbarra obliqua segnala a capo. torna su
12 La messa in rilievo del dedicatario (ma non solo) sfrutta anche la compagine grafica del testo, in particolare la forma e dimensione dei caratteri. Dato che non abbiamo potuto rendere pienamente conto di questi aspetti nelle trascrizioni proposte ai punti (5)-(18), rinviamo alle riproduzioni in Appendice e nella banca data AIDI per una verifica più puntuale. torna su
13 I superlativi di encomio si trovano già nelle dediche in latino, come quella redatta dal predicatore domenicano Tommaso dai Liuti per Borso d’Este nella sua opera Trattato del modo di ben governare (composto in volgare tra il 1452 e il 1462): Ad gloriosissimum et excellentissimum principem Ducem Borsium marchionem extensem atque rodigii Comitem Fratris Thome de ferraria Sacre Theologie professoris ordinis predicatorum breve vulgare opus (cit. in Brugnolo/Benedetti 2004, p. 45). torna su
14 Secondo Romei 1983, l’opera conosce cinque ristampe nel solo Cinquecento; Quondam 1991 [1978] riferisce tre date: 1549, 1550 e 1564, che coincidono a nostro parere con edizioni diverse (cfr. il testo dei frontespizi riprodotti ai punti 30 e 31, e l’ammonimento di Corso stesso nel verso del frontespizio dell’edizione del 1550: Alla correttion di questo libro ognihuom s’attenga. & non ad altra ne scritta, ne stampata. Io Rin. Corso.). Sanson 2011 menziona quale edizione speciale anche il testo che compare nella raccolta Le Osservationi della lingua volgare di diversi huomini illustri di F. Sansovino (1562), su cui cfr. § 3.2.2., p. 23. torna su
15 Corso sposerà Lucrezia Lombardi nel 1549, anno in cui compare la grammatica. Il loro rapporto (descritto in modo più approfondito in Sanson 2005) è già reso noto alla fine dell’opera, in ciò che può essere considerata una seconda dedica (cfr. v. ‘Corso, Rinaldo’ in AIDI). La Lombardi muore assassinata nel 1567. torna su
16 Nell’incipit della dedica Gamucci menziona anche la persona di Giovanna D’Aragona, che fu allontanata da Roma nel 1541, a seguito di una lite tra Paolo III e la famiglia Colonna (Alberigo 1961). Questo dato potrebbe lasciare intendere che l’episodio narrato all’inizio della dedicatoria sia antecedente al 1541, il che non è privo di interesse per quanto riguarda gli avvertimenti grammaticali che Del Rosso detta a Gamucci (cfr. punto 41). torna su
17 Sulla grammatica di Cimello non ho trovato nessuna indicazione nella bibliografia consultata; sembra essere svanita nel nulla, se non sia un’invenzione di Gamucci e dello stesso Cimello (diversamente, forse, il suo «libro di brevissime regole di musica», menzionato nella dedica di Gamucci: potrebbe trattarsi dell’opera teorica Della perfettione delle 4 note maggiori massima, longa, breve, semibreve?). Vero è però che Cimello era coinvolto in attività didattiche (Lopriore 1981) e che all’epoca andava di moda redigere trattati grammaticali. Un’altra cosa non è chiara: perché Cimello, che è prima di tutto un musicista, reputa più dannoso perdere un manoscritto di regole della lingua volgare che non un libro di regole musicali (cfr. punto 40). Ragiona in termini di profitto economico? torna su
18 Non c’è invece traccia del secondo dedicatario ambito da Cimello, il figlio del Conte Belprato: Giovanbernardino (cfr. punto 40). Qui vi è comunque un’altra incognita: il figlio di Giovanni Vincenzo Belprato si chiamerebbe semplicemente Bernardino, mentre suo padre risponderebbe al nome di Giovanni Bernardino (così in De Maio 1966, p. 49). Dopo la morte della moglie (1543), ed essere diventato sacerdote (1557), Belprato lascia la contea e le terre baronali a suo figlio Bernardino (sempre secondo De Maio 1966). torna su
19 Nella dedica, Gamucci menziona che Cimello (o forse anche lui stesso: il passo non è del tutto chiaro) è in possesso di alcuni componimenti di Belprato in morte della moglie (il decesso avviene nel 1543; cfr. De Maio 1966): «Non lascerò nella penna, ch’à tal tempo havea in mano tre sonetti di .V.S. in morte della .S. Costanza Tolfa sorella del .S. Giulio Tolfa, e vostra amatissima consorte; delle cui virtuti e costumi tanto con brevità mi seppe contare, che non men doglioso fece me della doglia di V.S. che se faccia dogliosa la morte dalle sue pietose e dolci rime : »ritogliendole l’[a]matissimo nome».torna su
20 Per determinare il primato di un autore, nella bibliografia si tiene talvolta anche conto del luogo di stampa: così, per Fornara (2005, p. 54), «la prima grammatica a essere stampata a Firenze», redatta da un fiorentino in fiorentino sul fiorentino è quella di Giambullari 1552, mentre la prima grammatica a stampa (che esce a Napoli) scritta per mano di un fiorentino è quella di Del Rosso, 1545. torna su