3, 2009
 
Saggi    
 
 Abstract


Isabella Becherucci

Dediche manzoniane


    Como todos los actos del universo, la dedicatoria de un libro es un acto mágico. También cabría definirla come el modo más grato y más sensibile de pronunciar un nombre.
    (J. L. Borges)

Che Manzoni non fosse uomo amante di quel côté politico e propagandistico del lavoro di artista, per altri autori suoi contemporanei − a partire dal Maestro Monti − parallelo se non predominante a quello creativo, è cosa ormai acclarata dalla critica tutta nonché dai suoi numerosi biografi, concordi nel tratteggiarne la fisionomia di timido, ritroso, financo scorbutico personaggio, tutto ripiegato sui due versanti più intimi della sua esistenza: quello di poeta, scrittore e studioso e quello di marito innamorato e padre di un nutrito gregge di pargoletti. Un universo chiuso, con qualche concessione agli amici «pochi e valenti», scandito dal monotono alternarsi dei consueti soggiorni tra casa in città e villeggiatura in campagna. Così, ne è del pari ben noto l'atteggiamento di estrema prudenza nei confronti delle manifestazioni politiche e letterarie che gli ribollivano tutt'intorno in quell'ardente stagione della prima metà dell'Ottocento, quel non voler compromettersi più di tanto, quella circospezione o neutralità disarmata che non a caso avrebbe attribuita sùbito al primo personaggio del suo romanzo e che di fatto gli permise di passare indenne attraverso la bufera dei processi del 1821. E, a ulteriore conferma di una predisposizione caratteriale sempre più accentuatasi negli anni, si aggiunga la ferma decisione di «non entrare in qualsivoglia associazione letteraria» né di accettare mai «alcuna distinzione [...] che sia visibile e permanente»: ché «quanto si nega alla vanità, torna in profitto della quiete» e «a tenersi in basso, molti colpi si schifano, e quelli che non si può, si portano più leggermente» (quasi una variazione della conclusione di un'opera tanto criticata, quell'Arcadia giudicata «una scioccheria», a dimostrazione che niente ci è più vicino di ciò che si rifiuta: «Con ciò sia cosa che chi non sale, non teme di cadere; e chi cade nel piano, il che rare volte adiviene, con picciolo agiuto de la propria mano senza danno si rileva»).1 In una siffatta cartella clinica trova naturalmente una sua precisa giustificazione anche il rifiuto istintivo per qualsiasi dichiarazione di carattere personale da eventualmente rilasciare nelle parti preliminari delle opere stampate e soprattutto la scarsa pratica se non, da un certo momento in poi, vero e proprio disinteresse, per quella sorta di finestra privata, pubblicamente aperta sulla soglia di un volume, costituita dalle dediche d'opera: nate inizialmente, secondo Gérard Genette, con finalità prioritariamente economiche e mantenute nel corso dei secoli sempre per motivazioni intrinseche di tipo clientelare e pratico; quelle motivazioni che, in termini moderni, si potrebbero definire anche come di auto-promulgazione del proprio prodotto.2 Niente di più contrario, si diceva, all'indole manzoniana che, di fatti, messo a fronte alla concreta realizzazione di una dedica secondo il cliché più collaudato del genere, reagì con irruenza e decisione, recidendo nettamente la questione. E apparentemente troncando sùbito anche il discorso che stiamo qui cercando d'imbastire. Si tratta della vicenda, non meno nota agli studiosi che ai bibliografi manzoniani, della dedica arbitrariamente premessa dall'amico e compagno di studi Giovan Battista Pagani alla seconda edizione (quella milanese, presso il De Stefanis, nello stesso 1806 della princeps) del carme In morte di Carlo Imbonati: di quel carme composto per l'amatissima madre da poco ritrovata e solo a lei dedicato, come specificato nel sottotitolo Versi / di Alessandro Manzoni / a Giulia Beccaria / sua madre, alla cui prima tiratura, in edizione non venale in soli 100 esemplari per i tipi di P. Didot il maggiore, Manzoni aveva incaricato gli amici Pagani e Arese di fare seguire una seconda italiana.3 Nient'altro era stato a loro richiesto, se non quello di «aggiungere al suo nome un titolo di cui si gloriava», di mettere, cioè, sul frontespizio «Alessandro Manzoni Beccaria».4 Era, dunque, solo nella veste, ben appariscente perché ribattuta in apertura dell'elegante volumetto, di difensore della dignità di quel nome materno tanto chiacchierato nella società milanese (e a cui nel carme si allude, pur trasponendo le accuse su se stesso) che il giovane poeta aveva voluto ripresentarsi a quei vili che «contra il suo nome armaro / L'operosa calunnia» (vv. 160-61). Il breve inciso epigrafico della dedica alla madre del primo componimento pubblico del giovane Alessandro − a parte l'episodico precedente del sonetto Come il divo Alighier l'ingrata Flora stampato in fronte al primo volume dell'opera di Francesco Lomonaco Vite degli eccellenti italiani con una dedica sicuramente non dell'autore −5 prescindeva affatto dai tradizionali motivi della prassi dedicatoria per annoverarne dunque uno certamente insolito: quello della difesa pubblica della libertina Giulia Beccaria, espatriata con l'amante definitivo dopo aver abbandonati marito e figlio, poi ribadita nel carme attraverso il ritratto commosso del virtuoso amante di lei e l'esaltazione proprio di quell'amore tanto criticato. Quanto Manzoni tenesse allora a quella sua composizione, immediatamente cominciata a scrivere l'indomani del ricongiungimento parigino con la madre immersa nel dolore per la recente perdita dell'amico, di colui anche che aveva voluto farsi padre e maestro, invitandolo sua sponte a soggiornare con loro, emerge chiaramente non solo dall'offerta a Giulia di un magnifico esemplare pergamenaceo, rilegato in pelle nera, con incisa sul frontespizio la sigla a tre maiuscole «AGC» (evidentemente Alessandro, Giulia, Carlo), ma anche dall'omaggio di questo, quasi biglietto di visita, a quel bellissimo uomo e noto intellettuale, amante dell'amica della madre Sophie de Condorcet, non certo senza qualche aspettativa di accoglienza nel nuovo ambiente letterario a cui la Beccaria stessa, forte anch'essa di quel cognome particolarmente apprezzato in Francia, voleva introdurlo: primo anche degli omaggi a Claude Fauriel, poi proseguiti nel tempo, delle sue opere (si pensi a quello di lì a poco offertogli dell'Urania, elegantemente rilegata in marocchino rosso con fregi in oro e le iniziali «C.F.» impresse sul piatto anteriore) e pietra miliare dell'imprescindibile e duraturo sodalizio francese, sancito dalla lunga lettera, la prima e unica in italiano, del 9 febbraio 1806 in risposta ai ringraziamenti e lodi del Fauriel, purtroppo perduti, per il dono. La breve dedica alla madre, la prima si è detto volutamente resa pubblica, in ogni caso non faceva che rinnovare una modalità già esperita in forma privata dal giovanissimo poeta: a partire dall'epigrafica intestazione «A Vincenzo Monti» segnata in testa alla lettera accompagnatoria dell'inedito idillio giovanile Adda, cioè su «quell'opera d'un giorno» con la quale il diciottenne Alessandro invitava, per bocca del fiume stesso, l'ancora tanto ammirato poeta di Alfonsine a venirlo a trovare nella sua villa del Caleotto, sopra Lecco, non lontana appunto dall'Adda. Ma si era trattato qui, come poi ancora in quello che ormai è invalso stampare come primo Sermone, «A Giovan Battista Pagani», di quelle particolari dediche di «opere internamente indirizzate a un destinatario particolare [...] nelle quali il testo e la sua dedica sono inevitabilmente consustanziali» e pertanto, «preliminarmente» escluse dall'indagine tipologica di Genette.6 Anche quelle manzoniane, infatti, più che dediche vere e proprie, non erano in realtà altro che un indirizzarsi ad un preciso lettore, quasi un appello di partecipazione, che manifestava implicitamente la necessità per un poco più che adolescente di ricercare un interlocutore privilegiato a cui sottoporre i suoi primi parti poetici e da cui possibilmente ricavare approvazione: ricerca peraltro già palese anche nei reiterati encomi al "Maestro" Monti che affiorano di volta in volta nelle composizioni giovanili di questa prima stagione poetica.7 Così, fra le dediche giovanili non stampate, è tornata da poco in circolazione quella prima e lunga dedicatoria al recente amico parigino, già destinatario − si è detto − di una copia del Carme per l'Imbonati, con cui l'ancora firmatario Alessandro Manzoni Beccaria inviava a Parigi ben quattro opere di Vittorio Alfieri stampate dalla prestigiosa tipografia di Kehl assieme a trentasei versi sciolti, impressi su un foglio di pergamena, nel verso del quale sono segnate le tre righe di indirizzo al Fauriel: «Piaccia all'ottimo C. Fauriel gradire il dono di questi libri, e legger solo i pochi versi, che coi libri, offre a lui solo la vera ed immutabile amicizia di A. M. B.».8 E la poesia, che resta senza dubbio una testimonianza importante del primo "tempo" di quel complesso rapporto col grande tragediografo che si concluderà con il suo totale rifiuto, si chiude per l'appunto giocando proprio su una dedica, come sùbito aveva messo in luce il compianto Franco Gavazzeni, primo suo commentatore. Infatti, dopo l'ammonizione dell'autore ai suoi versi di parlare solo delle opere che determinano la grandezza dell'Alfieri (e non dell'infelice traduzione dell'Eneide), è lasciato solo lo spazio per un ultimo verso che, appunto, «l'onor gli dica di Vittorio, e il chiami», con autocitazione dal sonetto Novo intatto sentier segnami, o Musa (poi ripreso anche nel Sermone terzo e, con variazione, anche nel carme In morte di Carlo Imbonati), «primo signor de l'italo coturno»: «come è noto il verso ricalca, sul modello di Petrarca, Triumphus Fame III 15 "Primo Pintor delle memorie antiche", l'endecasillabo di dedica apposto dall'Alfieri sul primo volume dell'edizione senese delle Tragedie (1783) donato dall'autore al Parini [«All'Abate Parini Primo Pittor del Signoril costume]».9 Si poteva passare così in uno stesso componimento dalla dedica al Fauriel alla citazione di una dedica dell'Alfieri proprio in conclusione dei versi, a riprova della non indifferenza del giovane poeta alla prassi dedicatoria. Fra l'altro ispirata senza dubbio a quelle che inizialmente Manzoni aveva idealizzate come consuetudini proprie dell'Astigiano, in virtù del cui nome ed esempio si poté opporre, appunto con irruenza, allorché venne a conoscenza del non autorizzato intervento dedicatorio del Pagani nella prima ristampa di quel suo carme, a lui carissimo anche per tutta quella sua valenza di consuntivo di una stagione poetica e non a caso impregnato proprio di reminiscenze alfieriane (in particolare dal prosimetro Della virtù sconosciuta).10 Il Pagani, infatti, l'aveva fatta grossa: la sua epistola dedicatoria, preceduta da un'intestazione epigrafica particolarmente ridondante, all'amico nonché ancora Maestro Vincenzo Monti, sembra addirittura la caricatura di quelle scarne righe che sarebbero, semmai, potute uscire dalla penna riservata di Alessandro (proprio in senso fisico, potendo essere quella manzoniana solo privata, poiché già c'era la dedica d'opera); uno di quegli scherzi giovanili che gli amici del collegio del Longone si erano fatti per anni e su uno dei quali si apre appunto l'epistolario manzoniano; quasi una parodia, insomma, delle confidenze dell'amico e delle aspettative che le nuove emozioni poetiche nascondevano fra le pieghe di quegli sciolti già praticati, con ben altro timbro, nei Sermoni. Senza vergognarsi addirittura di attingere da informazioni private sul privilegiato rapporto discepolo-maestro, citando quasi esattamente dal carteggio intercorso tra i due... c'era di che far infuriare il poeta (e la di lui madre) del bel servizio del suo compagno di scuola... S'incominci dall'intestazione,
A Vincenzo Monti
istoriografo del regno d'italia
membro della legion d'onore dell'istituto
professore emerito di pavia
ed elettore nel collegio de' dotti
dove, se l'elenco delle cariche ufficiali a quella data riflette il periodo di massimo splendore di cui Monti godeva nel regno napoleonico, tuttavia non può non colpire la puntigliosità con cui il l'ex allievo dell'università di Pavia, ma ormai da tempo anche intimo amico, ne stilava le onorificenze, a partire dalla più recente. Alla investitura dell'agosto del 1805, direttamente dal neo Re d'Italia, di storico ufficiale di corte (che sostituiva quella precedente e preferita di «poeta del governo italiano» del 1804), si aggiungeva sùbito la menzione della promozione a membro pensionato (al posto del defunto Lodovico Savioli) dell'«Istituto Nazionale», presso il quale l'indomani della sua fondazione nell'appena nata Repubblica Italiana (1802) era già stato designato, dall'allora Primo Console per la sezione di «Lettere e belle arti» ubicata a Bologna, tra i primi 30 accademici nominati «legionari»; da poco divenuto «emerito» da Professore all'Università di Pavia, dove aveva ricoperto, dal 1802 al 1804, la cattedra prima di «Eloquenza e poesia» e poi di «Eloquenza latina ed italiana», alcune delle cui lezioni dovevano essere state seguite anche dal Manzoni, manteneva tuttavia la designazione di Elettore nel Collegio dei Dotti (uno dei tre collegi del Corpo elettorale della ex Repubblica Cisalpina, anche questo con sede a Bologna). Davvero sorprendente il tono formale, ufficiale, dell'epigrafe, non meno del complemento di termine ad incipit della susseguente lettera dedicatoria, «Al principe de' poeti moderni», che mentre ripete il modulo ricorrente dell'innalzamento del dedicario rispetto al dedicante, sembra tuttavia far eco, fra le tante menzioni encomiastiche del Monti nelle composizioni manzoniane di quegli anni, almeno a quella segnata in una delle note di quel poemetto tutto montiano Del Trionfo della libertà, poi ripudiato dall'autore ma il cui manoscritto era stato regalato proprio al Pagani nell'imminenza della sua partenza per Parigi: «Il più gran poeta [poi corretto in «Un gran poeta»] de' nostri tempi».11 Ma prima di procedere ad una messa in luce del tono tutto sopra le righe dell'epistola, proprio nel recupero delle formulazioni consuete all'epigrafia sette-ottocentesca, sarà il caso di riprodurne per intero quel testo che, seppure compresso nella puntuale nota alla lettera di risposta del Manzoni, è tuttavia ben noto forse non solo ai manzonisti: − Al principe de' poeti moderni è certamente convenevole il sacrare un lavoro poetico12 di giovane ingegno, che già manda gran luce e riempie gli animi bramosi de' letterati di una ferma speranza che nella nostra Italia non verrà interrotta la solita successione dei buoni cultori delle muse. Nè posso credere che questi versi sieno per riuscirvi discari, sendochè Voi stesso, per amor delle lettere, stimolaste più volte l'autore a deporre quella incomoda timidezza che il tratteneva dal pubblicare alcune delle molte sue belle rime, studiandovi con magnifiche e vere lodi renderlo più giusto conoscitore di sè medesimo. Io li presento al pubblico con nuova edizione, giacchè le poche copie della prima fatta in Parigi non hanno bastato alle molte richieste di coloro, che il plauso universale facea vogliosi di possederli. Questi voti e questi encomi pare che vestano d'un novello lume di verità il vostro vaticinio; chè il Manzoni, il volendo, terrà uno de' più eminenti seggi del Parnaso italiano. − Accettate con animo cortese quest'omaggio che l'editore e il poeta vi offeriscono con fiducia, e continuate loro la vostra benevolenza. − Il vostro ossequioso e devoto amico. − Giambattista Pagani. Bresciano.13 Evidente la ripresa di tutti gli stilemi del genere, a partire − dopo la citata esibizione dei titoli accademici del dedicatario nell'epigrafe − dalla ripresa del consueto sintagma «sacrare un lavoro» al coinvolgimento di responsabilità del dedicatario stesso nell'operazione («voi stesso stimolaste più volte l'autore [...] a pubblicare»; «il vostro vaticinio»), e fino al duplice imperativo in conclusione («accettate» e «continuate la vostra benevolenza») che associa improvvisamente al promotore dell'iniziativa anche il poeta, fino al consueto abbassamento del dedicante nella formula che precede la firma.14 Ugualmente evidente l'iperbole della fama del «giovane ingegno» − di fatto proclamata pubblicamente solo dall'intestazione apposta al sonetto per la vita di Dante − e che tuttavia sarà rilanciata proprio per questo carme dalla nota che il Foscolo, ben consapevole di questa dedica, apporrà di lì a poco al v. 280 dei Sepolcri, proprio citandone un ampio estratto («Poesia di un giovane ingegno nato alle lettere e caldo d'amor patrio: la trascrivo per tutta lode, e per mostrargli quanta memoria serbi di lui il suo lontano amico»): iperbole ripresa ed ampliata nelle successive affermazioni superlative del «plauso universale» dell'opera del poeta e della sua conseguente ascesa agli «eminenti seggi del Parnaso italiano». E infine evidente, allora solo agli stretti amici resi partecipi del compiacimento di Alessandro per le lodi del comune Maestro e ora (dopo la pubblicazione del Carteggio a cura di G. Sforza e G. Gallavresi) anche al pubblico dei posteri, quello sfoggio delle informazioni private che il Pagani aveva potuto fare solo approfittando della sua partecipazione nei vivaci rapporti tra dedicante e dedicatario in quegli anni nonché conoscenza degli scambi epistolari intercorsi tra i due, e che al Manzoni dovette suonare sùbito come alto tradimento; basti dire che la subordinata causale implicita «sendoché Voi stesso, per amor delle lettere, stimolaste» e soprattutto il «vaticinio» conclusivo sono quasi citazione se non della lettera del Manzoni in accompagnamento dell'Adda («Voi mi avete più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta»), sicuramente della risposta del Monti: Non sono adulatore, mio caro Manzoni, ma credimi sincerissimo quando ti dico che i versi che m'hai mandati son belli. [...]. Dopo tutto, sempre più mi confermo, che in breve, seguitando questo passo, tu sarai grande in questa carriera e, se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po' più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali. Ma io non sono da tanto da poterti fare il dottore.15 La violenta reazione del Manzoni, tanto da indurlo a preparare un articolo di sconfessione poi non pubblicato, è testimoniata dalla lettera all'amico l'indomani della presa visione di tanto ardire, dove proprio l'Alfieri, ancora «modello di pura incontaminata vera virtù» (e così anche nel carme, assieme al Parini, quest'ultimo appunto «scola e palestra di virtù»), è citato anche come esempio di perfetto dedicante: A Giovan Battista Pagani − Brescia [Parigi] 18 aprile 1806 Caro Pagani,
Mi sento un bisogno continuo di parlarti sempre dell'affare che tanto mi preme. Più mi sforzo a leggere quella dedica, e più cresce la n[ost]ra meraviglia. E non solamente noi due, ma tutti quelli che la vedono ne sono stranamente sorpresi. Io aveva parlato ad un Italiano di questa dedica: egli ne domandò conto ultimamente ad uno che l'ha avuta sotto gli occhi. Quando intese che la dedica era pure in nome del poeta, non lo voleva credere assolutamente. È impossibile; questa è la prima parola di tutti quelli a cui ne parlo. E a voi pare una singolarità la nostra!
Tu mi parli di Alfieri (la cui vita è una prova del suo pazzo orgoglioso furore per l'indipendenza, secondo il tuo modo di pensare; e secondo il mio un modello di pura incontaminata vera virtù di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo di cui debba arrossire). Ebbene, Alfieri dedicò. Ma a chi e perchè dedicò? Dedicò a sua madre, al suo amico del cuore, a Vashington, al Popolo Ital[ian]o futuro, ec. ec.
A quest'ora avrai ricevuto l'articolo. Spero che la ragione l'amicizia e la delicatezza ti persuaderà a pubblicarlo. Ad ogni modo è in te il farne quello che ti pare.
Scrivimi amami e vale. Il tuo Manzoni B.a16
Integrando le citazioni manzoniane delle dediche delle tragedie dell'Astigiano, anche col soccorso del lavoro di Maria Antonietta Terzoli:17 «dedicò a sua madre» (la Merope), «al suo amico del cuore» (e qui non si sa se l'allusione sia all'Antigone e alla Congiura de' Pazzi per il cittadino senese Francesco Gori Gandellini riconosciuto «primo de li suoi amici», la prima in vita e la seconda in morte o se, citando alla lettera dalla dedica del Saul, all'altro «amico del cuore» rimastogli e di più vecchia data, l'abate Tommaso Valperga di Caluso), «Al chiarissimo e libero uomo il generale Washington» (il Bruto primo), «Al popolo italiano futuro» (Bruto secondo). E al pieno delle integrazioni si viene altrettanto nettamente a contrapporre il vuoto dell'assenza, nel ricordo manzoniano, delle bellissime dediche in versi alla sua donna, la contessa Luisa Stolberg d'Albany, in fronte alla Mirra e alle due Alcesti, certo non imputabile alla pruderie dell'ancora lontano dal divenire cattolico integrale che avrebbe ripudiato la sua prima stagione poetica e alcuni dei suoi modelli (fra cui proprio l'aristocratico, fieramente laico e misogallico, Alfieri), quanto piuttosto alla precisa scelta delle esemplificazioni che potessero calzare alla sua situazione personale di eventuale dedicante che, difatti, a quell'epoca non contemplava al suo fianco altra donna. Tanto era stata forte l'attenzione al modello della prassi dedicatoria alfieriana che, fra gli episodi della Vita − appena uscita negli ultimi due volumi delle Opere postume e sùbito acquistata da Giulia Beccaria e suo figlio − il primo a colpire l'attenzione del giovane Manzoni dovette essere proprio quello della dedica del Saul, offerto per «viltà, o debolezza, o doppiezza (perché una di queste tre fu per certo, se non tutte e tre, la motrice del suo operare in quel punto)», a quel Pontefice Pio VI che nient'affatto stimava, anzi che «teneva per assai minore di in linea di vero merito», al fine di «crearsi in lui un appoggio contro alle persecuzioni ch'egli già parea presentire nel cuore, e che poi in fatti circa un mese dopo gli si scatenarono contro»:18 contraddicendo vistosamente la tesi manzoniana di appena due anni prima di una virtù tutta alfieriana dell'arte del dedicare, tanto da indurre il giovane quasi deluso a soffermarsi sulla confessione del «divin, et [ora] quelquefois trop humain Alfieri» nella lettera al Fauriel del 6 dicembre 1808, dopo un rapido accenno a quel ridicolo ritiro a Cézannes che i due avevano già avuto modo di commentare oralmente: Il fait des confessions qui ont dû lui couter beaucoup, êtant de choses tout-à-fait opposées à sa maniere de penser et d'êcrire, et ignorées de tout le monde. Il avoue entre-autres qu'êtant presenté au Pape Pie VI qui lui parlait des tragedies qu'il avait pubbliées, et qui lui demandait s'il n'en avait pas fait d'autres, il dit au Pape, qu'il avait fait un Saul, et qu'il priait le S. Père d'en accepter la dedicace, ce que Pie VI refusa.19 E tuttavia, malgrado l'affievolirsi della sua venerazione per il padre della tragedia italiana, evidenziato anche dalla presa d'atto di quelle debolezze che la Vita denunciava ampiamente, è sull'intero campionario dei dedicatari delle tragedie dell'Alfieri (ossia, con la Terzoli, dal «mondo di affetti privati, di legami familiari o di rapporti ideali: madre, donna amata, amici stretti e personaggi insigni, che hanno combattuto per la libertà del loro paese»)20 che si modelleranno le poche dediche manzoniane. Così, dopo i versi del carme per l'Imbonati offerti a sua madre e a nessun altro, è per l'amico francese la breve iscrizione sul frontespizio della princeps del Carmagnola, che unisce alla dichiarazione dell'amicizia anche il sentimento di riverenza nei confronti del più maturo e affermato scrittore:
Al Signor
carlo claudio fauriel
in attestato
di cordiale e riverente amicizia
l'autore
Ma quante cose erano nascoste dietro quelle contenute righe d'intestazione della prima tragedia...: che non erano solo la manifestazione pubblica delle infinite e costanti effusioni epistolari di un trasporto davvero eccezionale e di un'assoluta venerazione verso colui che era stato sùbito definito, addirittura col pleonastico lapsus calami, «l'homme qu'il cherchait, et l'homme dont il voudrait être l'ami, et le disciple, et l'ami»;21 né solo la risposta più prevedibile verso chi già si era offerto per primo di dedicargli un lavoro (quegli studi su Dante che mai avrebbero visto la luce): e si ricordi l'emozione con cui il più giovane amico accettava l'omaggio nel febbraio 1811 («Je ne peux pas vous cacher que mon amour propre est flatté de la manière la plus vive de votre intention de me le dédier. Je n'aurais jamais osé l'esperer, mais puisque ça vous a passé par la tête, pourquoi vous dissimulerai-je le plaisir que j'en ai?»).22 La dedica era in realtà il frutto più maturo di quel ripensamento generale del suo rapporto, messo in discussione, dopo la conversione e il totale cambiamento di vita − rispecchiato anche nel quasi assoluto silenzio epistolare degli anni 1813-15 − più che con l'amico, con cui era impossibile recidere completamente legami così profondi, con tutto l'ambiente parigino e la sua troppo liberale filosofia di vita. Tanto è vero che, dopo le poche righe «scritte alla svelta» agli inizi del 1816 con cui si riprendeva la corrispondenza interrotta inviandogli un esemplare della recentissima stampa degli Inni sacri, a meno di due mesi segue la lunga lettera del 25 marzo seguente, venata di nostalgia e di acutissimo desiderio verso quel mondo abbandonato troppo forzosamente, che contiene, assieme all'annuncio dell'incominciato Carmagnola, la richiesta di consenso per la dedica già preparata nella sua testa. Lettera straordinaria, imprescindibile, dove è descritto tutto un mondo di affetti non sradicabili, benché ci avesse provato in tutti i modi il suo direttore di coscienza, Monsignor Luigi Tosi, un ambiente insostituibile anche nelle sue connotazioni fisiche (non era certo sufficiente quella "montagnetta" di Brusuglio!) e dove il nucleo stesso del rapporto col Fauriel viene riconosciuto intatto, malgrado la tempesta della conversione; lettera che duole di dover ritagliare per marginali rilievi stilistici, quali l'anafora di combien, ora avverbio ora aggettivo esclamativo, dapprima introdotto in discorso indiretto e poi sempre ad attacco di periodo, a sintomo evidente del carico emotivo che le immagini del teatro arcadico della loro amicizia e il ricordo nitido e impellente delle conversazioni abituali che vi si erano tenute si trascinavano dietro (e se ne ricorderà Gertrude, con tutto quel suo tormento del ricordo e della coscienza: «Quante volte al giorno l'immagine di quella donna veniva a cacciarsi d'improvviso nella sua mente [...]! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale [...]! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei [...]!»):23 Monsieur Trechi vous parlera de notre famille plus au long que je vous en écris, il vous répètera combien nous vous regrettons, combien notre pensée est souvent avec vous. Je n'ai jamais senti le prix de votre amitié comme à présent, jamais comme à présent je n'ai regretté votre société. [...]. Combien de fois en méditant sur quelque chose qui m'intéresse, je me figure d'en causer avec vous, combien de fois au milieu de quelque discussion pénible je pense que je me trouverais d'accord avec vous [...]. Combien de fois en faisant l'application à moi même je l'ai trouvé de toute vérité!24 Era stato un periodo di forte travaglio interiore quello che finalmente Manzoni ha ora il coraggio di descrivere all'amico, che aveva acutizzato e reso ormai croniche «le sue inquietudini, angosce, agitazione insopportabile», insomma, quel «suo mal di nervi» per il quale l'unico rimedio possibile era forse quello di un viaggio (ma non osava ancora pronunciare la destinazione veramente desiderata, quella Parigi, per la cui proposta ci vorrà ancora un anno…). L'unico «balsamo» per lui, non certo rinvenibile nella société, al contrario attiva a ricordargli di continuo la sua malattia coll'espediente − proprio come poi Donna Prassede con Lucia − di suggerirgli «dieci volte al giorno» di non pensarci e di stare allegro, poteva venire solo dalla conferma dell'immutata amicizia anche da parte del Fauriel e la ripresa dei loro caldi rapporti di un tempo. È, dunque, in questo contesto di struggente rievocazione e parimenti commosso "attestato" del valore indiscutibile dell'amicizia per la piena condivisione sulle «idées grandes et nobles», persino su quelle «morales», che è presentato all'amico anche il progetto della prima tragedia e della connessa dedica: J'ai presque honte de vous parler de projets littéraires, après en avoir tant conçu et exécuté si peu, mais cette fois j'espère achever une tragédie que j'ai commencé avec beaucoup d'ardeur et d'espoir de faire au moins une chose neuve chez nous. J'ai mon plan, j'ai partagé mon action; j'ai versifié quelques scènes, et j'ai même préparé dans ma tête une dédicace à mon meilleur ami: croyez-vous qu'il l'acceptera? Le sujet c'est la mort de François Carmagnola [...].25 È ormai acquisito da tempo alla storia di questa prima tragedia il diverso andamento del progetto qui presentato, apparentemente così ben incamminato (anche alla luce del nuovo modello tragico cui ispirarsi, sùbito presente nella filigrana del Carmagnola, di contro a quel linguaggio retorico «le plus froid et le moins adapté à produire des mouvements sympathiques» di cui erano impregnate tante tragedie italiane, prime fra tutte le già ammirate alfieriane) e di cui si torna a parlare nella successiva lettera proprio in rapporto alla promessa dedica («Mon travail avance toujours, et je fais ce que je peux pour le rendre moins indigne de vous être offert»: 13 luglio 1816): per il sopraggiunto diniego del passaporto − del quale gioirono i suoi confessori Degola e Tosi − e con questo l'impossibilità di terminare la tragedia proprio sotto gli occhi dell'amico, a cui seguiva anche un rinnovato rarefarsi della corrispondenza epistolare, e soprattutto per la stesura delle Osservazioni sulla Morale Cattolica. Finalmente «il diavolo» si mescolò alla distrazione anche della prevista seconda parte di quelle e l'opera tragica, dopo un intero anno di sospensione, poté rapidamente essere conclusa pochi giorni prima della partenza di tutta la famiglia alla volta di Parigi, come testimonia, dopo già l'annuncio del figlio, anche il post scriptum ad una successiva lettera (3 ottobre 1819) dell'entusiasta Giulia Beccaria: Oui mon ami, nous venons et j'emporte avec moi une Tragedie dont Alexandre a laissé a Milan une copie pour la faire imprimer, il vous avait demandé la permission d'y metre une petite inscription dedicatoire a vous, la reponse n'etant pas venue, il a juge à propos de s'aproprier le proverbe Italien Chi tace, conferma. Adieu. Oh ne soufrez donc pas! Je vais ecrire a ma chere amie.26 Se queste sono, dunque, le vicende esteriori della dedica manzoniana del Carmagnola, oggettive si potrebbe dire in quanto testimoniate dal carteggio e di volta in volta già messe in luce da critici, filologi, biografi e magari colti lettori, nel campo invece tutto arbitrario dell'interpretazione un filo del "canonizzato" collegamento tematico che corre spesso fra la dedica e l'opera in oggetto sembrerebbe emergere proprio dal cuore stesso della tragedia. Perché, se è vero che il suo «soggetto è la morte di Francesco Carmagnola», ovvero l'ingiusta condanna del condottiero milanese passato al soldo del governo veneziano, è vero anche che a fianco della «tragedia del potere», imbastita sulla puntuale e approfondita documentazione delle fonti storiche, si profila nella seconda parte (quella composta tutta insieme nell'estate del 1819), attraverso il personaggio ideale di Marco, anche il dramma dell'amicizia e della responsabilità di questo sentimento: «Io non doveva / Essergli amico: io lo cercai; fui preso / Dall'alta indole sua, dal suo gran nome. / Perchè dapprima non pensai che incarco / È l'amistà d'un uom che a gli altri è sopra?» (Atto IV, scena IV, vv. 315-19). Nel conflitto di Marco, dapprima di fronte ai tre inquisitori veneziani e poi nell'a solo con la sua anima, come non vedere anche il riflesso del lungo dibattersi di Alessandro, pressato da altrettanto severi censori di una ugualmente pericolosa amicizia? Ma forse ci siamo spinti tropp'oltre, restando appurabile soltanto la più volte confessata ansia di un «raffreddamento» dell'amicizia da parte del Fauriel negligente epistolografo, anche nel controcanto che ne faceva la madre in coda alle missive del figlio, e il desiderio di stornare questa paura di cui la dedica si era indubbiamente caricata. Dedica che resistette in fronte alla tragedia in tutte le successive riedizioni manzoniane, malgrado che il raffreddamento (se pure così si può definire) del rapporto con l'amico d'oltralpe fosse invece proprio dalla parte del Manzoni, più maturo, vedovo e risposato, ma che i moderni editori, non sensibili a questi testi liminari di cui la Terzoli si sforza di risvegliare l'attenzione, invece spesso tralasciano. Una parentesi in questa prima consuetudine manzoniana, anche se riconducibile in qualche modo ancora alla la tipologia alfieriana, è invece costituita dalla straordinaria iscrizione per quell'ode Marzo 1821 che, benché probabilmente composta in quella prima stagione di moti risorgimentali (nel bel mezzo della composizione di quel primo Adelchi tutto impregnato del medesimo sogno unitario) e per ragioni di prudenza «tenuta nascosta in quel luogo dove gli uomini non posson vedere, nella sua memoria»,27 fu poi stampata solo nel 1848 nell'opuscoletto intitolato Pochi versi / inediti / di Alessandro Manzoni (Milano, Tipografia di Giuseppe Redaelli, s.a.: alle pagini seguenti era aggiunto anche Il Proclama di Rimini):
alla illustre memoria
di
TEODORO KOERNER
poeta e soldato
della indipendenza germanica
morto sul campo di lipsia
il giorno xviii d'ottobre mdcccxiii
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria
Il vecchio ma puntuale studio di Luigi Negri in occasione del «primo Centenario del Marzo 1821», sempre presente negli scarsi commenti alla dedica, anche se non sempre citato esplicitamente, ha fatto luce con chiarezza sulle reali vicende della morte del ventiduenne poeta tedesco Teodoro Koerner, non − secondo quanto affermato nell'epigrafe celebrativa del Manzoni − a Lipsia «il giorno 18 d'ottobre 1813», ma in un combattimento tra Schwerin e Gadebusch (nel Mecklemburg) il 26 agosto 1813, come recitato invece nell'iscrizione sull'ara marmorea della sua tomba («quadrangolare, sormontata da una lira, sulla parte superiore della quale poggia l'elsa di una spada», a ricordo della sua raccolta poetica più famosa, Leyer und Schwert, pubblicata postuma l'anno seguente alla morte del giovane eroe).28 Difficile documentare che tipo di informazione fosse pervenuta al Manzoni sulla figura del Koerner: se il Negri esclude che qualche «notizia italiana o straniera, francese o inglese più probabilmente, relativa al Koerner» sia «da ricercare in fogli del 1813», essendo il poeta «troppo oscuro ancora, i suoi successi viennesi dovuti esclusivamente ai componimenti drammatici» tanto che «nessuno, fuori della Germania, si poteva occupare di lui», è possibile che una leggenda della sua morte in concomitanza colle gloriose giornate di Lipsia si fosse diffusa man mano che il canti di Lira e spada diventavano famosi, tanto che − è sempre il Negri a ricordarlo − uno di questi, la Lützows Wilde Jagd, fu fino al 1815 l'inno dei patrioti germani.29 Resta, comunque, indubbio il legame esplicito dei vv. 51-56 dell'ode coi gloriosi fatti di Lipsia evocati nella dedica e in particolare nel ricordo del giudizio proferito dai Tedeschi all'insegna del principio di nazionalità per cui combattevano («Dio rigetta la forza straniera; / Ogni gente sia libera, e pera / Della spada l'iniqua ragion»), qui assunto a monito dell'effettivo suo rovesciamento praticato dal Germano nei confronti dell'itale genti («O stranieri! sui vostri stendardi / Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito; / Un giudizio da voi proferito / V'accompagna all'iniqua tenzon»): quel Teodoro Koerner, simbolo di coloro «che combattono per difendere una patria», apparteneva infatti alla stessa gente che nell'ode è condannata, col Manzoni, da coloro che lottano «per riconquistare una patria». Così che «il richiamo polemico alle dichiarazioni dei tedeschi che lottarono contro la tirannide napoleonica e poi divennero alleati di quella austriaca, non perde efficacia per la lieve imprecisione storica».30 Sempre in quello stesso giro d'anni, quasi ultima prova, e forse la più importante, della pratica manzoniana di questo «genere minore», si pone infine la particolarissima dedica alla moglie Enrichetta della seconda tragedia, l'Adelchi, che venne ad aprire − e proprio forse a causa di questa iscrizione − anche il volume delle Opere varie (questa mi sembra la ragione più probabile dell'anticipazione della seconda tragedia alla prima sede): cosicché anche gli altri scritti presentati in questa raccolta, che si affiancava anche per la veste tipografica all'edizione definitiva dei Promessi Sposi, e i soli «riconosciuti per suoi e nella forma che li riconosceva», sembravano in un certo senso da ricondurre tutti a quel nome stampato a chiare lettere quasi sulla soglia del volume.
Alla diletta e venerata sua moglie
ENRICHETTA LUGIA BLONDEL
la quale insieme con le affezioni
conjugali e con la sapienza ma-
terna potè serbare un animo ver-
ginale consacra questo adelchi
l'autore
dolente di non potere a più splen-
dido e a più durevole monumento
raccomandare il caro nome e la
memoria di tante virtù.31
Dedica particolarissima, si diceva, questa, che nei suoi lapidari versetti sembra piuttosto un'epigrafe mortuaria, della quale, infatti, nel manoscritto della prima copia apografa, dove è apposta per la prima volta, e ancora nella copia per la Censura, presentava proprio la disposizione grafica poi abbandonata nella stampa in favore di quella prosastica:32
alla . diletta . e . venerata . sua . moglie
enrichetta . luigia . blondel
la . quale . con . le . affezioni . conjugali
e . con . la . sapienza . materna
potè . serbare . un . animo . verginale
consacra . questo . Adelchi
l'autore
dolente . di . non . potere
a . più . splendido . e . a . più . durevole . monumento
raccomandare . il . caro . nome
e . la . memoria . di . tante . virtù .
Si scorra, infatti, la sezione finale del volume delle Poesie e tragedie che, sulla base dell'edizione Barbi-Ghisalberti, raccoglie le Epigrafi «per il loro carattere che le avvicina alle poesie» e, si potrebbe aggiungere, come documenti fondamentali per la biografia del poeta, la cui lunghissima vita fu costellata dalle morti dei suoi cari e dalla pratica di queste iscrizioni:33 ebbene, fra le numerose epigrafi sepolcrali uscite per la penna di Manzoni, se ne ritrovano almeno due con lo stesso giro sintattico della dedica ad Enrichetta, in quella per la figlia Cristina del 1841 e ancora in quella per Luigi Rossari del 1871:
A CRISTINA BAROGGI MANZONI
la quale con edificante pazienza
in lunga e penosa malattia
e colla rassegnazione cristiana
consacrò una vita
immacolata pia caritatevole
e una morte
preziosa al cospetto di dio [...].34

a LUIGI ROSSARI
il quale prima come maestro
nelle scuole elementari e quindi professore
nelle scuole tecniche di questa città
dall'anno 1820 al 1860
insieme con l'istruzione ne infuse
l'amore nell'animo dei giovanetti
prevenne le correzioni inspirando
con dignitosa amorevolezza il timore
di dispiacergli
cercò in tempi difficili ogni occa-
sione d'insinuare nelle sue lezioni
l'affetto e le speranze della patria
e di preparare cittadini all'italia [...].35
Rispetto a queste due lapidi, nell'inscrizione per Enrichetta il complemento di termine si arricchisce della coppia aggettivale diletta e venerata, calcata − come a suo tempo aveva indicato Carlo Annoni −36 su Par. XXXIII, 40 («gli occhi da Dio diletti e venerati») a sancire sùbito lo spessore letterario del testo e la sovrapposizione dell'immagine della Vergine su quella di Enrichetta, ribadita anche dalla ripresa del sintagma il caro nome quasi in conclusione già utilizzato nell'inno Il nome di Maria (vv. 25-26: «quel sì caro a ridir nome si tacque?»): e una duplice aggettivazione anteposta al complemento di termine si ritrova anche nella più tarda epigrafe con cui, secondo il Magenta, il Manzoni avrebbe dedicato a Monsignor Luigi Tosi, dopo la sua morte nel 1845, la Morale Cattolica («Alla veneranda e benedetta memoria / del reverendissimo / Luigi Tosi [...]»).37 Rendono affine la dedica dell'Adelchi a quella della Morale Cattolica ancora il medesimo verbo consacrare presente in entrambe («consacra questo Adelchi / l'autore» e «oso consacrare questo lavoro»: ma lo stesso è anche nella citata epigrafe per Cristina) e il sostantivo memoria, che nella dedica per Enrichetta chiude il testo, rinviando implicitamente alle dediche in memoriam. Sempre restando al sintagma di apertura, il possessivo sua, che precede la definizione dello statuto sociale della dedicataria ('moglie'), introduce fin dall'incipit, e nella parte propriamente riservata alla cronistoria di quella ('moglie' e 'madre'), anche la condizione del dedicante ('marito'), sulla quale si torna nella seconda parte, dove se ne specifica anche la funzione di 'autore': ma tutta questa parte attributiva («dolente di non potere») sembra ripetere ancora una volta i moduli tipici delle epigrafi funerarie che prevedono, spesso, dopo le prime righe per il defunto ('sue virtù e opere'), una seconda parte appunto con la firma e la descrizione dello stato morale e delle azioni dei congiunti.38 Tanto per restare nel tema della morte di Enrichetta, per esempio, si veda la sua vera epigrafe inscritta sulla tomba nel cimitero di Brusuglio: ad ENRICHETTA MANZONI nata BLONDEL / nuora moglie madre incomparabile / la suocera il marito i figli / pregano / con calde lacrime ma con viva fiducia / la gloria del cielo;39 oppure quella già citata per Cristina Baroggi, proprio nella parte finale: i parenti afflittissimi / implorando la vostra preghiera / e la misericordia divina. E l'affinità della dedica di Enrichetta con l'epigrafia funeraria è tanto più evidente proprio per la ripresa dei suoi termini specifici nella parte conclusiva, primo fra tutti il sostantivo monumento, che se è ricordo dell'oraziano Exegi monumentum aere perennius, anche per il secondo dei due comparativi che l'accompagna (più durevole), inevitabilmente evoca anche la pietra tombale, come infatti nell'epigrafe per Teresa Confalonieri Casati («[...] gabrio angelo camillo casati alla / sorella amantissima ed amatissima / eressero ed a sé preparono questo / monumento per riposar tutti un / giorno accanto alle ossa care e venerate [...]»). Lo stesso si può dire per il recupero del verbo raccomandare, presente anche nell'epigrafe per la primogenita Giulietta, nella sua seconda parte («il marito e i parenti desolati / la raccomandano / alla misericordia di lui / e alle preghiere dei fedeli»), in quella per la madre («A Giulia Beccaria Manzoni / dal figlio inconsolabile / da tutta la famiglia addolorata / raccomandata / alla misericordia del signore / e alle preghiere dei fedeli») e infine in quella per la figlia Matilde («il padre i fratelli / [...] la raccomandano alle preghiere / dei pietosi senesi»). Della dedica ad Enrichetta colpisce, inoltre, quel passato remoto poté a lei riferito (lo stesso tempo utilizzato nelle citate epigrafi per Cristina Baroggi e Luigi Rossari, già affini per la costruzione sintattica) e non il presente, più naturale tempo, delle dediche a viventi: è in particolare questa ambiguità verbale (poiché quel passato remoto si può anche parafrasare con 'ha potuto serbare' e dunque 'serba tuttavia') ad insinuare che la dedica potrebb'essere stata immaginata sotto la suggestione della temuta morte di Enrichetta, gravemente ammalata nell'estate del 1821, e pertanto concepita proprio nello stile delle iscrizioni sulle lapidi funebri; e ancora una volta bisognerà attingere alle vicissitudini famigliari documentate in primis dai carteggi incrociati dei membri di casa Manzoni, ormai disponibili nelle versioni più aggiornate, per la piena intelligenza di un'iscrizione tanto sorprendente nel suo implicito spiraglio biografico. Non importa, infatti, il ricorso agli strazianti versi del Natale del 1833, veramente con Annoni «tombeau lirico per la moglie»,40 per confermare, anche per il recupero dello stesso aggettivo «ebbra», la sovrapposizione più volte rilevata dalla critica fra la regina longobarda morente e l'ugualmente ancora giovane Enrichetta quasi in fin di vita, le cui sofferenze la dedica potrebbe avere immortalato in quello stesso torno di tempo (ma non se ne hanno conferme negli autografi): di oggettivo ci sono solo le date del secondo coro, primo nella composizione, incominciato il 13 ottobre 1821, ormai chiusa la stesura della tragedia, dove un'altra donna è immaginata, probabilmente sul modello di quella vera consunta da una gravidanza terribile, con le «trecce morbide» sparse «sull'affannoso petto» (ma questa languiva per non averlo, invece, potuto concepire un figlio!); e ancora le lettere del Manzoni e dei suoi cari, fra cui si potrà citare, oltre ad un estratto del 16 settembre 1821 a Gaetano Cattaneo di ragguaglio sul suo miglioramento decisivo rispetto alle drammatiche previsioni («ma per me ti dirò che la consolazione di averla salva»),41 la confessione al Fauriel del 3 novembre seguente su quelle che erano state realmente le tragiche condizioni della moglie e sulla paura che tutta la famiglia aveva provato: Je ne veux pas finir sans vous dire un mot sur un sujet qui nous a bien tristement occupés, et qui nous a fait passer des jours dont j'écarte encore le souvenir. Vous saurez par M.me de Condorcet que mon Henriette a été malade au point de nous donner de l'inquiétude. Elle se rétablit à présent d'une manière lente, mais sûre. Jamais je n'ai senti comme dans ces moments ce qu'il y a d'incertain, de périlleux, je dirai même de terrible dans le bonheur même le plus calme.42 Su tali premesse, testimoniante dai fatti esterni di cui questi testi, in realtà non effimeri, sono spesso il frutto e a cui, con uno sguardo rivolto all'indietro, indubbiamente rinviano, si possono anche aggiungere le suggestioni che gli stessi fatti talvolta introducono, con una proiezione invece tutta in avanti, nell'opera cui sono legati: così che, se si può dire, ancora con Annoni, che la dedica dell'Adelchi, «prima pagina poetica della tragedia», anticipa il tema «dell'amore coniugale»43 tanto caro alla fantasia del Manzoni già fattosi romanziere di due giovani appunto "promessi", e il cui dramma di non realizzazione è messo in scena dalla ripudiata regina, è giusto anche aggiungere che in questo caso il legame − se pure si insiste a volerlo vedere − è, semmai, di contrasto, per la notoriamente ben diversa vicenda terrena di Enrichetta, del tutto appagata in quei suoi due compiti di moglie e di madre di cui la dedica viene a rendere durevole riconoscimento. Ed è con questa estrema testimonianza delle mozioni affettive sottese all'offerta pubblica di alcune delle sue opere poetiche che si consuma la vicenda del Manzoni dedicante: dopo il 1822, chiusa anche l'esperienza tragica, se nessuna dedica accompagnerà più i suoi lavori, neanche l'opera maggiore dei Promessi Sposi, i non pochi tributi all'amicizia saranno, semmai, promossi all'interno dell'opera stessa, come quello appassionato ancora per il Fauriel al cap. IV del Discorso sui longobardi o quello sottilmente ironico per l'amico Giuseppe Grossi al cap. XI dei Promessi Sposi.44 Piuttosto, mentre i destinatari delle numerose prose sotto forma di lettera degli anni successivi verranno invece direttamente chiamati in causa nel titolo (a cominciare dalla Lettre a M. C*** sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie), sempre più spesso altri tipi di paratesto sostituiranno lo spazio delle dediche, offrendo sulla soglia dell'opera una sua esplicita chiave di lettura: e si intende riferirsi agli Avvertimenti che aprono, per esempio, il saggio Del romanzo storico o la seconda edizione della Osservazioni sulla Morale Cattolica dove, fra l'altro, si aggiunge la formula della premessa «Al lettore», poi frequentemente utilizzata dal Manzoni a chiarire le ragioni dei suoi scritti. Per contro la soppressione della dedica d'opera a stampa è sostituita dalla consuetudine costante nel tempo della dedica d'esemplare, che talvolta recupera in forma privata i moduli di quella pubblica. Basti scorrere, nell'elenco delle raccolte manzoniane, contenuto nel vol. VI degli «Annali Manzoniani», la voce Manzoni per trovare numerose di queste attestazioni private inscritte sulle copie delle sue opere di volta in volta offerte ad amici e parenti e la cui esistenza è regolarmente indicata in quanto impreziosisce il volume nel mercato antiquario: a partire da un esemplare delle Opere varie del 1845 che reca sul recto della prima pagina bianca la dicitura «A Emilio Broglio in attestato d'alta stima e di cordiale amicizia l'autore», quasi esattamente ricalcata sulla dedica del Carmagnola, (ma già prima quasi la stessa formula era stata impiegata nella dedica di una copia degli Inni Sacri «Al suo Ermes Visconti / in pegno di singolare amicizia / l'autore»)45 e ripreso ancora in versione francese nella dedica di un esemplare della Quarantana a De Fresne «A Monsieur J. J. De Fresne hommage d'estime et tribut de reconnaisance de la part de l'auteur».46 Saranno così ancora due dediche private apposte dal Manzoni sempre su un esemplare dell'edizione definitiva dei Promessi Sposi (entrambi donati, in occasioni diverse, alle due nipotine a cui era stato dato il nome di Enrichetta) a iscrivere ancora una volta, se non come acto mágico, senz'altro como el modo màs grato y màs sensibile di pronunciarlo, quel nombre già affisso sul portale dell'Adelchi:
Alla mia carissima nipotina
ENRICHETTA MANZONI
enrichetta! nome soave, sacro, bene-
detto per chi ha potuto conoscer quel-
la, in nome di cui ti fu dato: nome
che significa fede, purità, senno,
amor de' suoi, benevolenza per tutti,
sacrificio, umiltà, tutto ciò che è
santo, tutto ciò che è amabile. possa
questo nome, con la grazia del signo-
re, esser per te un consigliere per-
petuo, e come un esempio vivente.


Alessandro Manzoni47
Alla mia cara nipotina Enrichetta Garavaglia Baroggi: Aderisco ben volentieri al tuo desiderio d'aver qui trascritte le parole messe da me in un altro esemplare di questo lavoro, e per un'altra mia nipotina che ebbe nel battesimo lo stesso tuo nome; e trovo in ciò l'occasione, e d'attestare il mio affetto per te, e di ripetere l'espressione del sentimento sempre egualmente vivo in me verso una cara e santa memoria. Enrichetta! Nome soave e benedetto per chi ha potuto conoscer quella, in nome di cui ti fu dato; nome che significa fede, senno, amor de' suoi, benevolenza per tutti, sacrifizio, umiltà, tutto ciò che è santo, tutto ciò che è amabile. Possa questo nome, con la grazia del Signore, essere per te un consigliere perpetuo, e come un esempio vivente. Alessandro Manzoni48 Se da tempo certe espressioni come «la nostra angelica Enrichetta», «quell'angelica creatura», erano entrate a far parte del "lessico famigliare" dei Manzoni (per ricordare l'autrice di uno dei lavori biografici più belli), anche l'evocazione di quel nome, con tutto quello che aveva significato, era sempre accompagnata da formule ormai proverbiali, tanto che già Donna Giulia, annunciando drammaticamente alla nipotina in collegio la morte della madre, aveva potuto anticipare quasi le stesse parole di quelle che saranno poi segnate nella più tarda dedica privata del Manzoni alle due nipotine omonime («Mia Vittoria cara figlia per morire così bisogna imitarla, oh Vittoria sei figlia di Enrichetta questo nome dice tutto»): parole che poi i primi biografi provvidero a contaminare più esattamente («Oh, Vittoria, ricordati che sei figlia di Enrichetta! − questo nome dice tutto! − tutto quello che c'è di buono e di santo su questa terra»).49 La vita e la morte della prima moglie del Manzoni era già diventata leggenda.

I. B.






Note

1 J. Sannazaro, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Milano, Mursia, 1990, p. 241, § 19.torna su
2 Naturalmente ci si riferisce al capitolo Dediche della traduzione italiana Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, da cui si cita anche più avanti. Gli altri testi di riferimento qui sempre presenti sono tutti i lavori di Maria Antonietta Terzoli, con cui gentilmente la studiosa mi ha invitato a dialogare, e in particolare I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, su questa stessa rivista (1, 2007) e Dediche alfieriane, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 263-89. Per le opere di Manzoni, gli unici volumi da cui qui si cita costantemente sono quelli delle Poesie e tragedie a cura di F. Ghisalberti e il primo delle Lettere a cura di C. Arieti, rispettivamente vol. i e vii di Tutte le opere di A. Manzoni a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Milano, 1969 e 1970. Costante anche il soccorso del primo volume del Carteggio di A. Manzoni a cura di G. Sforza e G. Gallavresi, Milano, Hoepli, 1912, non ancora sostituito, ma man mano in corso di integrazione nei parziali carteggi già usciti e in stampa per l'Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di A. Manzoni. I pochi altri riferimenti bibliografici su cui poggia questo repertorio saranno naturalmente dati ad locum.torna su
3 Proprio su loro sollecitazione, gli esemplari della Didot essendosi sùbito esauriti fra gli amici. Per il disastroso risultato economico dello smercio della prima edizione venale dei versi per l'Imbonati in 1000 copie (date da vendere al libraio Francesco Sonzogno, Corsia dei Servi n. 596), si veda la ricostruzione di G. Gallavresi, La liquidazione sfortunata di una delle prime stampe di versi del Manzoni, in «Il libro e la Stampa», n. s., vi, 1912, pp. 15-18.torna su
4 Lettere i, n. 12 (12 marzo 1806), p. 21.torna su
5 «A Francesco Lomonaco / sonetto Per la vita di Dante / di Alessandro Manzoni / giovane pieno di poetico ingegno e amicissimo / dell'Autore» (Poesie e tragedie, p. 164), dove la lunga perifrasi appositiva del complemento di specificazione sarà da attribuirsi proprio all'autore dell'opera.torna su
6 Genette, Soglie cit., p. 115.torna su
7 I. Becherucci, Il primo "Maestro" di A. M. Vincenzo in Monti nella cultura italiana, a cura di G. Barbarisi, Milano, Cisalpino, 2005, pp. 487-509.torna su
8 I versi e la dedica sono stati pubblicati nella plaquette intitolata Manzoni inedito, Premessa di G. Vigorelli, Introduzione e commento di F. Gavazzeni, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2002.torna su
9 Ivi, p. 43.torna su
10 Per il primo aspetto, ne sono sensibile sintomo le numerose citazioni dalle composizioni precedenti, quasi che l'autore avesse voluto chiamare a raccolta tutta la sua poesia in questa nuova composizione, così diversa per timbro e già proiettata nella nuova stagione. L'effettiva influenza del prosimetro alfieriano è ampiamente dimostrata nel cappello al carme di Paola Azzolini in A. Manzoni, Tutte le poesie (1797-1812), a cura di G. Leonardi e P. Azzolini, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 231-35 e nelle note che segnalano le autocitazioni manzoniane.torna su
11 Poesie e tragedie, p. 863, nota alla p. 136 (Note al Canto primo).torna su
12 Correggo la citazione dalla nota del Ghisalberti (Lettere, nota alla lettera 13, pp. 710-11), che stampa erroneamente «il lavoro politico», sulla base della verifica sui due esemplari dell'edizione milanese conservati alla Biblioteca Universitaria di Pavia (Corradi 96 bis C6; Misc. In 8° T. 871 n. 4) fatta per me dalla Dr. Carla Mazzoleni che ringrazio. La riproduzione della dedica era corretta, invece, nel Carteggio, p. 38.torna su
13 Lettere i, n. 13 ([Parigi,] 18 aprile 1806), pp. 710-11.torna su
14 Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere cit., pp. 166-71.torna su
15 Carteggio, lett. n. 2 (settembre 103), p. 3.torna su
16 Lettere i, n. 13, pp. 23-24.torna su
17 Terzoli, Dediche alfieriane cit., pp. 275-87.torna su
18 V. Alfieri, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1967, p. 203.torna su
19 Lettere i, n. 49, pp. 79-80. E per l'acquisto degli ultimi volumi xii e xiii delle Opere postume dell'Alfieri (usciti, sempre per Piatti a Firenze, in quello stesso 1808), che contenevano la Vita, cfr. il puntuale commento di I. Botta al Carteggio Alessandro Manzoni / Claudio Fauriel, vol. i dell'Edizione Nazionale delle Opere di A. M., Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2000, p. 90.torna su
20 Terzoli, Dediche alfieriane cit., p. 275.torna su
21 Lettere i, n. 25 (28 aprile 1807), p. 43.torna su
22 Ivi, n. 78, pp. 111-12.torna su
23 I Promessi Sposi, vol. ii, t. i, di Tutte le opere di A. M. cit., p. 188.torna su
24 Lettere i, n. 111 (25 marzo 1816), pp. 155-56.torna su
25 Ivi, p. 157.torna su
26 G. Beccaria, «Col core sulla penna». Lettere 1791-1841, a cura di G. M. Griffini Rosnati, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani («Quaderni dell'Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di A. M.»), 2001, p. 173.torna su
27 Così nel ricordo di C. Fabris, Memorie manzoniane, Milano, Cogliati, 1901, p. 100. Parlano ancora di questa "misteriosa" vicenda Cesare Cantù (A. Manzoni, Reminiscenze di Cesare Cantù, Milano, Treves, 1882, vol. ii, pp. 283-84 e S. Stampa, A. M., La sua famiglia i suoi amici. Appunti e memorie di S. S., Milano, Hoepli, 1885, p. 76.torna su
28 L. Negri, Alessandro Manzoni e Teodoro Körner nel primo centenario del 'Marzo 1821': nota, in «Atti della Real Accademia delle Scienze di Torino», vol. lvi, 1921, pp. 17-26.torna su
29 Ivi, p. 20. In particolare lo studioso stabilisce delle relazioni intertestuali con questa Fiera caccia di Lützow (soprattutto fra le ultime stanze di entrambi i componimenti), decisamente schierandosi con quanti, a partire dal Cantù, avevano supposto l'ultima strofa del Marzo 1821 aggiunta all'epoca delle Cinque Giornate.torna su
30 Dalla nota di P. Azzolini in Manzoni, Tutte le poesie 1812-1872 cit., pp. 223-24.torna su
31 La dedica è riprodotta anche in AIDI: www.margini.unibas.ch (scheda redatta da M. A. Terzoli).torna su
32 La prima copia apografa è siglata VII.3D: l'iscrizione è di mano del Manzoni, in corsivo tutto minuscolo, a parte il titolo della tragedia, scandito dai punti separatori fra una parola e l'altra. Nella successiva copia, quella per la censura, l'iscrizione è copiata con un errore dal copista («un'anima») corretto dal Manzoni, che inserisce anche, soprascritto sulla preposizione con, «insieme». Nella copia che fu tratta da quella ufficiale presentata alla Censura per essere donata al Fauriel (C1) già si presentava la disposizione su undici righe poi mantenuta nella stampa.torna su
33 L'unico studio su questo genere minore tanto praticato dal Manzoni è quello sull'epigrafe funeraria per Teresa Confalonieri Casati che si trova raccolto in G. Nencioni, La lingua di Manzoni. Avviamento alle prose manzoniane, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 57-60.torna su
34 Poesie e tragedie, p. 803.torna su
35 Ivi, p. 809.torna su
36 Ancora l'unico − ch'io sappia − ad aver prestato un'attenzione particolare a questa dedica e da cui traggo il seguente rinvio all'inno Il nome di Maria. Cfr. C. Annoni, Lo spettacolo dell'uomo interiore. Teoria e poesia del teatro manzoniano, Milano, Vita e Pensiero, 1997, cap. IV (Dall''Adelchi' al 'Natale del 1833'), pp. 139-215. Cfr. inoltre G. Balducci, Epigrafi e dediche in scrittori moderati del Risorgimento, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica cit., pp. 317-44, in particolare pp. 32-33.torna su
37 Poesie e tragedie, p. 805.torna su
38 Nencioni, La lingua del Manzoni. Avviamento alle prose manzoniane cit., p. 58.torna su
39 Poesie e tragedie, p. 801.torna su
40 Annoni, Lo spettacolo dell'uomo interiore cit., p. 196.torna su
41 Lettere i, n. 150, p. 239.torna su
42 Ivi, n. 153, pp. 250-51.torna su
43 Annoni, Lo spettacolo dell'uomo interiore cit., p. 141.torna su
44 «Se un coscienzioso amore della verità, se una decisa e ombrosa avversione per tutto ciò che è superficiale ed ambiguo, se la volontà di non omettere nulla di certo e di rilevante, e di escludere tutto ciò che non lo è, se una ripugnanza invincibile a riempire con parole le lacune dei fatti, a legare le scoperte importanti con supposizioni arbitrarie o approssimative, se il vivo sentimento delle difficoltà, che nasce dal veder molto e molto addentro nelle cose, se queste ed altre simili condizioni non ritardassero tuttavia la pubblicazione dei lavori d'un egregio straniero su la civiltà politica e letteraria di un'epoca importante del medio evo, sarebbe pur dolce ad un amico di poter qui citare un vivo esemplare di quello stile di storia, che risulta dalle tenaci contemplazioni di un intelletto profondo»: Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, a cura di I. Becherucci, Premessa di D. Mantovani, Milano, Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di A. M., vol. v, 2005, pp. 120-21. «Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l'ho preso, perchè mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l'autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch'io frugo a piacer mio ne' suoi manoscritti»: I Promessi Sposi cit., p. 201.torna su
45 La dedica è citata nelle note a Lettere i, n. 111 (25 marzo 1816), p. 784.torna su
46 E numerosissimi sono, appunto, i volumi che attestano dediche private autografe, per cui per Manzoni veramente si potrebbe stilare un primo cospicuo elenco con la loro riproduzione, proprio a seguito dell'invito di Genette a intraprendere quella «storia della dedica d'esemplare che è oggi [...] una crudele mancanza»: «Per una ragione evidente che consiste nella difficoltà di raccoglierne i materiali, tale storia non sarebbe infatti cosa da poco; mi sembra però che la posta in gioco, e cioè una migliore conoscenza delle usanze e dell'istituzione letteraria, ne varrebbe la lunghissima candela» (Genette, Soglie cit., p. 135).torna su
47 Poesie e tragedie, p. 805.torna su
48 Ivi, p. 117, nota all'epigrafe XI. Per la nipotina Enrichetta, che pubblica questa seconda dedica sulla base della riproduzione già data da A. De Gubernatis, Il Manzoni ed il Fauriel studiati nel loro carteggio inedito, Roma, Barbera, 18802, p. 261.torna su
49 La citazione corretta è tratta da Beccaria, «Col core sulla penna». Lettere 1791-1841 cit., p. 189; la contaminazione con le parole manzoniane delle due dediche per le nipotine "Enrichette" ricorre per la prima volta nel vol. i di Manzoni intimo a cura di M. Scherillo, Vittoria e Matilde Manzoni. Memorie di Vittoria Giorgini Manzoni, Milano, Ulrico Hoepli, 1923, p. 28, da cui poi è riprodotta nelle successive citazioni.torna su