14, 2020
 
Saggi    
 
Abstract

Muriel M. S. Barbero

Ai margini del discorso artistico: il sonetto della Sistina di Michelangelo Buonarroti



1. Introduzione
L’eccezionalità del fatto che un artista del livello di Michelangelo abbia prodotto di sua mano una colorita testimonianza letteraria degli affanni provati durante l’esecuzione di una delle sue più illustri e monumentali opere, la decorazione della Cappella Sistina (1508-1512), basta già di per sé a giustificare l’importanza documentaria attribuita per lungo tempo dalla critica letteraria e artistica al celebre sonetto caudato I’ho già fatto un gozzo in questo stento (n. 5).1 Ad aumentarne il fascino concorre inoltre la presenza, in margine all’autografo del sonetto, di uno schizzo in cui Michelangelo si rappresenta grottescamente nell’atto di dipingere la volta (Fig. 1).2 Sul verso del foglio si legge una nota d’invio: «A Giovanni, a quel propio da Pistoia».3 Il sonetto è infatti un testo di corrispondenza, come si evince anche dall’invocazione del destinatario nell’ultima parte della coda (vv. 18-20): una conversazione privata tra un io e un tu che sembrerebbe confortare una lettura della poesia come intima confessione. Se ne trascrive qui di seguito il testo:
       I’ho già fatto un goz[z]o in questo stento,
come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre apic[c]a sotto ’l mento.
     La barba al cielo, e·lla memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
     E lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e ’ passi senza gli oc[c]hi muovo invano.
     Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
     Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
     La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.4
Un reperto, dunque, quasi una reliquia della condizione psicofisica dell’artista al momento della realizzazione di quella che è una delle opere più significative del Rinascimento italiano. Eppure, come spesso accade quando si ha a che fare con l’ingombrante e affascinante personalità di Michelangelo, l’innegabile interesse storico-biografico del testo ha finito con l’oscurarne il valore letterario e inibire la specificità del suo messaggio.5 In particolare, la volontà di molti critici di scorgere nel sonetto un riflesso diretto della comprovata drammaticità delle condizioni di lavoro che l’artista era stato costretto a sopportare, o ancora la testimonianza di una profonda crisi creativa6 e di un moto di «risentimento»7 nei confronti dell’odiato e al tempo stesso rispettato committente, papa Giulio II, ha portato negli anni a conferire a questi versi marcatamente comici una serietà maggiore di quanto il loro stesso autore intendesse infondervi.8 E certo il testo stesso, come ha messo ben in luce Glauco Cambon, interferisce con il nostro giudizio: Si tratta probabilmente di un gioco liberatorio, poiché l’autocaricatura distruttiva ha un’impronta vigorosa e la voce in sordina sprigiona una vivacità che contrasta il messaggio letterale. Eppure le terzine di coda ci impediscono di considerare il sonetto nel suo insieme come una semplice chiacchiera scherzosa, tanto sono serie. Ma lo sono davvero? La loro serietà non è invece una nuova maschera, una più sottile contraffazione di tono? Il nostro giudizio oscilla sulla bilancia, come quello «fallace e strano» dell’autore.9 Un problema, quello dell’ambiguità del comico michelangiolesco, che non riguarda d’altronde solo il testo in questione, ma che, come nota Danilo Romei, costituisce una costante nella produzione burlesca di questo autore, la quale «nelle sue varietà più interessanti, non che poesia del gioco, dello svago, della vacanza, è segnatamente poesia del disagio, del malessere, della crisi».10 Per Mario Baratto, può essere addirittura assunto a paradigma dell’intera produzione poetica michelangiolesca: l’elemento essenziale del personaggio di M. in queste rime è proprio nella coscienza di essere insieme un oggetto derisorio e comico, ma anche un’anima tormentata e tragica, e nella contemporaneità con cui egli vive questi due aspetti. Il suo umorismo è dunque prettamente connesso alla sua insolubile situazione di crisi.11 Ma per tornare al caso specifico del nostro sonetto, l’ambiguità, come nota Cambon, è suscitata in particolare dalle affermazioni estremamente serie e dure (o perlomeno apparentemente tali) contenute nella doppia coda: la compromissione della capacità di giudizio dell’artista (vv. 15-16) e la definizione della propria opera come «morta» (v. 18) sembrano infatti alludere a uno stato di crisi e di incertezza reale e angosciante che contrasta con la comicità dell’autocaricatura. Ma a rendere tale lettura “tragica” del testo ancora più convincente è soprattutto il fatto che queste affermazioni, così come il tema generale del tormento fisico dovuto al lavoro nella Sistina, trovino riscontro diretto nelle lettere scritte in questi stessi anni dall’artista, nonché nelle testimonianze dei suoi biografi. Basti pensare all’amara espressione di sconforto e insicurezza affidata da Michelangelo a una lettera del 27 gennaio 1509, indirizzata al padre Lodovico: Io ancora sono ’n una fantasia grande, perché è già uno anno che io non ò avuto un grosso da questo Papa, e no’ ne chiego, perché el lavoro mio non va inanzi i’ modo che a me ne paia meritare. E questa è la difichultà del lavoro, e anchora el non esser mia professione. E pur perdo il tempo mio sanza fructo.12 O ancora alla patetica descrizione del proprio disagio psicofisico nella lettera inviata il 17 novembre del 1509 al fratello Buonarroto: Io sto qua in grande afanno e chon grandissima faticha di chorpo, e non ò amici di nessuna sorte, e no’ ne voglio; e non ò tanto tempo che io possa mangiare el bisonio mio.13 Questo passo ricorda da vicino il sonetto, non solo per l’argomento trattato, ma anche per la sintassi paratattica che lo caratterizza.14 I due maggiori biografi dell’artista, Ascanio Condivi e Giorgio Vasari, testimoniano anch’essi delle difficoltà fisiche e tecniche incontrate da Michelangelo durante l’esecuzione degli affreschi («Michelagnolo, per avere nel dipignere così lungo tempo tenuti gli occhi alzati verso la volta, guardando poi in giù, poco vedeva»; «Fu condotta questa opera con suo grandissimo disagio dello stare a lavorare col capo all’insù»),15 e raccontano della sua ostinata dichiarazione di non essere un pittore e del suo ripetuto tentativo di liberarsi di questa impresa perché cosciente di non avere le competenze necessarie: Michelagnolo, che per ancora colorito non aveva, e conosceva il dipinger una volta esser cosa difficile, tentò con ogni sforzo di scaricarsi, proponendo Raffaello, e scusandosi che non era sua arte, e che non riuscirebbe.16

Né in questo mezzo gli mancarono travagli, perciocché avendola cominciata e fatto il quadro del Diluvio, se gli cominciò l’opera a muffare, di maniera che appena si scorgevano le figure. Però stimando Michelagnolo che questa scusa gli dovesse bastare a fuggir un tal carico, se n’andò dal papa e gli disse: Io ho pur detto a Vostra Santità che questa non è mia arte: ciò che io ho fatto è guasto.17
Sono tutte circostanze a cui lo stato d’animo espresso nel sonetto è facilmente riconducibile. In definitiva, dunque, sono la chiara occasionalità del testo e i molti riscontri biografici a rendere così difficile una netta demarcazione del confine tra biografia e finzione letteraria, così come tra serietà e ironia. Già Paola Barocchi metteva tuttavia in guardia dall’accomunare il racconto dei biografi al sonetto, sottolineando come «il richiamo di questa poesia di M., oltre che la concordanza dei dati di fatto, c’impone il contrasto tra la tranquilla illustrazione, nei biografi, di una difficoltà e l’ironia del Maestro, sfociante in quell’antico dissidio tra il pittore e lo scultore».18 Un giudizio analogo a proposito del rapporto tra il sonetto e le testimonianze epistolari è ribadito da Romei: «La differenza sta principalmente nell’iperbole comica che satura ed ingozza il sonetto e che è, in primo luogo, un istituto letterario».19 Nella comicità e nella sua funzione risiede dunque la specificità del testo poetico rispetto agli altri documenti, e in questa va cercata la chiave per comprenderlo. Non bisogna infatti dimenticare che, con questo sonetto, Michelangelo si rifà a una precisa tradizione letteraria, quella dell’autoritratto comico di stampo burchiellesco, che l’artista pare conoscere e padroneggiare alla perfezione. Lo testimoniano, oltre al metro e alla lingua,20 il carattere missivo del testo, con l’invocazione del destinatario tipicamente collocata nella coda: «La mia pittura morta / difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore» (vv. 18-19).21 Si tratta, insomma, di una chiara e netta scelta di campo da parte dell’autore, che non può essere ignorata. È dunque attraverso il filtro di questo particolare codice letterario, delle sue regole e implicazioni, che occorre leggere il sonetto michelangiolesco.
2. Il senso della comicità nel sonetto della Sistina
Benché l’appartenenza tipologica del sonetto della Sistina alla tradizione dell’autoritratto comico burchiellesco sia ormai cosa nota, tale appartenenza sembra essere stata presa in conto dalla critica solo dal punto di vista della veste “formale” del testo. Si è discusso della ripresa di termini o sintagmi tipicamente burchielleschi, della forma metrica, delle metafore materiali e “basse”, della deformazione che diviene caricatura iperbolica, e così via. Ben poca attenzione è stata invece prestata alle finalità e al significato che tale autorappresentazione comica aveva nel contesto della poesia burchiellesca e, quindi, − è plausibile pensarlo − nello stesso sonetto michelangiolesco.
L’autoritratto comico è essenzialmente, nella definizione di Paolo Orvieto, «una confessione esistenziale tra il lamentoso e la tracotante ostentazione della propria diversità», realizzata per mezzo dell’esagerazione e dell’elevazione «all’ennesima potenza» di «situazioni effettivamente biografiche e tratti caratteriali innati».22 Il ritratto di sé, così “caricato”, abbandona qualsiasi pretesa realistica o diaristica, con lo scopo di sottrarre la propria immagine «alla individualità e storicità, cioè a coordinate relative e transeunti» conferendole «uno spessore assoluto»,23 così da fare del proprio personaggio un emblema o un paradigma della diversità, incarnazione di valori alternativi rispetto a quelli affermati e imposti dalla cultura dominante. Dietro la degradazione e la negazione di tutti i caratteri considerati comunemente positivi, come la salute, la bellezza o la ricchezza, si cela insomma una «orgogliosa presa di distanza» che presuppone un implicito senso di superiorità morale.24 Se dunque il sonetto michelangiolesco appartiene, come si presume, a questo genere letterario, occorre leggerlo nei termini di un ribaltamento di ideali, rispetto ai quali l’io lirico si pone come alternativa. Di quali ideali o valori si potrebbe trattare? Tenendo conto del fatto che nel sonetto della Sistina, il tema topico della bruttezza e della deformazione fisica non riguarda un soggetto generico, ma una categoria molto specifica, ovvero quella dei pittori, e che tale grottesca mutazione del corpo non è fatta risalire alle solite motivazioni “comuni” della poesia burchiellesca − come la vecchiaia, la malattia o la povertà − ma ad una ben precisa attività, quella artistica dell’affrescatura, mi pare che il bersaglio polemico del discorso di Michelangelo sia ben circoscrivibile: si tratta, come cercherò di dimostrare nelle pagine seguenti, dell’immagine sublimata e intellettualizzata della pittura, che molti artisti, primo fra tutti Leonardo da Vinci, si stavano sforzando di imporre e propagare nello stesso giro d’anni.
3. Il pittore e lo «stento»
Negli ultimi anni del Quattrocento Leonardo da Vinci componeva, a Milano, quella che è la prima sistematica trattazione del tema del paragone tra le arti: si tratta della Parte prima del Trattato della Pittura, tramandata dal Codex Vaticanus Urbinas 1270 e uscita a stampa per la prima volta nel 1817 per le cure di Guglielmo Manzi con il nome di Paragone.25 Questo argomento avrà grande seguito nel Cinquecento, a partire dal Cortegiano di Baldassarre Castiglione (Primo libro, capitolo l),26 fino ad arrivare alla celebre inchiesta sul paragone tra scultura e pittura indetta da Benedetto Varchi e pubblicata nelle sue Due lezzioni (1549).27 Scopo principale di Leonardo era dimostrare la superiorità della pittura sulle altre arti (poesia, musica e, soprattutto, scultura), esaltandone le basi scientifiche e matematiche e le qualità intellettuali che la rendevano a tutti gli effetti un’arte liberale. Necessario controcanto di questa operazione era ovviamente la negazione e sublimazione della parte fisica e manuale della creazione artistica, il cui coinvolgimento e contributo doveva essere ridotto al minimo. Una negazione del corpo, insomma, e della componente più fisica e “bassa” del fare artistico, che aveva come scopo quello di allontanare quanto più possibile la pittura dalle arti meccaniche e, di conseguenza, il pittore dall’artigiano.
Questo disprezzo per il lavoro e la fatica fisica rappresenta inoltre nella trattazione leonardesca uno dei più importanti e solidi argomenti a sostegno della superiorità della pittura sulla scultura, arte definita per l’appunto «meccanichissima».28 In un celebre passo, Leonardo arriva addirittura a ridurre tutta la differenza tra le due arti a una mera questione di «fatica», fisica l’una, intellettuale l’altra: Tra la pittura e la scultura non trovo altra diferentia se non che lo scultore conduce le sue opere con maggior faticha di corpo ch’el pittore, ed il pittore conduce l’opere sue con maggior faticha di mente.29 Affermazioni analoghe sono ripetute con una certa frequenza negli scritti leonardeschi dedicati al tema del paragone tra scultura e pittura: «la scultura non è scientia ma è arte meccanichissima perché genera sudore e faticha corporale al suo operatore»; «Lo scultore a lla sua arte de magior fatica corporale ch’el pittore, cioè più mechanica et di minor fatica mentale»; «La pittura è di magiore discorso mentale et di magior artifitio e maraviglia che la scultura».30 E nel corso del Cinquecento diventeranno una presenza fissa nelle trattazioni sull’argomento: si ricordino ad esempio le lettere scritte da Bronzino e da Pontormo a Benedetto Varchi in occasione dell’inchiesta sulla “maggioranza” delle arti.31 Ma quello della superiorità della fatica mentale propria dell’arte pittorica era un tema già presente nel De pictura (1435) di Leon Battista Alberti, che vari decenni prima di Leonardo si era prodigato per elevare la pittura al rango di arte liberale: «Sono certo queste arti cogniate et da uno medesimo ingegnio nutrite, la pittura insieme con la scolptura. Ma io sempre preposi l’ingegnio del pictore perché s’aopera in cosa più difficile».32 Alla luce di queste dichiarazioni ricorrenti e, soprattutto, di quanto detto riguardo al significato dell’autoritratto comico, è certamente significativo che la prima parola in rima del sonetto di Michelangelo sia proprio «stento» (v. 1), parola che evoca, appunto, una fatica fisica così estrema che sconfina nel patimento. L’intero sonetto, o perlomeno i primi quattordici versi, sono del resto una deformante e grottesca descrizione delle conseguenze fisiche di tale «stento», la cui origine è senza ombra di dubbio da ricondurre all’attività pittorica, evocata al v. 7 attraverso l’allusione allo strumento di lavoro («’l pennel»), e poi esplicitamente menzionata nell’ultima strofa, ai vv. 18 e 20, nel riferimento alla «pittura morta», paradossale risultato dello «stento», e al «pittore». Ne emerge un’immagine del pittore e della sua arte che si pone esattamente agli antipodi rispetto a quella promossa, per fare un esempio paradigmatico, da Leonardo, e che, per contro, è molto più vicina a quella che quest’ultimo, in un passo divenuto celebre per la sua veemenza, attribuiva allo scultore: lo scultore nel fare la sua opera fa per forza di braccia et di percussione a consumare il marmo od altra pietra superchia che eccede la figura, che dentro a quella si rinchiude, con essercitio meccanichissimo accompagnato spesse volte da gran sudore composto di polvere e convertito in fangho, con la faccia impastata, e tutto infarinato di polvere di marmo che pare im [un?] fornaio, et coperto di minuto scaglie che pare li sia fioccato a dosso, et l’habbittatione inbrattata et piena di scaglie et di polvere di pietre. Il che tutt’ al contrario aviene al pittore, parlando di pittori e scultori eccellenti, imperoché ’l pittore con grand aggio siede dinanzi alla sua opera ben vestito et move il levissimo penello con li vaghi colori, et ornato di vestimenti come a lui piace, et l’habbittazione sua piena di vaghe pitture, et pulita, et accompagnata spesse volte di musiche o lettori di varie et belle opere, la quale senza strepito di martelli od altri rumori misto sonno con gran piacer udite.33 Qui la dimostrazione della superiorità di un’arte sull’altra diventa, potremmo dire, una questione meramente esteriore. L’inferiorità della scultura è infatti provata attraverso una rappresentazione estrema delle fatiche e della sozzura dello scultore e della sua abitazione che è degna di un sonetto burchiellesco. L’insistenza quasi ossessiva sulla «polvere» e sulle «scaglie» che si spargono ovunque durante lo sbozzamento del marmo, e che, soprattutto, ricoprono l’artista stesso, mette ben in luce il disgusto di Leonardo per la materialità e la fisicità del lavoro. Le due immagini, quella del fornaio e quella della neve, evocate a paragone dello scultore insozzato dalla polvere di marmo, conferiscono inoltre alla descrizione un tono comico e irriverente. Alla caotica e disagiata condizione dello scultore, Leonardo contrappone un’immagine del pittore idealizzata e signorile, che lo assimila a un perfetto cortigiano e che è un riflesso diretto della nobiltà e dignità della sua arte. Persino il tono del discorso cambia, passando dalla comicità veemente al lirismo di termini come «levissimo» e «vaghi». Anche se è difficilmente dimostrabile che Michelangelo lo abbia letto direttamente, questo passo leonardesco mi pare di fondamentale importanza per comprendere a pieno la comicità e il significato del sonetto della Sistina. Il grado di diffusione degli appunti e degli argomenti leonardeschi sul paragone nel primo Cinquecento è infatti difficile da stabilire. Secondo Claire Farago, le lettere di artisti pubblicate da Benedetto Varchi dimostrano comunque che a metà Cinquecento gli argomenti di Leonardo erano già ben noti in ambito fiorentino.34 Le curiose corrispondenze terminologiche e concettuali riscontrabili tra la descrizione che Leonardo fa dell’attività dello scultore nel passo citato («lo scultore nel fare la sua opera fa per forza di braccia et di percussione a consumare il marmo od altra pietra superchia che eccede la figura, che dentro a quella si rinchiude»),35 e le considerazioni espresse da Michelangelo in una delle sue poesie più celebri, Non ha l’ottimo artista alcun concetto («Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo superchio», vv- 1-3),36 sembrano inoltre confortare l’ipotesi di una conoscenza diretta di questo testo da parte dello scultore. D’altro canto non è affatto necessario supporre che Michelangelo abbia letto questo passaggio per ritenere che fosse a conoscenza delle idee di Leonardo. In effetti, è tutt’altro che impossibile che scambi del medesimo genere e tono abbiano avuto luogo tra i due artisti negli anni in cui entrambi erano rientrati a Firenze, dove furono presenti, con alcune interruzioni, tra il 1501 e il 1505.37 In particolare, tali confronti e schermaglie potrebbero essersi svolti nei mesi in cui venne loro affidata la decorazione delle due pareti opposte della Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio, e si trovarono così a competere direttamente.38 Che tra i due artisti non corresse buon sangue non è un mistero: ne sono una chiara testimonianza l’aneddoto su un loro incontro casuale narrato nel codice Magliabechiano39 e l’allusione vasariana allo «sdegno grandissimo» che pare ci fosse tra loro,40 probabilmente dovuto almeno in parte alla bassa stima di Leonardo per quella che Michelangelo ritenne per tutta la vita la sua arte. L’antipatia nei confronti del collega più anziano e delle sue idee elitarie sull’arte potrebbe dunque essere alla base della concezione del sonetto della Sistina, scritto pochi anni dopo il soggiorno fiorentino di Michelangelo. Letto sullo sfondo del passaggio leonardesco e delle idee lì espresse, il sonetto della Sistina si rivela un sagace ribaltamento comico dell’immagine sublimata del pittore-cortigiano e insieme uno sfatamento del pregiudizio secondo cui la categoria della «faticha di corpo» sarebbe prerogativa esclusiva della scultura. Al pittore seduto «con grand aggio» di Leonardo si contrappone la figura contorta, curvata e innaturale del sonetto. Al posto di un artista pulito e «ben vestito», che muove il «levissimo»41 pennello ne troviamo uno imbrattato dalle gocce che gli colano sul viso: «e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia / mel fa, gocciando, un ricco pavimento» (vv. 7-8). Imbrattato, proprio come lo era lo scultore secondo Leonardo. La stessa esaltazione della corporeità, tipica del registro comico, assume in questo contesto un significato polemico e sovversivo, che mette in luce l’aspetto più basso dell’attività artistica, ovvero proprio quell’aspetto che veniva generalmente celato perché considerato avvilente. Michelangelo, del resto, aveva della fatica fisica un’opinione ben diversa da quella di Alberti, di Leonardo e della maggior parte dei suoi contemporanei. Lo dimostra il fatto che, nella celebre lettera inviata a Benedetto Varchi in occasione dell’inchiesta sulla “maggioranza” delle arti, datata tra il marzo del 1547 e il 1549,42 l’artista includa proprio la fatica tra i criteri che attestano la maggiore nobiltà di un’arte sull’altra: E però a me soleva parere che la scultura fussi la lanterna della pittura; e che da l’una a l’altra fussi quella differenza che è dal sole alla luna. Ora, poi che io ho letto nel vostro libretto dove dite che, parlando filosoficamente, quelle cose che hanno un medesimo fine sono una medesima cosa, io mi son mutato d’oppennione e dico che, se maggiore giudizio e difficultà, impedimento e fatica non fanno maggior nobiltà, che la pittura e scultura è una medesima cosa.43 Si tratta di una posizione che David Summers definisce unica all'interno del dibattito cinquecentesco sul paragone,44 e che induce a credere che Michelangelo attribuisse un valore etico alla fatica fisica.45 In questo senso può essere letto anche l’aneddoto narrato da Vasari nella Vita di Sebastiano del Piombo, e che curiosamente ha di nuovo a che fare con la Cappella Sistina: incaricato di dipingere il Giudizio Universale sulla parete di fondo della cappella da papa Paolo III, Michelangelo si scontra infatti con la volontà di quest’ultimo di fargliela dipingere a olio, su consiglio di Sebastiano del Piombo. Interrogato sul motivo delle sue resistenze, lo scultore risponde «che non voleva farla se non a fresco, e che il colorire a olio era arte da donna e da persone agiate et infingarde, come fra’ Bastiano».46 Il disprezzo per la pittura a olio, ovvero proprio per quella pittura a cui Leonardo si riferiva con ogni probabilità nei suoi scritti, sembra da ricollegare direttamente alla stima di Michelangelo per la fatica fisica e per le imprese difficoltose, e da interpretare nei termini di un rifiuto nei confronti di un modo di essere pittori che non prevede il coinvolgimento totale della mente e del corpo dell’artista. La pittura a olio, con la sua posata e lenta procedura, infatti, è una tecnica che poco si adatta alla virile terribilità michelangiolesca. È arte «da donne e da persone agiate», ovvero è l’arte delle corti e dei composti e ben vestiti pittori cortigiani che, come Leonardo, siedono appunto «con grand aggio»47 in belle stanze decorate muovendo lievemente i loro pennelli. Nel sonetto della Sistina, Michelangelo si presenta dunque come un modello alternativo di pittore, che catalizza su di sé, denunciandole, tutte le componenti negate e rimosse del fare artistico: si tratta di una volontaria e mirata incarnazione della tipologia dell’artista malinconico, bizzarro, “zozzo” e sregolato, che nel Cinquecento viene affermandosi in aperta opposizione all’ideale dell’artista cortigiano, raffinato ed elegante.48 La fatica fisica del lavoro non è in alcun modo celata, ma anzi viene esagerata, esaltata e resa inoffensiva attraverso la comicità.49 Il sonetto appare in definitiva un inno, paradossale e grottesco, alla fatica, quasi un’orgogliosa rivendicazione della traumatica difficoltà fisica che l’artista aveva dovuto affrontare: ecco svelato il senso di quella «vivacità che contrasta il messaggio letterale» rilevata in questo testo da Glauco Cambon.50
4. Il giudizio, «l’arco sorïano» e la «cerbottana torta»
L’orgogliosa rivendicazione ed esibizione dello «stento» non è tuttavia soltanto l’emblema della diversità dell’artista, ma è prima di tutto un’aperta dichiarazione del proprio valore artistico e intellettuale: una rappresentazione così degradante delle proprie fatiche fisiche non può infatti che essere il frutto di una profonda fiducia nelle proprie capacità. Se insomma Michelangelo può ironizzare sulla sua avvilente condizione lavorativa è perché sa che il proprio spessore creativo e intellettuale è tale da non venirne in alcun modo intaccato, ma da risultare anzi esaltato e mitizzato dall’autodenigrazione.51
In questo senso andranno letti anche i versi che compongono la doppia coda del sonetto, sebbene sembrino affermare esattamente il contrario:
         Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
       La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.
Come si è già detto, questi versi costituiscono, per la serietà del loro messaggio, il principale ostacolo a una lettura totalmente comica del sonetto,52 e meritano dunque una trattazione a parte. Nella prima parte della coda (vv. 15-17), il poeta, con uno sguardo che si fa improvvisamente introspettivo, dichiara compromessa la propria facoltà di giudizio a causa della postura contorta e innaturale descritta nei versi precedenti. Come lo «stento», anche il termine giudizio è carico di implicazioni legate al contesto artistico. Il giudizio ha infatti un’importanza capitale all’interno del pensiero estetico cinquecentesco: si tratta di una facoltà che svolge una funzione intermediaria tra intelletto e mondo sensibile, tra teoria e pratica, guidando la mano dell’artista verso la perfetta realizzazione dell’opera. Acquisita attraverso studio e pratica secondo alcuni, innata secondo altri, la categoria del giudizio è sfuggente e estremamente duttile nel Cinquecento.53 Essa è sovrapponibile, almeno in parte, al concetto di “discrezione”,54 ovvero alla capacità dell’artista di adottare, in assenza di regole certe o in situazioni in cui esse non possano essere applicate, soluzioni intuitive. Si tratta insomma di sapere come e quando modificare le regole e i canoni per far fronte a necessità specifiche.55 In questa particolare accezione, il termine giudizio, o il cosiddetto “giudizio dell’occhio”, è spesso associato alla realizzazione delle figure in scorcio, per cui, essendo l’applicazione delle norme proporzionali e prospettiche al corpo umano troppo complessa, il pittore è costretto ad affidarsi unicamente al proprio senso della misura.56 E certo non è un caso che Michelangelo abbia scelto di utilizzare questo termine proprio all’interno di un testo che parla della realizzazione di un’opera che, per la difficoltà degli scorci, per l’adattamento della prospettiva al punto di vista dello spettatore e per la gestione delle deformazioni dovute alla superficie curva della volta, rappresentava un vero e proprio tour de force per la capacità di giudizio del pittore. Tutto ciò sembra, a un primo sguardo, confermare l’interpretazione “seria” di questi versi come aperta dichiarazione di una crisi creativa: la difficoltà fisica e la postura innaturale impediscono al pittore di utilizzare quella facoltà fondamentale alla realizzazione dell’opera che è il giudizio. A uno sguardo più attento, tuttavia, anche questa affermazione si rivela parodia comica di una teoria artistica che il neoplatonico Michelangelo rigettava: quella secondo cui il giudizio dell’artista può essere condizionato e traviato da fattori esterni. Per Michelangelo, infatti, la capacità di giudizio è un dono divino conferito ad alcuni eletti, incorruttibile e innato,57 perché innata è l’idea di bellezza che la guida. Questo pensiero, di stampo chiaramente neoplatonico, emerge in modo evidente in alcuni testi poetici di Michelangelo, come nel caso del sonetto Per fido esemplo alla mia vocazione (n. 164): «Per fido esemplo alla mia vocazione / nel parto mi fu data la bellezza, / che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio» (vv. 1-3).58 In questo senso va intesa anche la celebre metafora delle «seste negli occhi», riportata da Vasari nella lettera in risposta all’inchiesta di Martino Bassi (1557) circa la questione del rilievo dell’Annunciazione da collocare in un timpano del Duomo di Milano, e che tradisce la totale fiducia di Michelangelo nella propria capacità di misurare e valutare intuitivamente le proporzioni delle figure: «Onde diceva il gran Michelangelo che bisognava aver le seste negli occhi e non in mano, cioè giudicio».59 Campione della concezione opposta è, di nuovo, Leonardo, che in un importante passo sull’automimesi, parla del giudizio come di una facoltà che va educata e allenata, perché naturalmente portata all’errore dall’impulso dell’anima ad amare e quindi riprodurre ciò che è simile a sé; in questo senso, secondo Leonardo, il giudizio di ciascuno è modellato sulla propria immagine ed è, dunque, fallace: Sommo difetto è de’ pittori replicare i medesimi moti e medesimi volti e maniere di panni di una medesima istoria, e fare la maggior parte de’ volti che somigliano al loro maestro, la qual cosa mi ha molte volte dato ammirazione perché ne ho conosciuto alcuni che in tutte le loro figure pareva si fossero ritratti al naturale; ed in quelle si vede gli atti e i modi del loro fattore, e s’egli è pronto nel parlare e ne’ moti, le sue figure sono il simile in prontitudine; e se il maestro è divoto, il simile paiono le figure co’ loro colli torti; […] e così segue ciascun accidente in pittura il proprio accidente del pittore. Ed avendo io più volte considerato la causa di tal difetto, mi pare che sia da giudicare che quell’anima che regge e governa ciascun corpo si è quella che fa il nostro giudizio innanzi sia il proprio giudizio nostro. Adunque essa ha condotto tutta la figura dell’uomo, come essa ha giudicato quello star bene, o col naso lungo, e corto, o camuso, e così gli affermò la sua altezza e figura. Ed è di tanta potenza questo tal giudizio, ch’egli muove le braccia al pittore e gli fa replicare se medesimo, parendo ad essa anima che quello sia il suo modo di figurare l’uomo, e chi non fa come lei faccia errore.60 Per combattere tale «mancamento ch’è nato insieme col giudizio», Leonardo suggerisce al pittore di «fare la sua figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di proporzione laudabile».61 La regola, dunque, e lo studio di essa, impedisce al giudizio dell’artista di sviare dalla corretta proporzione: niente di più distante dalla libertà e dalla totale fiducia nel “giudizio dell’occhio”, basata sulla concezione platonica dell’idea innata di bellezza.62 La consequenzialità o interdipendenza tra corpo e mente, tra stato fisico e stato mentale, evocata nella coda del sonetto michelangiolesco, può dunque essere letta nei termini di una parodia di certe teorie artistiche sul giudizio. Il fatto che la deformazione del corpo non sia in questo caso l’effetto dell’errato giudizio dell’anima, ma la sua causa, rende il tutto ancora più paradossale e comico. In particolare, è attraverso la metafora, non del tutto priva di doppi sensi osceni,63 della «cerbottana torta» (v. 17) che Michelangelo realizza il totale ribaltamento comico del concetto di giudizio: la facoltà mentale risulta infatti ironicamente materializzata, come se fosse un dardo che deve attraversare il corpo dell’artista e potesse quindi essere impedito dalla sua deformazione. Una materializzazione del processo mentale che viene sottolineata anche dalla scelta del verbo portare («il iudizio che la mente porta», v. 16).64 La metafora della «cerbottana torta» (v. 17), tuttavia, non può non rievocare nella mente del lettore il paragone, di pochi versi precedente, tra il corpo del poeta e un’altra arma: l’«arco sorïano» (v. 14). Elemento derivato dalla tradizione alta, ma già utilizzato in contesti comici da Burchiello, l’«arco sorïano» è «espressione topica che vale “arco infallibile”».65 Le immagini delle due armi, accomunate dal fatto di essere entrambe strumenti di precisione che implicano il lancio di dardi, risultano però tra loro in profonda contraddizione: se nella metafora della «cerbottana torta» la contorsione fisica è intesa come impedimento, il paragone con «l’arco sorïano» sembra trasformare la stessa deformazione in un carattere positivo, capace di rendere il corpo del poeta-pittore uno strumento infallibile, teso al raggiungimento del proprio scopo. E non è forse un caso che, in un frammento di difficile interpretazione scritto da Michelangelo in margine a uno schizzo per il suo David bronzeo pochi anni prima di intraprendere l’impresa della Sistina (nel 1501-1502 circa), l’artista, paragonandosi all’eroe biblico, abbia scelto come attributo identificativo della propria figura l’arco: «Davitte colla fromba e io coll’arco. / Michelagnolo» (Figg. 2 e 3).66 Secondo l’interpretazione più diffusa, Michelangelo alluderebbe qui al cosiddetto “trapano ad arco”, uno strumento di uso comune in scultura, giocando così sull’ambiguità del termine per creare un parallelismo con la fionda di David e, di conseguenza, tra la battaglia di quest’ultimo contro il gigante Golia e la propria “battaglia” artistica contro il gigante di marmo che è il David stesso.67 In un saggio dedicato allo studio delle implicazioni simboliche dell’arco nel frammento michelangiolesco appena citato, Irving Lavin suggerisce tuttavia che esso possa alludere a un altro tipo di strumento artistico, altrettanto fondamentale, ovvero alle “seste ad arco”.68 L’attributo con cui l’artista si identifica sarebbe cioè proprio lo stesso strumento di misurazione che, nel presunto detto michelangiolesco ricordato sopra («aver le seste negli occhi»), era associato alla facoltà di giudizio.69 Sempre Lavin ricorda inoltre le espressioni “mettersi coll’arco della schiena” o “dell’osso” per indicare un impegno totale nel realizzare qualcosa, e “tendere l’arco dell’intelletto” per esprimere uno stato di intensa concentrazione.70 Il fatto che l’arco sia l’attributo dell’Ingegno nell’Iconologia di Cesare Ripa (Fig. 4), dimostra infine come l’associazione di quest’arma a facoltà mentali e intellettive fosse comune nel Cinquecento.71 Alla luce di ciò, il paragone con l’«arco sorïano» del v. 14 può essere letto come una negazione, pur se lieve e velata, di quanto viene apertamente affermato nei versi successivi circa la compromissione e fallibilità del giudizio dell’artista, figurata nell’immagine perfettamente antitetica della «cerbottana torta» (v. 17).72 Saranno dunque da intendere in senso ironico, come già intuito da vari studiosi,73 anche gli ultimi versi del sonetto (vv. 18-20), dove alla sconvolgente definizione della sua pittura come «morta» (v. 18), ovvero priva di vita e dunque scadente, Michelangelo accompagna una richiesta di difesa della propria opera e del proprio onore che, come nota Antonio Corsaro, è «assurda se intesa alla lettera, stante l’abissale divario di fama e di rilievo culturale tra i due» interlocutori in gioco:74 il destinatario Giovanni da Pistoia, chiunque esso sia, non può infatti aver avuto un prestigio maggiore del grande artista, considerando il fatto che ad oggi non se ne trova più alcuna traccia rilevante.75 A questo proposito sarà forse utile aprire una parentesi per chiarire meglio il significato da attribuire all’aggettivo morta in questo contesto. Il sintagma «pittura morta» (v. 18) suona infatti quantomeno singolare all’orecchio del lettore moderno, e sul suo esatto significato gli interpreti sono divisi: c’è chi vi legge un’eco della «morta poesì» dantesca (Purg. i 7), a sottolineare l’ironica immedesimazione di Michelangelo con un dannato infernale,76 e chi invece tenta di leggervi un’allusione a circostanze biografiche reali, come l’ammuffimento degli affreschi raccontato da Condivi.77 Infine, c’è chi interpreta «morta» come un giudizio qualitativo o potremmo dire “estetico”, parafrasando l’aggettivo con generiche espressioni come «scadente, priva di vita».78 Quest’ultima interpretazione, che mi pare la più valida, è stata suggerita da Robert Clements, il quale fornisce una chiara motivazione a sostegno della sua lettura: l’attribuzione di un significato estetico all’aggettivo morta sarebbe infatti autorizzata dall’uso, diffusissimo nel linguaggio artistico del Cinquecento e anche in Michelangelo stesso, del termine antitetico vivo/a per qualificare positivamente prodotti artistici: «since vivo was the highest accolade paid to Michelangelo’s art, and a consummate compliment when he himself applied it […], the most damning adjective would thus be morto».79 A sostegno di questa interpretazione e per chiarire meglio il significato estetico dell’aggettivo morta mi pare tuttavia utile citare soprattutto un passo leonardesco: Quel movimento ch’è finto essere appropriato all’accidente mentale, ch’è nella figura, dev’esser fatto di gran prontitudine, e che mostri in essa grande affezione e fervore; altrimenti tal figura sarà detta due volte morta, com’è morta perché essa è finta, e morta un’altra volta quando essa non dimostra moto né di mente né di corpo.80 Di nuovo la riflessione di Leonardo sulla pittura sembra dunque insinuarsi nel sonetto, e anche in questo caso l’uso fatto da Michelangelo delle categorie estetiche più comuni è parodico e irriverente: in uno stesso sintagma il pittore rivendica la paternità dell’opera (la «pittura morta» è infatti «mia», v. 18) e la sua staticità, che è come dire la sua totale estraneità ai canoni e alle qualità considerate generalmente indispensabili per la buona pittura. L’ironica e dissacrante rappresentazione di sé culmina infine con una clamorosa presa di distanza: «non sendo in loco bon, né io pittore» (v. 20). In quest’ultimo verso, il poeta rifiuta paradossalmente di identificarsi con l’attività che tuttavia svolge e che costituisce il tema stesso del testo. L’affermazione appare però meno assurda se, come si è cercato di fare, si considera il sonetto nei termini di una rivendicazione polemica di alterità, che si traduce proprio nella negazione di ciò che l’essere pittore idealmente rappresenta. In tal senso, appunto, quella consegnata al sonetto è l’immagine di un “anti-pittore”, o di un “non-pittore” nel senso più tradizionale attribuito a questa categoria.

M. M. S. B.



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Note

1 Si segue la numerazione dell’edizione vulgata delle Rime di Michelangelo: Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di E.N. Girardi, Bari, Laterza, 1960. Un esempio rappresentativo di questo atteggiamento critico in P.L. De Vecchi, Studi sulla poesia di Michelangelo, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», cxl, 1963, fasc. 429, pp. 30-66, in partic. pp. 51-52: «Il sonetto, tuttavia, presenta un interesse molto maggiore sul piano biografico che su quello artistico».torna su
2 A questa immagine, fondamentale per la corretta interpretazione dei versi, e al suo rapporto con la poesia che accompagna, chi scrive dedicherà un altro saggio nel prossimo numero di «Margini».torna su
3 E.N. Girardi, Note alle Rime, in Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., p. 159. L’identificazione suggerita da Enzo Noè Girardi con tale «Giovanni di Benedetto da Pistoia, letterato, funzionario del governo ducale e, nel 1540, cancelliere dell’Accademia fiorentina» (ibid.) si è rivelata errata: Giovanni di Benedetto, infatti, sarebbe nato soltanto nel 1509 (cfr. C. Reggioli, Giovanni da Pistoia, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, vol. 56, pp. 180-82, in partic. p. 181; A. Corsaro, La poesia comica di Michelangelo. Per una nuova edizione dei testi, in «Italique», xvi, 2013 (http://italique.revues.org/376), pp. 195-230, p. 201). Del destinatario del sonetto di Michelangelo si sa dunque, ad oggi, ben poco a parte il nome e il fatto che compose varie poesie indirizzate all’artista. Questi testi sono pubblicati in Michelangelo Buonarroti, Die Dichtungen des Michelangelo Buonarroti, herausgegeben und mit kritischem Apparat versehen von C. Frey, Berlin, De Gruyter, 19642 (1a ed. Berlin, Grote’schen, 1897), pp. 260-62. torna su
4 Si cita il testo dall’edizione curata da Guglielmo Gorni per i Poeti del Cinquecento, tomo i. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, pp. 586-87. torna su
5 Come nota Giuseppe Sorbello «Le insidie dello psicologismo, del resto, si annidano ovunque nella produzione poetica dell’artista fiorentino. L’infelice destino della poesia di Michelangelo (di cui questo sonetto è un caso “paradigmatico”) è stato infatti questo: di essere stata essa troppo a lungo considerata soltanto come un semplice riflesso autobiografico o peggio, come curiosità d’appendice nella vita del grande artista» (G. Sorbello, Una poesia di Michelangelo Buonarroti: il caso del sonetto n. 5. La Volta della Sistina e la nascita del nuovo Adamo, in Forme e storia. Studi in ricordo di Gaetano Compagnino, a cura di A. Manganaro, 2008, vol. ii, pp. 1147-66, la cit. è a p. 1148). torna su
6 Cfr. A. Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia, in Id., La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca tra Cinque e Seicento, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1999, pp. 115-33 (già in «Studi e problemi di critica testuale», xlix, 1994, pp. 97-119): «la cifra specifica del comico, piuttosto che stemperare nel riso l’incubo della bruttezza o della vecchiezza (è così in fondo per i burleschi), carica quei tratti di significazioni accorate e instabili del sé autobiografico, accentuandoli col motivo tutto particolare e grave del fallimento esistenziale e professionale» (ivi, p. 121; mio il corsivo qui e nel seguito salvo indicazione contraria). torna su
7 Cfr. W. Binni, Michelangelo scrittore, Torino, Einaudi, 1975, p. 43: «la base della poesia burlesca quattrocentesca è superata dal maggiore sforzo creativo del risentimento (via ogni facile effetto di comicità) e dall’uso estremo delle immagini realistiche (“e fo del cul per contrapeso groppa”) in una via antiedonistica e antidescrittiva, violentemente espressiva». Tale giudizio, che fa leva sul presunto «risentimento» del poeta, è ripreso quasi alla lettera in P. D’Angelo, La poesia di Michelangelo, Palermo, Herbita, 1978, p. 34. torna su
8 Un problema, questo, già affrontato da Antonio Corsaro (cfr. A. Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e Michelangelo, in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del convegno di Firenze, 7-8 novembre 2002, a cura di A. Galli, C. Piccinini, M. Rossi, Firenze, Leo Olschki, 2007, pp. 117-36, in partic. pp. 123-25). torna su
9 G. Cambon, La poesia di Michelangelo. Furia della figura, trad. di P. Ternavasio (Michelangelo’s Poetry. Fury of Form, Princeton, Princeton University Press, 1985), Torino, Einaudi, 1991, p. 11. torna su
10 D. Romei, “Bernismo” di Michelangelo, in Id., Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534), Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2007, pp. 307-38 (già in Id., Berni e berneschi del Cinquecento, Firenze, Edizioni Centro 2P, 1984, pp. 137-82); la cit. è a p. 321. torna su
11 M. Baratto, La poesia di Michelangelo, in Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di M. Residori, introduzione di M. Baratto, con uno scritto di T. Mann, Milano, Mondadori, 1998, pp. vii-xxv (già in «Rivista di letteratura italiana», ii, 3, 1984, pp. 405-23); la cit. è a p. xxv. torna su
12 Lett. lxii, in Il carteggio di Michelangelo, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze, Sansoni, 1965, vol. i, pp. 88-89, la cit. è a p. 88. torna su
13 Lett. lxx, ivi, pp. 101-02, la cit. è a p. 101. torna su
14 Romei, “Bernismo” di Michelangelo cit., p. 323. Si noti tuttavia come il tono patetico e la curata veste retorica del passo, messa in luce da Romei (ibid.), siano funzionali alla richiesta che segue: «Però non mi sia data più noia, che io no’ ne potrei soportare più un’oncia». Anche in questo caso, dunque, è difficile stabilire con certezza se si tratti o meno di un’esagerazione, finalizzata in questo caso ad arginare le pressanti richieste di aiuto dei familiari. torna su
15 Per la prima cit. cfr. A. Condivi, Vita di Michelangiolo, Firenze, Rinascimento del libro, 1944, p. 53; per la seconda G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, curata e commentata da P. Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, vol. i: Testo, p. 41. torna su
16 Cfr. Condivi, Vita di Michelangiolo cit., p. 44. torna su
17 Ivi, p. 50 (corsivo dell’autore); Matteo Residori sembra collegare il sonetto proprio a questa complicata fase iniziale che vede Michelangelo in grande difficoltà, suggerendo di leggere nella «pittura morta» un riferimento al fatto che l’opera era ammuffita (M. Residori, Commento, in Michelangelo Buonarroti, Rime [1998] cit., p. 11). torna su
18 Vasari-Barocchi, La vita cit., vol. ii: Commento, pp. 447-48. torna su
19 Romei, “Bernismo” di Michelangelo cit., p. 323. torna su
20 Cfr. G. Contini, recensione a Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., in «Lingua nostra», xxi, 2, 1960, pp. 68-72, in partic. p. 69; E.N. Girardi, Studi su Michelangelo scrittore, Firenze, Leo S. Olschki, 1974, p. 74; Romei, “Bernismo” di Michelangelo cit., pp. 323-24; Corsaro, Appunti sull’autoritratto cit., p. 125. A paragone del sonetto michelangiolesco sono solitamente citati due sonetti, caudati anch’essi, di Burchiello: Son diventato in questa malattia e I’ son sì magro che quasi traluco (cfr. Burchiello, I sonetti del Burchiello, edizione critica della vulgata quattrocentesca a cura di M. Zaccarello, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2000, n. lxxxv, pp. 85-86, e n. clxxxvii, pp. 179-80). torna su
21 È questa infatti una delle più tipiche e antiche funzioni della cosiddetta “coda” (cfr. M. Zaccarello, Appunti sulla “mise en page” del sonetto caudato nelle miscellanee poetiche quattrocentesche, in «Quaderni di lingue e letterature», xxxi, 2006, pp. 211-36, in partic. pp. 213 e 215). Si veda in particolare l’esempio di Simone de’ Prodenzani, che affida spesso alla coda distica la funzione di invio e la «richiesta di un chiarimento, meglio se in contesto paradossale e burlesco» (ivi, p. 215). Seppure difficilmente conosciuto da Michelangelo, vale la pena di notare che nella coda di uno dei sonetti di corrispondenza di questo autore si può trovare un’invocazione simile a quella del nostro sonetto: «soccurremi or Simon, prego, e consiglia» (S. De’ Prodenzani, Rime, edizione critica di F. Carboni, Manziana, Vecchiarelli, 2003, vol. ii, p. 575, xlvi, v. 16). torna su
22 P. Orvieto, Poeta comico, poeta disgraziato e maledetto. L’autocaricatura comica. Omosessualità e parodia religiosa, in P. Orvieto e L. Brestolini, La poesia comico-realistica. Dalle origini al Cinquecento, Roma, Carocci, 2000, pp. 127-46, la cit. è a p. 127. torna su
23 M. Zaccarello, Poesia comico-realistica, in Storia dell’italiano scritto, vol. i: Poesia, a cura di G. Antonelli, M. Motolese e L. Tomasin, Roma, Carocci, 2014, pp. 155-93, la cit. è a p. 183. torna su
24 Cfr. ibid.: «Seppure illustrata in termini grotteschi e paradossali, la condizione degradata dell’io (via via catalizzata da povertà, malattia, isolamento ecc.) presuppone un rifiuto più o meno indignato dei princìpi e dei valori del mondo circostante».torna su
25 La maggior parte degli appunti contenuti in questa sezione risale molto probabilmente agli anni del primo soggiorno milanese di Leonardo, a partire dal 1492 circa: cfr. C.J. Farago, Leonardo da Vinci’s Paragone. A Critical Interpretation with a New Edition of the Text in the Codex Urbinas, Leiden-New York-København-Köln, Brill, 1992, pp. 3-17. torna su
26 Come nota Claire Farago la trattazione del tema del paragone nel Cortegiano riprende molti degli argomenti leonardeschi (cfr. Farago, Leonardo da Vinci’s Paragone cit., pp. 18-19). Castiglione, al servizio della corte di Milano dal 1496 al 1499, potrebbe in effetti essere venuto a conoscenza delle idee di Leonardo direttamente dall’artista (cfr. ivi, p. 18, nota 42). torna su
27 DUE LEZZIONI DI / M. BENEDETTO VARCHI, / NELLA PRIMA DELLE QUALI SI / dichiara un Sonetto di M. michelagnolo / Buonarroti. Nella seconda si disputa qua- / le sia più nobile arte la Scultura, o la / Pittura, con una lettera d’esso / Michelagnolo, et più altri / Eccellentiss. Pittori, et / Scultori, sopra la / Quistione so- / pradetta. / IN FIORENZA. / APPRESSO LORENZO TORRENTINO / Impressor Ducale. MDXLIX. torna su
28 Leonardo Da Vinci, Parte prima, in Farago, Leonardo da Vinci’s Paragone cit., §35, p. 256. torna su
29 Ivi, §36, p. 256. torna su
30 Ivi, §35, p. 256; §39, p. 268; §40, p. 272. torna su
31 Cfr. Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971, tomo i, pp. 499-503 e pp. 504-07. Cfr. anche l’intervento di Varchi sul medesimo argomento (ivi, p. 537). torna su
32 L.B. Alberti, Della pittura, edizione critica a cura di L. Mallè, Firenze, Sansoni, 1950, pp. 79-80. torna su
33 Leonardo Da Vinci, Parte prima cit., §36, p. 256. torna su
34 Cfr. Farago, Leonardo da Vinci’s Paragone cit., p. 19. torna su
35 Leonardo Da Vinci, Parte prima cit., §36, p. 256. torna su
36 Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., p. 82, n. 151. torna su
37 Per una cronologia completa degli spostamenti e delle attività che impegnarono i due artisti in questi anni cfr. F.-J. Verspohl, Michelangelo Buonarroti und Leonardo da Vinci. Republikanischer Alltag und Künstlerkonkurrenz in Florenz zwischen 1501 und 1505, Wallstein-Stämpfli, Göttingen-Bern, 2007, pp. 149-71. torna su
38 Cfr. Vasari, Vita di Michelagnolo cit., p. 24. torna su
39 Anonimo Fiorentino, Il codice magliabechiano, hrsg. v. C. Frey, Berlin, G. Grote’sche Verlagsbuchhandlung, 1892, p. 115: «Et passando ditto Lionardo insieme con Giouannj da Gauine da Santa Trinita dalla pancaccia dellj Spinj, doue era una ragunata d’huomini da bene, et doue si disputaua un passo di Dante, chiamero detto Lionardo, dicendogli, che dichiarassi loro quel passo. Et a caso apunto passo di qui Michele Agnolo, et chiamato da un di loro, rispose Lionardo: ‘Michele Agnolo ue lo dichiarera egli’. Di che parendo a Michelagnolo, l’hauessj detto per sbeffarlo, con ira gli rispose: ‘Dichiaralo pur tu, che facestj un disegno di uno cauallo per gittarlo in bronzo et non lo potestj gittare et per vergogna lo lasciasti stare’. Et detto questo, uolto loro le rene et ando uia; doue rimase Lionardo, che per le dette parole diuento rosso». Per un breve commento di questo passo cfr. ivi, pp. 376-77. torna su
40 Si veda G. Vasari, Vita di Lionardo da Vinci, in Id., Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, Firenze, Studio per edizioni scelte, 1976, vol. iv, pp. 15-38, in partic. p. 35. torna su
41 Leonardo Da Vinci, Parte prima cit., §36, p. 256; così le precedenti. torna su
42 Per la difficile datazione di questa lettera cfr. L. Mendelsohn, Paragoni. Benedetto Varchi’s Due Lezzioni and the Cinquecento Art Theory, Ann Arbor (Michigan), UMI Research Press, 1982, pp. 156-58. torna su
43 Barocchi, Scritti d’arte cit., tomo i, pp. 522-23. torna su
44 Cfr. D. Summers, Michelangelo and the Language of Art, Princeton, Princeton University Press, 1981, p. 184: «the emphatic insistence upon the significance of labor and struggle is unique in the paragone debate, in which there was a general insistence upon the intellectual and therefore liberal nature of whatever art was being defended». Cfr. anche ivi, p. 272, dove il concetto michelangiolesco di fatica e di difficoltà è considerato in opposizione a quello di Leonardo. Si noti però che la fatica fisica è ritenuta una categoria positiva anche dallo scultore Francesco da Sangallo, che nella sua confusa trattazione sul tema del paragone, offre una dettagliata rassegna delle difficoltà e fatiche che lo scultore deve sopportare, concludendo: «la scultura aver in sé più difficultà in ogni cosa di gran lunga, e per conseguenzia essere molta più nobile» (cfr. Barocchi, Scritti d’arte cit., tomo i, pp. 509-17, la cit. è a p. 516). torna su
45 A proposito di questa dimensione etica della fatica è interessante la citazione, all’interno della trattazione di Francesco da Sangallo sulla superiorità della scultura (ivi, pp. 115-16), di questi due versi danteschi: «che vuol, quanto la cosa è più perfetta, / più senta il bene e così la doglienza» (Inf. vi 107-108; Dante Alighieri, Inferno, in Id., Commedia, revisione del testo e commento di G. Inglese, vol. i, Roma, Carocci, 2007, pp. 116-17). Estrapolate dal loro contesto e reinterpretate in modo decisamente arbitrario dallo scultore fiorentino, le parole di Dante vengono utilizzate per dimostrare come la maggiore fatica e la conseguente sofferenza fisica sia sinonimo di una maggiore perfezione dell’arte della scultura, ribaltando così uno dei più solidi argomenti utilizzati dai pittori a sostegno della propria superiorità. torna su
46 G. Vasari, Vita di Sebastian Viniziano, in Id., Le vite cit., 1984, vol. v, pp. 85-103, in partic. pp. 101-02, la cit. è a p. 102. torna su
47 Leonardo Da Vinci, Parte prima cit., §36, p. 256. torna su
48 A proposito della nascita e dello sviluppo di queste due tipologie opposte si veda il saggio di E. Di Stefano, Tra cielo e terra. La figura dell’artista nel Rinascimento, in Feritas, humanitas e divinitas come aspetti del vivere nel Rinascimento, Atti del XXII Convegno internazionale di Chianciano Terme-Pienza, 19-22 luglio 2010, a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Franco Cesati, 2012, pp. 623-34. torna su
49 Cambon parla di «ilarità catartica» (Cambon, La poesia di Michelangelo cit., p. 8). torna su
50 Ivi, p. 11. torna su
51 Come nota Cambon, infatti, «Egli sembra voler liquidare tutto lo sforzo con un gesto annoiato; tuttavia l’incongruità tra quel gesto e il risultato permanente dello sforzo non può che accrescere il nostro stupore per il genio nascosto» (ibid.).torna su
52 Cfr. supra, parte 1. Introduzione, pp. 2-3. torna su
53 Si vedano le pagine dedicate a questo argomento da David Summers, Michelangelo and the Language of Art cit., pp. 332-46 e 368-79, e da Robert Klein, ‘Giudizio’ et ‘gusto’ dans la théorie de l’art au Cinquecento, in Id., La forme et l’intelligible. Écrits sur la Renaissance et l’art moderne, Articles et essais réunis et présentés par A. Chastel, Paris, Gallimard, 1970, pp. 341-52. torna su
54 Cfr. Summers, Michelangelo and the Language of Art cit., p. 334; Klein, ‘Giudizio’ et ‘gusto’ cit., pp. 343-44. torna su
55 Klein lo definisce «la conscience critique qui adapte les moyens aux buts» (cfr. ivi, p. 344). torna su
56 Summers, Michelangelo and the Language of Art cit., p. 334. torna su
57 Ivi, p. 370. torna su
58 Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., p. 88. torna su
59 M. Bassi, Dispareri in materia d’architettura e perspettiva con pareri di eccellenti e famosi architetti che li risolvono, in Barocchi, Scritti d’arte cit., tomo ii, pp. 1799-823; la lettera di Vasari è alle pp. 1824-26; la cit. è a p. 1824. torna su
60 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, introduzione e apparati a cura di E. Camesasca, Milano, tea, 1995, Parte seconda, § 105, pp. 75-76. torna su
61 Ivi, Parte seconda, § 106, pp. 76-77. torna su
62 Come nota Martin Kemp, infatti, la posizione di Leonardo è segnatamente anti-platonica (cfr. M. Kemp, ‘Ogni dipintore dipinge sé’: a Neoplatonic Echo in Leonardo’s Art Theory?, in Cultural Aspects of the Italian Renaissance, Essays in Honour of Paul Oskar Kristeller, ed. by C.H. Clough, Manchester, Manchester University Press, 1976, pp. 311-23, in partic. pp. 319-20). torna su
63 Si confronti una metafora sessuale simile in un testo burlesco di Iacopo da Leona, Segnori, udite strano malificio, vv. 3-4: «ch’e’ verso l’aia rizza tal dificio / che tra’ sì ritto, che non falla volta» (Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, a cura di M. Vitale, Torino, utet, 1956, vol. i, pp. 207-8, la cit. è a p. 207). L’associazione tra creazione artistica e procreazione era del resto diffusa nel Rinascimento. torna su
64 Una simile ‘materializzazione’ degradante di parti o facoltà spirituali e intellettuali è riscontrabile anche in altri testi comici di Michelangelo. Si veda in particolare Rime 267 dove, ai vv. 16-21, all’anima del poeta vengono attribuiti caratteri e bisogni fisici e bassi (cfr. Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia, p. 130). torna su
65 Cfr. P. Mastrocola, Commento, in Michelangelo Buonarroti, Rime e lettere, a cura di P. Mastrocola, Torino, utet, 1992, p. 71. Contini fa risalire il topos alla lirica stilnovista, e in particolare a Cavalcanti, ma nota come questa espressione «sembra divenuta di gusto bernesco», dato che compare anche in un’altra composizione burlesca (n. 20) di Michelangelo (cfr. Contini, recensione cit., p. 69). Per il rinvio a Burchiello cfr. S. Fanelli, Commento, in Michelangelo Buonarroti, Rime, introduzione, note e commento a cura di S. Fanelli, prefazione di C. Montagnani, Milano, Garzanti, 2006, p. 95. torna su
66 Si tratta del frammento n.3 riportato in Appendice da Girardi in Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., p. 143. torna su
67 Questa interpretazione è stata avanzata per la prima volta da Marcel Brion, Michelangelo, New York, The Greystone Press, 1940, p. 120, ed è poi stata ripresa e approfondita da Charles Seymour, Michelangelo’s David, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1967, pp. 7-8, 84-85. Si tratta tutt’oggi dell’ipotesi più accreditata dalla critica letteraria e artistica. torna su
68 Cfr. I. Lavin, David’s Sling and Michelangelo’s Bow: A Sign of Freedom, in L’Art et les Révolutions. Conférences plénières, XXVIIème Congrès international d’histoire de l’art, Strasbourg, 1990, pp. 107-46, in partic. p. 112. A sostegno di questa lettura si può addurre anche il curioso simbolo posto a fianco del nome dell’artista sotto la frase citata, che sembra proprio rappresentare delle seste ad arco (cfr. fig. 3). torna su
69 Ibid.; cfr. supra, pp. 13-14. torna su
70 Lavin, David’s Sling cit., pp. 113-14. torna su
71 Ivi, p. 114; già Enzo Noè Girardi aveva del resto suggerito che l’arco stesse a indicare in questa frase l’ingegno dell’artista: «M. vuol forse dire: Davide combatté con la forza, io con la potenza dell’ingegno» (E.N. Girardi, Note all’Appendice, in Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., p. 473). Così anche L. Barkan, Michelangelo. A life on Paper, Princeton, Princeton University Press, 2011, p. 119. torna su
72 Anche Cambon ritiene che «non è affatto erroneo scorgere una somiglianza di senso e funzione nella similitudine comica dell’arco, così come l’impiega il sonetto» rispetto al significato che assume nel frammento riportato a fianco dello schizzo del David bronzeo (cfr. Cambon, La poesia di Michelangelo cit., p. 13). torna su
73 Cfr. Baratto, La poesia di Michelangelo cit., p. xxv: «Il sonetto chiude con un topos di modestia cui non c’è da fare un affidamento assoluto»; Cambon, La poesia di Michelangelo cit., p. 11; Sorbello, Una poesia di Michelangelo cit., p. 1157. torna su
74 Corsaro, Appunti sull’autoritratto cit., p. 126; cfr. anche Id., La poesia comica di Michelangelo cit., p. 202: «Giovanni da Pistoia è figura minore, cui certamente Michelangelo non poteva pensare di affidare il suo onore» (corsivo dell’autore). torna su
75 Cfr. supra, p. 1, nota 3. torna su
76 Così Sorbello, Una poesia di Michelangelo cit., p. 1154; una lettura fondata sull’intertestualità dantesca è suggerita anche da A. Corsaro, Commento, in Michelangelo Buonarroti, Rime e lettere, Introduzione, testi e note a cura di A. Corsaro e G. Masi, Milano, Bompiani, 2016, p. 1017. torna su
77 Cfr. Residori, Commento cit., p. 11; si veda anche supra, p. 4, nota 16. torna su
78 Mastrocola, Commento cit., p. 71; Paola Mastrocola offre anche un’altra parafrasi del sintagma: «la pittura di uno che è come morto» (ibid.). torna su
79 R.J. Clements, The Poetry of Michelangelo, New York, New York University Press, 1965, p. 92. Interpretazione condivisa anche da Susanne Gramatzki, che ricorda come l’aggettivo opposto vivo/a sia ripetutamente utilizzato come attributo estetico nelle poesie di Michelangelo (cfr. S. Gramatzki, Zur lyrischen Subjektivität in den Rime Michelangelo Buonarrotis, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2004, p. 22, nota 19). torna su
80 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura cit., Parte terza, § 293, pp. 157-58. torna su