3, 2009
 
Saggi    
 
 Abstract


Chiara Schiavon

Una via d'accesso agli epistolari. Le dediche dei libri di lettere d'autore nel Cinquecento. Prima parte



Nel gennaio del 1538 esce a Venezia presso Francesco Marcolini il primo libro delle Lettere di Pietro Aretino, nel quale l'autore raccoglie 324 delle sue lettere, scritte tra il 1524 e il 1537. Molte di queste lettere, come era prassi, avevano già un'ampia circolazione manoscritta, ma in questa occasione per la prima volta venivano diffuse da una organica raccolta a stampa.1 Si tratta del primo di quegli epistolari in lingua volgare che nel prosieguo del secolo avranno una così ampia proliferazione da configurarsi come vero e proprio fenomeno editoriale, ma anche culturale e linguistico.2 Alla raccolta dell'Aretino (che conta sei volumi, l'ultimo dei quali è pubblicato da Gabriel Giolito de' Ferrari nel 1557, dopo la morte dell'autore),3 modello inimitabile e inimitato, fanno seguito, con successo diseguale, nei decenni successivi, le raccolte di altri diciannove autori:4 il primo emulo del 'divino Aretino' sarà proprio colui che ha curato il primo libro delle Lettere dell'Aretino stesso, Nicolò Franco che, in aperta, e vana, competizione con il suo ex mentore, poi nemico,5 pubblica nel 1539, a Venezia presso Antonio Gardane, Le Pistole vulgari di M. Nicolò Franco;6 solo cinque anni dopo, nel 1544, Anton Francesco Doni, che diventerà un altro dei molti antagonisti dell'Aretino,7 si cimenta a sua volta nella pubblicazione della sua raccolta di lettere, che comprenderà alla fine, dopo complesse e interessanti vicende editoriali, tre volumi;8 il successivo epistolario d'autore esce a Firenze nel 1546, proprio dall'officina del Doni, che in quegli anni tentava, con scarso successo, di avviare una propria impresa editoriale nel Granducato:9 si tratta de Il Primo libro delle Lettere di Nicolò Martelli, al quale non seguirà un secondo.10 A questo punto le pubblicazioni si fanno più fitte: nel 1547 esce, probabilmente con il beneplacito ma senza la supervisione dell'autore, l'epistolario del senese Claudio Tolomei (a Venezia presso Giolito);11 nel 1548 esce postumo il primo volume delle Lettere di M. Pietro Bembo, ad istanza e a cura dei suoi esecutori testamentari, Carlo Gualteruzzi e Girolamo Quirini;12 nello stesso anno vengono pubblicate a Venezia da Arrivabene anche le Lettere di Messer Horatio Brunetto, medico friulano;13 l'anno successivo Federico Pizzimenti pubblica, apparentemente all'insaputa dell'autore, la raccolta delle lettere di Antonio Minturno;14 sempre nel 1549 esce uno degli epistolari di più duraturo successo e maggior influenza, insieme a quelli appena ricordati di Tolomei e Bembo e a quello di Annibal Caro di cui si dirà presto: si tratta delle Lettere di Messer Bernardo Tasso;15 nel 1551 Girolamo Muzio, che l'anno prima si era già servito del genere epistolare per le sue Vergeriane, pubblica le Lettere del Muzio Iustinopolitano16 e Girolamo Parabosco pubblica, insieme con i suoi madrigali, Il primo libro delle Lettere famigliari di M. Girolamo Parabosco, dove per la prima volta compare nel titolo di una raccolta d'autore di lettere volgari l'aggettivo famigliari (per distinguere questa dalla precedente raccolta di lettere, amorose, pubblicata dallo stesso autore);17 nel 1552 esce presso Girolamo Scotto la raccolta delle lettere di Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo, a cura di Ortensio Lando;18 nello stesso anno esce sempre a Venezia, senza indicazione dell'editore, il primo libro De le lettere di M. Pietro Lauro Modonese,19 medico e traduttore. Da qui in avanti le nuove uscite si diradano (continuano però le ristampe e le uscite di volumi successivi al primo): bisogna attendere il 1556 perché escano i Tre libri di Lettere volgari di Paolo Manuzio, editore qui in veste di autore,20 e, a Bologna presso Anselmo Giaccarelli, il libro di Lettere toscane di Frosino Lapini;21 solo nel 1560 escono postume (e non preparate per la pubblicazione dall'autore, che aveva espresso solo una vaga intenzione in questo senso) le Lettere volgari di Paolo Giovio, pubblicate a Venezia per Giovan Battista Sessa a cura di Ludovico Domenichi.22 Siamo ormai alla retroguardia: a Napoli presso Raimondo Amate, escono nel 1562 le Lettere di Giovanni Camillo Maffei, medico e musicista avellinese,23 e l'anno dopo a Firenze, per Giunti, Baccio Martelli pubblica postume, insieme alle rime, le lettere del fratello Vincenzo.24 Nel 1564, anno in cui escono a Pavia i due volumi di Lettere di Luca Contile,25 Francesco Sansovino pubblica il suo trattato Del segretario,26 che segna un forte discrimine nel modo di considerare i libri di lettere, accelerando e rendendo evidente un processo già iniziato negli anni precedenti, ossia la funzione che potremmo chiamare utilitaristica di queste raccolte, non più soltanto opere di letteratura, testimonianze di una figura di intellettuale e dei suoi rapporti col mondo politico e culturale del tempo o tutt'al più, utili modelli di lingua, ma soprattutto e in primo luogo, vero e proprio campionario pratico di scrittura. Non a caso a partire da questi anni, come osserva Quondam,27 «per oltre un ventennio il quadro dei libri di lettere non presenta modificazioni davvero rilevanti»: dominano le ristampe e i pochi epistolari d'autore pubblicati per la prima volta (di Giuseppe Pallavicino, Veronica Franco, Diomede Borghesi),28 sono, oltre che di esigua consistenza materiale, marginali in quanto a contenuto, circolazione e finalità.29 Va considerato un'eccezione l'epistolario di Annibal Caro, il cui primo volume viene stampato nel 1572,30 ma che per più di un motivo si ricollega al gruppo degli epistolari d'autore del periodo precedente, con i quali condivide gli anni della stesura (l'epistolario infatti, pubblicato postumo dai familiari dell'autore, contiene lettere scritte per la maggior parte tra il 1537 e il 1566), la rete di relazioni, il duraturo successo editoriale e l'influente valore di modello.31 Il passaggio tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo vedrà la pubblicazione di altri epistolari d'autore, tra i quali spiccano quello di Torquato Tasso e quello di Giovambattista Marino,32 ma si tratta, con tutta evidenza, di un'altra stagione.33 La rapida panoramica appena proposta mette già in evidenza come gli epistolari d'autore pubblicati tra il 1538 e il 1564, con la motivata appendice dell'epistolario di Caro, costituiscano un gruppo per molti aspetti compatto e omogeneo di opere, che rappresentano di fatto un genere letterario, dalla vita breve ma tutt'altro che effimera. «Sono ovviamente tante, e tutte valide e legittime, le vie di accesso agli epistolari, e molteplici le prospettive che possono a ragione segnare una lettura trasversale della serie dei documenti», scrive Paolo Procaccioli nell'introduzione a una scelta antologica delle Lettere dell'Aretino.34 Osservare questi testi dalla soglia, occupandosi dei testi di dedica, permette non solo di recuperare utili informazioni su vicende riguardanti l'opera e il suo autore, sull'intenzione autoriale ed editoriale e sul significato che queste opere rivestivano per il letterato e per il suo pubblico (non a caso i lavori che si occupano degli epistolari hanno sempre una sezione più o meno consistente riservata alle informazioni che si possono ricavare dai testi di dedica, che spesso vengono lasciati parlare direttamente),35 ma anche di arricchire il quadro dei rapporti reciproci tra gli epistolari e tra i loro autori e di evidenziare alcune caratteristiche di questi epistolari che possono indicare nuovi percorsi di studio o confermare direzioni già intraprese. Dall'altra parte, la possibilità di esaminare un corpus così ben delimitato e come già detto omogeneo, fornisce un interessante campo di indagine per la descrizione del sistema della dedica nel Cinquecento, molto meno monolitico di quanto possa sembrare a prima vista.36 Le dediche prese in esame,37 se non sono disponibili in edizione critica o ristampa anastatica moderna o in formato elettronico, sono state inserite nell'archivio AIDI.38
Una questione preliminare: il tipo di dedica. Tutte le raccolte esaminate, con la sola eccezione delle Lettere di Claudio Tolomei39 sono corredate da una o più epistole dedicatorie. Il fatto che questi volumi siano a loro volta composti di lettere, che in gran parte sono state effettivamente inviate al destinatario a volte anche in tempi vicini al momento della stampa,40 potrebbe prefigurare un potenziale cortocircuito con l'epistola dedicatoria, che condivide sostanzialmente queste stesse caratteristiche (tant'è vero che non mancano, nelle raccolte epistolari, lettere di dedica di altri libri, a volte anche raccolte in apposite sezioni o quantomeno raggruppate insieme):41 di fatto la lettera di dedica è l'unica lettera della raccolta che ufficialmente dovrebbe raggiungere il destinatario non prima di confluire nel libro, ma contestualmente al libro stesso, quantomeno manoscritto. In verità nessuno degli autori sembra rilevare questa potenziale aporia (che forse risulta tale più ai nostri occhi che a quelli di un uomo di lettere del Cinquecento): nella maggior parte dei casi infatti, l'epistola dedicatoria del volume o dei diversi libri di cui è composto mantiene una propria autonomia tipografica, evidenziata quantomeno dal cambio di pagina prima dell'inizio dell'epistolario vero e proprio.42 Qualche volta, anzi, tra l'epistola dedicatoria e le altre lettere si frappongono altri elementi paratestuali.43 La posizione extratestuale della dedica è ribadita in alcuni casi anche dall'evidenza materiale di essere stampata in un fascicolo non numerato: è il caso per esempio del quinto libro di lettere dell'Aretino, che racchiude in un fascicolo non numerato di 8 carte una vera e propria messe di testi liminari,44 o della lunga dedica di Orazio Brunetto a Renata di Francia, che si trova in un fascicolo non numerato, sempre di 8 carte, insieme a una breve Tavola degli errori. In un unico caso tra tutte le edizioni considerate la dedica è invece seguita senza soluzione di continuità dalle altre lettere della raccolta: si tratta della dedica del primo libro di lettere di Anton Francesco Doni all'amico Lodovico Domenichi, che però è preceduta dalla dedica dell'editore, Girolamo Scotto, a Federico Cesi, dedica che è invece isolata. Le intestazioni delle epistole dedicatorie in genere non si differenziano molto, soprattutto nelle prime raccolte, dalle soprascritte delle altre lettere, che spesso sotto il nome del destinatario, a volte corredato anche da titoli ed epiteti, riportano anche il nome del mittente: la dedicatoria del primo libro dell'Aretino per esempio è intestata semplicemente «Al Magno Duca D'Urbino. / Pietro Aretino.».45 Il caso più comune è proprio quello di un'intestazione che riporti semplicemente il nome del dedicatario, corredato da titoli ed epiteti,46 e qualche volta, il semplice nome del dedicante, al massimo corredato dall'indicazione della provenienza.47 Un gran numero di dediche contengono nell'intestazione l'appellativo Signore mio osservandissimo, che non è inusuale nemmeno nelle soprascritte, ma diventa più significativo in queste occasioni, in cui il rapporto di padronaggio è alla base dell'offerta. La stessa costruzione gerarchica, ma dal punto di vista del dedicante, è espressa dall'intestazione della dedica del sesto libro delle Lettere di Aretino: «Al di Ferrara armipotente duce e invitto, / l'inutil servo suo Pietro Aretino». Tra le dediche dei libri di Lettere dell'Aretino si trova un caso in cui lo statuto di dedicatoria dell'epistola è espresso fin dall'intestazione: «Il secondo Libro de lettre di Messer / Pietro Aretino dedicate al Magnanimo / Enrico Ottimo Massimo.», che campeggia sulla dedicatoria del secondo libro della raccolta. Tra le dediche dell'Aretino si trovano però anche le uniche due epistole dedicatorie senza intestazione: quella del quarto libro a Gian Carlo Affaitati e quella del quinto a Baldovino del Monte. Tutti i libri di Lettere dell'Aretino, dal secondo in poi, recano la dedica anche nel titolo, con quello che sembra un crescendo di magniloquenza: il secondo libro è semplicemente intitolato «Al Sacratissimo re d'Inghilterra»; il titolo del terzo e quarto libro ha in aggiunta anche un epiteto per il dedicatario «Al Magnanimo Signor Cosimo de i Medici, principe di buona volontade» e «al Magnanimo Signor Giovan Carlo Affaetati, gentilhuom senza pari»; nel titolo del quinto libro oltre all'indicazione del dedicatario («A la bontà somma del Magnanimo Signore Baldovino de Monte») si aggiunge anche una delle numerose etichette autopromozionali dell'autore («Pietro Aretino, per divina gratia, huomo libero»), per finire con l'arzigogolata dedica nel titolo del sesto libro: Ecco che al come Magno, Magnanimo Hercole Estense, ha dedicato Pietro Aretino, per divina gratia huomo libero, il Sesto delle scritte Lettere volume, acciò che la immortale memoria del perpetuo nome dell'ottimo duca, privi dell'oblivione la bramata ricordanza del suo.48 Rara ed effimera è invece la presenza di dediche nei titoli degli altri epistolari considerati: dei tre libri di Lettere del Doni solo il terzo reca nel titolo «Dedicato al generoso Signor Jacopo de Nores, contino di Tripoli»; il primo volume di Lettere di Bernardo Tasso è «intitolato a Monsi.or d'Aras»;49 le lettere della seconda edizione dell'epistolario di Girolamo Muzio sono «Dedicate al Signor Lodovico Capponi»; infine Baccio Martelli, nel pubblicare nel medesimo volume le Rime e le Lettere del fratello Vincenzo, le dedica anche nel titolo «Allo Illustriss.mo et Eccell.mo S. Ferrante Sanseverino, principe di Salerno», ma nella successiva edizione (1606) la dedica (che cambia di destinatario), sparisce dal titolo.
Dedicanti Luigi Matt, analizzando l'incidenza dello studio delle vicende editoriali dei libri di lettere per una corretta valutazione degli aspetti linguistici,50 precisa ulteriormente la distinzione operata già da Mario Marti, e da tempo assodata, tra "raccolta di lettere", effettuata a posteriori, ed "epistolario", frutto della volontà dell'autore e di una precisa coscienza letteraria.51 Secondo il condivisibile giudizio di Matt, la seconda voce del binomio, richiede una distinzione più dettagliata: al «caso in cui l'autore curi personalmente l'edizione (o comunque riconosca in essa l'attuazione della sua volontà)» (gli esempi addotti sono gli epistolari di Pietro Aretino e Nicolò Franco), si affianca il caso in cui l'epistolario, pur progettato e in buona parte preparato dall'autore, non esce prima della sua morte e quindi alcune decisioni editoriali, ivi comprese alcune scelte linguistiche o la censura di alcune lettere o parti di esse, sono interamente attribuibili alla scelta dei curatori o stampatori (come nel caso degli epistolari di Pietro Bembo e Annibal Caro), e infine il caso, rappresentato per esempio dall'epistolario di Giovio, di lettere mai esplicitamente pensate per una raccolta epistolare,52 ma così organizzate solo dal curatore (nel caso di Giovio, Lodovico Domenichi). Tutti gli epistolari che rientrano sicuramente nel primo gruppo descritto (quelli sulla cui vicenda editoriale l'autore ha avuto pieno controllo), contengono un'epistola dedicatoria dell'autore: si tratta quindi dei libri di lettere di Pietro Aretino, Nicolò Franco, Anton Francesco Doni, Nicolò Martelli, Orazio Brunetto, Bernardo Tasso, Girolamo Muzio, Girolamo Parabosco, Pietro Lauro, Paolo Manuzio, Frosino Lapini, e Luca Contile.53 Vanno però tenuti presenti all'interno di questo gruppo, almeno due casi particolari: il sesto libro delle Lettere dell'Aretino e la seconda edizione dell'epistolario del Muzio (Sermartelli 1590) sono pubblicati dopo la morte dei rispettivi autori. Su quanto questo abbia influito sull'allontanamento del risultato editoriale dall'effettiva volontà dell'autore non ci sono molte certezze,54 ma mi sembra in ogni caso che il fatto che per entrambi i volumi gli autori avessero già preparato la dedicatoria testimonia uno stato dei lavori piuttosto avanzato. Più complicata diventa la questione degli epistolari con dedica non d'autore: è evidente il motivo per cui gli epistolari di Pietro Bembo e Annibal Caro, pubblicati postumi, recano la dedica degli stampatori (i libri di Bembo) o dei curatori (i libri di Caro), anche se si hanno chiare testimonianze della volontà dell'autore di pubblicare la raccolta delle proprie lettere e di un lavoro preparatorio dello stesso a questo scopo. In altri casi, invece, il coinvolgimento dell'autore della stampa non solo non è espresso ma a volte è addirittura negato e in mancanza di informazioni più precise non possiamo che attenerci dubitativamente alle indicazioni fornite proprio dall'epistola dedicatoria, ed eventualmente da altri paratesti.55 Così se sappiamo con certezza che l'epistolario di Paolo Giovio non è stato preparato e organizzato dal vescovo di Como, ma da Lodovico Domenichi, che è anche l'estensore della lettera di dedica, meno solide sono le ipotesi che si possono formulare riguardo ad altri epistolari: per esempio l'epistolario di Vincenzo Martelli, pubblicato dopo la sua morte dal fratello Baccio, che è anche l'autore della dedica, o quelli di Antonio Minturno, Lucrezia Gonzaga e Giovanni Camillo Maffei, tutti usciti mentre gli autori erano ancora viventi; e se nel caso dell'epistolario di Lucrezia Gonzaga è molto probabile che si tratti di un'operazione che porta la firma di Ortensio Lando, tanto che molti studiosi si sono spinti a ipotizzare che l'epistolario sia in toto un falso del Lando56 (e a lui è sicuramente attribuibile la dedicatoria anonima), nel caso del Maffei e del Minturno, anche se i curatori, rispettivamente Valerio de' Paoli e Federico Pizzimenti, dichiarano nella dedica di essere venuti in possesso delle lettere e di aver autonomamente deciso di pubblicarle,57 sembra difficile che i due autori fossero del tutto ignari di quanto stava accadendo alle proprie missive e che non abbiano dato quantomeno il beneplacito, quando non un concreto contributo all'opera.58 La maggior parte di queste dediche "di terzi" sono scritte dai curatori della raccolta: Federico Pizzimenti per il Minturno, Giovan Francesco Lucchi per l'edizione Sermartelli di Muzio, Ortensio Lando per Lucrezia Gonzaga, Lodovico Domenichi per Giovio, Valerio de' Paoli per Maffei, Baccio Martelli per il fratello Vincenzo, Giovambattista e Lepido Caro per il primo e secondo volume delle Lettere dello zio Annibal Caro. Tutti i libri dell'epistolario di Bembo presentano invece una dedica ad opera dello stampatore, e si tratta quasi esclusivamente di stampatori-editori di importanza centrale nel panorama dell'editoria veneziana (e quindi del principale centro dell'editoria cinquecentesca): i veneziani Antonio Manuzio (dedicante del secondo volume), Gualtiero Scotto (dedicante del terzo e quarto volume), Francesco Sansovino (che firma tutte e quattro le dediche della sua edizione dell'epistolario bembiano). Sola eccezione il romano Valerio Dorico a cui si deve la dedica del primo volume delle Lettere. Di Girolamo Scotto è invece una delle poche dediche doppie del nostro gruppo di testi: il primo libro delle Lettere di Anton Francesco Doni, infatti, si apre proprio con un'epistola dedicatoria dell'editore al vescovo Federico Cesi. Il Doni non rinuncerà alla dedica, ma la sua sarà una dedica "di amicizia" a Lodovico Domenichi e, come abbiamo già visto, si presenterà formalmente come la prima lettera dell'epistolario. Comprensibile è il motivo per cui la seconda edizione delle Lettere familiari di Girolamo Muzio reca due epistole dedicatorie: l'epistola dell'autore già composta, manteneva il suo valore letterario, ma perdeva la sua utilità pratica con la morte dell'autore stesso; non sorprende quindi che il curatore, Giovan Francesco Lucchi, provvedesse a iterare l'omaggio a proprio nome. Tutti i commentatori sono concordi nel giudicare la lettera a Ferrante Sanseverino che nel primo volume delle Lettere di Bernardo Tasso segue la dedica a Monsignor d'Arras, come una seconda dedicatoria;59 in verità, pur essendo chiaro, anche per sua posizione (tra i testi preliminari), che si tratta di un esplicito omaggio a quello che allora era il protettore e datore di lavoro del Tasso, e nonostante il suo contenuto prefatorio, non si può parlare stricto sensu di dedica, perché mai è espressa letteralmente la volontà del dono dell'opera, che anzi si spiega essere stata affidata al patrocinio («sotto l'ombra e sotto la protezione») di Monsignor d'Arras. Se quello delle dediche doppie è in questi testi un fenomeno decisamente marginale, più rappresentato è invece un uso allora piuttosto diffuso (e stigmatizzato),60 ossia quello di approfittare di una nuova edizione del libro per cambiare il dedicatario: così Doni, che nel 1544 aveva lasciato al suo editore, Girolamo Scotto, lo spazio della dedica principale, come abbiamo già visto, quando ripubblicherà in proprio lo stesso libro a Firenze, nel 1546, lo farà precedere da una dedica a Francesco de' Medici, con il palese scopo di avere dalla Signoria l'appoggio necessario per la sua nuova attività di stampatore-editore; l'abbandono delle sue speranze fiorentine è marcato anche da un nuovo cambio di dedica: per l'edizione dei Tre libri di lettere, che esce di nuovo a Venezia, questa volta presso l'aretiniano Marcolini, Doni mantiene per il primo libro la dedica scritta per Lodovico Domenichi, cambiandone però il destinatario, e indirizzandola ai lettori; anche Francesco Sansovino, quando ristampa i quattro libri di Lettere di Bembo approfitta per assegnare ognuno di essi a un nuovo dedicatario: l'orizzonte delle prime edizioni, per metà veneziano (il secondo libro è dedicato a Girolamo Quirini, nobile veneziano e il quarto a Elisabetta Quirini, che oltre a essere l'ultima amata del Bembo è anche la sorella di Girolamo) e per metà romano in senso lato (il primo libro è dedicato al cardinale romano Guido Ascanio Sforza, il terzo a Giulio della Rovere, cardinale di Urbino), si restringe quasi esclusivamente a Venezia, anche in questo caso intesa in senso lato, come territorio veneziano, (i primi tre libri sono dedicati rispettivamente a Filippo Mocenigo, arcivescovo veneziano, Marcantonio Thiene, nobile vicentino, e Girolamo della Torre, nobile veneziano). Il quarto libro rimane sempre dedicato a una nobildonna, ma viene indirizzato questa volta a Lucrezia de' Medici duchessa di Ferrara, legata a ben due Signorie.61 Questa integrale sostituzione delle dedicatorie è probabilmente legittimata dal fatto che non si tratta di rimuovere dediche d'autore, che pur perdendo il loro fine pratico mantengono inalterato il loro valore letterario, e fanno parte integrante del libro come testimonianza autoriale, bensì di veri testi d'occasione, che perdono quindi buona parte del loro valore con il variare delle circostanze nelle quali il libro viene prodotto. Così anche le Rime e lettere di Vincenzo Martelli sono dedicate nella prima edizione (1563) dal curatore Baccio Martelli a Ferrante Sanseverino e nella seconda, uscita più di quarant'anni dopo (1606), dallo stampatore Cosimo Giunti a Vincenzo Martelli, nipote dell'autore; i due volumi delle Lettere familiari di Annibal Caro, invece, quando vengono ristampati da Bernardo Giunti nel 1581 (la prima edizione esce presso Aldo Manuzio nel 1572 e nel 1575), mantengono in una prima tiratura entrambe le dediche originarie, cioè quella di Giovan Battista Caro, nipote dell'autore e curatore, a Girolamo da Correggio, per il primo volume e quella di Lepido Caro, fratello di Giambattista, nel frattempo deceduto, a Tolomeo Gallio, cardinale di Como; in una seconda tiratura, invece, la dedica a Girolamo da Correggio, morto nel 1572, viene sostituita con una dedica del nuovo stampatore, Bernardo Giunti a Francesco Tiepolo, figlio di Alvise.62 L'unico caso, oltre a quello del Doni, in cui è l'autore a cambiare la lettera di dedica in occasione di una nuova edizione del suo epistolario è quello delle Lettere familiari di Girolamo Muzio, dedicate nel 1551 all'amico Vincenzo Fedeli e in occasione della nuova edizione del 1590, preparata non più per Giolito a Venezia ma per Sermartelli a Firenze, dedicate al mecenate e protettore Lodovico Capponi (dedica, come abbiamo visto, ribadita anche dal curatore, che pubblica l'epistolario), dopo che il primo dedicatario era morto nel 1565.
Dedicatari Si è scelto di raggruppare i dedicatari per categorie, così da evidenziare modi e motivazioni ricorrenti. Trattandosi di dediche cinquecentesche non sembra inopportuno procedere nella classificazione in base ad un criterio gerarchico, al vertice del quale porremo i reggitori di stati. Salta subito agli occhi che questo tipo di dedicatario è esclusiva assoluta dell'Aretino, in perfetta consonanza con la sua biografia63 e con la finalità primaria delle sue raccolte di lettere, che prima di tutto e più di tutto, miravano a delineare un autoritratto ideale di uomo libero ma fornito di solidi appoggi e in contatto con le più alte sfere del potere del suo tempo. Il Libro primo delle sue lettere è dedicato a Francesco Maria della Rovere, duca d'Urbino.64 La lettera con cui Aretino promette al duca la dedica del libro è poi stampata nel libro stesso;65 in questa lettera il Della Rovere viene anche ringraziato per l'invio di cinquanta scudi e per aver confermato l'accettazione dell'Aretino nelle sue grazie («non tanto per i cinquanta scudi, quanto per toccar con mano che pur vi è accetta la servitù mia»). Un altro importante debito contratto pochi mesi prima con il duca non è ricordato nella lettera che annuncia la dedica, ma in un'altra, di pochi mesi successiva, diretta a Ottaviano de' Medici, zio e consigliere di Cosimo I,66 nella quale si ritrovano menzionati tanto il duca quanto il libro: Aretino ricorda la lettera scritta su sua richiesta da Francesco Maria della Rovere a Cosimo I per intercedere in suo favore, e la risposta promettente del Signore di Firenze;67 questa promessa («la reale intenzione di sollevarmi» − ossia favorirlo, secondo le parole dell'Aretino) è parte del debito (oltre a cinquanta scudi donatigli da Cosimo per mezzo di Ottaviano), che sarà ripagato con l'invio del Primo libro delle lettere, al momento dell'invio della lettera annunciato come «ne le stampe». La lettera prosegue spiegando che Aretino ha chiesto la mediazione di Francesco Maria «perché egli [il duca d'Urbino] l'ha [Cosimo de' Medici] nell'anima come il proprio figliuolo».68 Sembra quasi che Aretino intendesse sfruttare fino in fondo la dedicatoria già destinata al duca d'Urbino, ricordando, contestualmente alla promessa dell'invio del libro, l'affetto espresso dal duca verso il giovane principe, quasi suggerendo che la dedicazione del volume al Della Rovere avrebbe dovuto compiacere e onorare anche Cosimo. L'Aretino, in ogni caso, non ebbe occasione di godere a lungo del risultato di questa dedica, dal momento che il duca d'Urbino, la cui intercessione, probabilmente, fu ancora determinante perché l'Aretino evitasse di essere processato per bestemmia e sodomia nel maggio successivo,69 morì improvvisamente il 20 ottobre di quello stesso anno.70 Per quanto riguarda i rapporti con Cosimo I, la dedica non sortì alcun effetto.71 Il ritratto di Francesco Maria della Rovere tracciato da Aretino in questa epistola può essere diviso in due sezioni; viene dapprima delineata la figura del Duca in quanto dedicatario, meritevole del dono dell'opera sia per le sue qualità intrinseche («bontà, clemenza, fortezza»), che per le sue più specifiche caratteristiche di benefattore («benignità» e «gentilezza» in primo luogo, e poi «la generosità» che «ascende alle scale del Cielo con istupor de le genti, poi che la grandezza de la sua fortuna, nel crescere, muta in lui solamente il più volere e il più potere giovare ad altri») e di giudice competente ma benevolo dei suoi scritti («la Vostra sola deve chiamarsi eloquenzia, poi che ella si muove dal natural de l'intelletto con tanta facundia, che si riman confusa ne la maraviglia la lingua che le proferisce i concetti, e le orecchie che l'ascoltano»).72 Il passaggio alla seconda parte del ritratto avviene con un ritorno alle doti principesche del Duca: la dittologia apparentemente antinomica di «tarditate» e «velocità», una volta chiosata con «quella [la tarditate] vi stabilisce il senno, questa [la velocità] vi incita il valore», introduce la descrizione di Francesco Maria come uomo politico, di cui viene ricordato in primo luogo il rapporto con Venezia, città nella quale Aretino aveva trovato ospitalità e appoggio e il cui esercito il Duca aveva guidato con successo nel 1526-27, poi quello con l'imperatore Carlo V, i cui rapporti sia con l'Aretino che con Francesco Maria della Rovere avevano subito alterne vicende,73 infine quelli con il Papa (con tutta probabilità Giulio III),74 al cui servizio il duca d'Urbino avrebbe dovuto entrare proprio nel 1538, come comandante della Lega Santa contro i Turchi; tre potenze con le quali Aretino era interessato a mantenere o stabilire buoni rapporti. Il secondo libro delle Lettere aretiniane viene dedicato addirittura al Re d'Inghilterra, Enrico VIII. Le vicende che hanno preceduto e seguito questa dedica si riassumeranno qui brevemente, dal momento che sono analizzate in dettaglio, anche con il supporto di una lettera inedita, non a caso esclusa dall'epistolario, da Juan Carlos D'Amico.75 In sostanza, incoraggiato dalla generosità mostratagli fino a quel momento dal Tudor, l'Aretino fa presentare al sovrano il volume di lettere a lui dedicato,76 nella speranza non solo di ricavare ulteriori benefici economici, ma addirittura «una di quelle badie che in Inghilterra si tolgano a la tirannide prelatesca», come scrive in una lettera a messer Girolamo da Travigi (ossia da Treviso),77 nella quale Aretino annuncia che per ottenere dal re benefici simili a quelli che molti italiani avevano ricevuto alla corte d'Inghilterra (qui si sta riferendo in particolare a Lodovico Rangone), aveva iniziato «a fargli il varco con la intitolazione del secondo volume de le sue lettere, che quando ben non ne ritraesse altro che il suo accettarle, preporrà simil grazia a qualunque premio si sia». Queste parole (scritte, come nota Erspamer,78 prima della data ufficiale della lettera di dedica, primo agosto 1542) si riveleranno profetiche: numerose missive pubblicate nel successivo volume delle Lettere testimoniano il livore, generalmente trattenuto per non compromettere le residue possibilità di ottenere la rendita, del letterato toscano per il tardare della ricompensa promessa, nonostante l'intercessione nientemeno che dell'imperatore Carlo V.79 Quando poi Aretino scriverà ad Anthony Denny, ministro inglese, per accusare la ricevuta di parte della somma promessa, lo farà nella medesima lettera in cui porgerà le sue condoglianze per la morte del re Enrico, approfittandone anche per cominciare a cantare le lodi del suo successore, Edoardo VI.80 Questa dedica e le motivazioni che la determinarono sono oggetto di un interessante caso di autocensura: della prima stampa Marcolini del 1542, infatti, sono note due diverse emissioni, stampate in stretta successione temporale; la prima emissione è ricostruibile solo sulla base di alcuni fascicoli testimoniati dalle copie conservate alla Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna (Landoni 388) e alla Staatsbibliothek di Nürnberg. In particolare quest'ultimo esemplare, ignoto agli studiosi fino alla recensio di Fabio Massimo Bertolo per l'edizione nazionale, è l'unica attestazione di una versione della lettera di dedica diversa da quella testimoniata da tutte le altre copie superstiti del volume.81 La differenza più rilevante riguarda un passo cassato dalla dedicatoria, nel quale Enrico VIII veniva paragonato a re Artù «imperoché egli liberò da la tirannia de i Romani i corpi de le nationi Inglesi; & voi gli avete liberate da quella de i Pontefici l'anime», e prosegue «onde regnate dentro al core de le conscientie de i vostri popoli, con preminenza superna».82 Facevano il paio con queste azzardate dichiarazioni quelle della versione originaria della lettera del 27 settembre 1539 al signor Giambattista Guicciardini,83 conservata dalla copia della Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna. Qui Aretino affermava, tra l'altro, che avrebbe sempre testimoniato «come la maestà inglese acquista più in perseguitare chi ella perseguita che non acquistò Iosuè in perseguitar gli Ammorrei», e subito aggiunge: «saria atto di sempiterna autorità appresso de la fama il darmi una di quelle badie che in Inghilterra si tolgano alla tirannide prelatesca dalla cui perfidia sono aborrito». Il lungo passo censurato viene sostituito da due brevi lettere (a messer Camillo Giordano e al conte Massimiliano Stampa), con lo scopo di permettere la ricomposizione della sola forma contenente la lettera scorciata. La motivazione del cambiamento è evidente: all'iniziale vaga speranza di ottenere una badia in terra inglese si è sostituita in corso di stampa la prudente considerazione che fosse inopportuno, alla luce anche dell'inasprirsi del contrasto tra la corona inglese e il papato e in generale delle iniziative della Chiesa di Roma contro le posizioni scismatiche ed ereticali (il 21 luglio di quell'anno papa Paolo III aveva istituito il tribunale dell'Inquisizione), manifestare un appoggio così incondizionato alle posizioni di Enrico VIII, dal quale forse Aretino aveva già capito che sarebbe stato difficile ottenere molto, come poi effettivamente avvenne. Adeguato alla posizione gerarchica del dedicatario è il tono della sua descrizione nella lettera di dedica, caratterizzata dall'insistenza sui tratti di soprannaturalità del sovrano, a cui «conviene il titolo di Deitade, come di religione» (e a chiosa «vi si debbe il cognome di Divo, a causa che tuttavia fate gesti immortali; e appartienvisi la insegna di religioso, conciosia che sempre riverite il divino culto»), il cui «collegio de le [...] incomprensibili azzioni è da esser compreso dal muto de lo stupendo silenzio» e la cui misericordia e giustizia sono più divine che umane. Mentre il Della Rovere veniva descritto in relazione ai suoi superiori (Venezia, l'Imperatore e il Papa), Enrico VIII viene rappresentato come superiore ad ogni altro sovrano, a partire dall'iniziale paragone con l'aquila «signoreggiante ogni altro uccello»; gli altri regnanti («tutti coloro che hanno imperio ne gli uomini») non lo possono imitare, né invidiare, ma solo ammirare. Vengono descritte le sue qualità regali, sia in rapporto ai suoi sudditi (la «riputazion del nome», l'«ombra de la Maestà» «miracolo de la prudenzia»), che come defensor fidei: «spada che spaventa il furore degli infedeli», «penna che disperde la rabbia degli eretici», «dar della fede che rassicura le menti dei dubbiosi». Il ritratto si conclude con l'ennesima elaborata costruzione retorica: un quartetto di regali qualità («la pietà, la mansuetudine, la severitade, la cortesia») in chiasmo con le azioni da esse originate («con cui premiate, punite accogliete e perdonate») ribadito da un ulteriore quartetto di attributi («la cristianità, la degnità, la generosità, e la venustà») che diventano, ancora in chiasmo, qualità assolute («che vi fa venustissimo, generosissimo, degnissimo e cristianissimo»),84 che ribadiscono l'unicità di questo sovrano rispetto a tutti gli altri. L'appellativo finale che Aretino rivolge al suo dedicatario è scritto addirittura in maiuscolo: il re viene invocato come «soprano arbitro de le paci, e de le guerre temporali, e spirituali». Il terzo libro delle Lettere, che verrà stampato da Gabriele Giolito sotto la supervisione di Lodovico Domenichi, Aretino lo dedicherà a Cosimo I de' Medici, che, come scrive Larivaille,85 era «il primo dei [suoi] dedicatari», ma anche il principe «nel quale aveva creduto a priori di poter riporre le più fondate speranze» e dal quale «dovrà subire le più cocenti delusioni». La dedica del terzo libro è come sempre preparata da missive che poi confluiscono nel libro stesso: in particolare, nella lettera al signor Giuliano Salviati dell'aprile 1545,86 Aretino sostiene che, vista la nota munificenza del Granduca e della sua consorte, Eleonora di Toledo, ha «fatto voto di non mettere più in luce alcuna sua opera, che non sia dedicata ai lor nomi». A Cosimo in persona l'Aretino scrive nel settembre 1545, confermando la sua intenzione di dedicargli tutti i suoi scritti («ho fatto voto a Dio non pur di sempre adorarvi, ma nel rivolgere il titolo de le mie opere che si ristampano a la clementissima di voi bontade, confessare la tristizia con cui non l'ho fatto innanzi») e annuncia che sta per stampare il terzo libro di lettere «e pure al suo divin nome dicate». Il letterato non manca di sottolineare che l'omaggio è tanto ambito che il duca di Urbino (Guidobaldo della Rovere, che con Aretino sarà sempre molto più generoso di Cosimo) è «quasi isdegnato» per non esserne il beneficiario. Due brevi biglietti al Gian Francesco Lottini pubblicati nel quarto libro testimoniano la consegna del volume al Duca.87 Il primo indica come latore del libro Lodovico Domenichi88 il secondo ribadisce le grandi speranze riposte dall'Aretino nella magnanimità del Duca: «dico che avendo pure sua Eccellenza premiato altamente le traduzzioni altrui, ben posso io isperare qual cosa de le proprie opere mie. E tanto più che non con l'apparenza, ma con l'anima le ho a lei intitolate»;89 speranze che ancora una saranno volta deluse. Se a Enrico VIII si addiceva «il titolo di Deitade» Cosimo I è «quasi immagine di deitade vera»; ridotto è però lo spazio riservato alla vera e propria lode del dedicatario, visto che tutta la prima parte della non lunghissima dedica è occupata da una serie di variazioni sul tema della corrispondenza tra la dedica del volume e la fiamma votiva che si accende davanti alle divinità. Solo avviandosi alla conclusione dell'epistola l'Aretino riporta quella che sostiene essere la communis opinio sul granduca di Toscana: «ch'è tanta la felicità di senno ne la vostra gioventù fortunata, che in la ragion certa non dimandate consiglio altrui e in la dubiosa non deliberate solo; usando a chi la chiede giustizia, e misericordia a chi la merita». Egli ricorda inoltre la sua equanimità e la sua generosità e finisce con un accenno a Giovanni dalla Bande Nere, «padre vostro immortale dal qual (dopo Iddio) dipendeva la speranza d'ogni mio desiderio».90 Dopo due eccezioni, una piena e l'altra parziale,91 troviamo un altro libro di lettere di Aretino, il sesto e ultimo, dedicato a un altro dei regnanti delle signorie italiane: Ercole II d'Este, quarto duca di Ferrara. Secondo Larivaille non ci sono prove certe che i rapporti con l'Estense non si siano mantenuti sempre buoni, dal momento che la notizia della volontà del duca di voler far uccidere l'Aretino per le sue maldicenze è riportata solo dalla pseudoberniana Vita di Pietro Aretino, che si è dimostrata in molte occasioni inattendibile.92 Va però osservato che, sebbene nei primi libri delle Lettere aretiniane siano numerose le missive che si riferiscono al Duca, per lodarlo o per ringraziarlo di doni o piaceri ricevuti,93 a un sospetto silenzio nel quinto libro, che non contiene nessuna lettera a o su Ercole II, segue la dedica del sesto libro. Nello stesso libro è anche contenuta una lettera nella quale lo scrittore chiede perdono al duca «circa l'essergli suto ingrato».94 Non abbiamo invece, a differenza degli altri casi e per ovvie ragioni (dato che il libro è uscito postumo), l'annuncio dell'intenzione di dedica e notizie sul risultato ottenuto. Forse la manifestazione dell'ingratitudine confessata dall'Aretino consisteva proprio nel non aver mai dedicato una propria opera al duca, anche se non erano mancati elogi a Ercole II in altre opere.95 Con questa dedica l'Aretino infatti sostiene di voler chiedere perdono per «l'aver indugiato tanto ad esercitare le sue carte in pregio delle qualità che vi esaltano». Due sono gli aspetti della figura del duca che vengono messi in luce: la topica generosità, polemicamente contrapposta alle false promesse altrui («la di me non ingorda speranza, sepolta nell'urna delle bugiarde promesse di molti, risuscita nel di voi non prometter nulla e osservar sempre pur troppo») e la lodabilità, dimostrata dai molti omaggi da lui già ricevuti da altri: «i meriti illustri, che Idolo delle mirabil penne vi fanno», «tenente di continuo dinanzi a gli occhi del cuore la solenne Maestà della fama», «sì che non è miracolo se la gloria (che è un ombra di virtù) incoronavi nella vita di quel vanto che chi n'è degno premia tuttavia dopo la morte», «non che io, che sì poco so, ma ciascuno di coloro che sanno tanto, è tenuto a predicare nei fogli che [...]». La dedica sembra quasi percorsa da un certo imbarazzo e meno solenne delle precedenti, a contrasto con la dedica del titolo e la soprascritta, che, come abbiamo visto, raggiungono il punto massimo di magniloquenza. Non ci sono, significativamente, altri libri di lettere nel nostro corpus dedicati a personalità tanto importanti. La maggior parte dei volumi escono con dedica a nobili ed ecclesiastici, anche molto potenti e influenti, ma nessuno, se non l'Aretino, dedica la propria raccolta epistolare a un uomo di stato. Le Pistole vulgari di Nicolò Franco sono dedicate a Leone Orsini, vescovo del Fréjus.96 Secondo Franco Pignatti, che ha curato l'edizione critica dei Dialoghi piacevoli del Franco, «la scelta di mettere tutte e tre le opere maggiori veneziane97 sotto la protezione di un personaggio non di primo piano e per cui non si intravedono prospettive di solida ascesa» rivela un'applicazione non accorta della lezione appresa da Pietro Aretino nei confronti del quale, con le Pistole vulgari, si poneva in aperta concorrenza. In verità, se il minore peso sociale del dedicatario rivela subito che la rete di rapporti intessuta dal Franco non può certo competere con quella del suo inarrivabile antico protettore, non si può dire che i risultati pratici fossero inferiori di quelli ottenuti dall'Aretino con le sue dediche ai potenti: infatti il rapporto con l'Orsini fu molto proficuo per tutto il tempo in cui Nicolò Franco rimase a Venezia98 e, anche se il Betussi, nel suo Dialogo Amoroso99 scrive che Nicolò Franco «se lo aveva procacciato per benefattore, ma infine non se lo ha saputo conservare», non sembra che i rapporti tra i due fossero così nettamente compromessi.100 Dell'Orsini, prescelto come protettore delle proprie lettere, delle quali insiste a sottolineare l'indegnità rispetto alla sua «altissima nobiltà», Franco ricorda in primo luogo l'appartenenza a l'importante «legnaggio» degli Orsini. La protezione garantita dal giovane vescovo all'opera del Franco sarà dovuta a «la riverenza, per cui tutte le anime gli si inchinano: il valore, onde ciascuno l'osserva: la generosità, per cui tutti gli occhi lo mirano con istupore: e la vertù donde ogni lingua lo essalta», un catalogo di virtù piuttosto scontate, invero, forse anche per il fatto che Leone Orsini, «giovane nobilissimo», che al momento della dedica (settembre 1538) aveva poco più di 26 anni e doveva di fatto ancora iniziare la sua vita politica vera e propria, era più un promettente rampollo di buona famiglia che un vero e proprio potente. Anche il primo dedicatario del Primo libro di lettere di Anton Francesco Doni è un vescovo: si tratta di Federico Cesi, vescovo di Todi. Il Cesi, ben inserito nella curia di Roma, presso la quale aveva già rivestito importanti cariche, «incarna ancora, all'inizio dell'era tridentina, la figura del porporato rinascimentale ricco e colto, protettore delle arti e raccoglitore di antichità»;101 proprio questi due aspetti sono tematizzati nella dedicatoria di Girolamo Scotto, che si proclama in apertura e chiusura «servitore» del prelato e gli offre il volume «sapendo quanto ella ha caro di leggere sempre cose nuove, & piacevoli per alleviare i gravi pensieri del religioso animo suo con honesto diporto», mettendo così in luce sia l'attenzione alla cultura del tempo, sia l'impegno religioso del vescovo di Todi, sia la pretesa onestà delle lettere del Doni, «che non s'hanno à sdegnare di leggerlo i più esperti secretarij & cancellieri della Corte Romana»; la Curia romana è l'evidente obiettivo secondario della dedica, oltre al Cesi, benefattore diretto dello stampatore. Le stesse motivazioni saranno alla base della dedica del Secondo libro di lettere, questa volta direttamente indirizzata dal Doni ad Agostino Bonucci «dignissimo Generale di tutto l'ordine dei Servi». Uomo di grande cultura religiosa («già lungo tempo versata ne gli studi delle sacre lettere, et con certissimo honore di lei arrivata alla cognition de secreti di quelle») e attento pensatore, il Bonucci fu un padre tridentino (nel 1547, quando gli venne dedicato il libro, i lavori del concilio erano in pieno svolgimento), oltre che, come si ricorda già dalla soprascritta, Padre Generale dell'Ordine dei Servi di Maria (Serviti), ordine del quale anche Doni aveva fatto parte fino al 1540.102 Al di là dell'omaggio canonico103 e della giustificazione della propria opera come fonte di «honesto diporto», sembra che l'ammirazione del Doni per il Bonucci sia motivata proprio dalla grande cultura religiosa di quest'ultimo, più volte ribadita nella dedica, solida base per le idee che il Servita espresse in sede conciliare, dove «combatté le dottrine riformate, ma ne seppe cogliere, dal di dentro di un approfondimento biblico, anche le istanze positive».104 Nel 1550 Doni dedica a Bonucci anche la seconda parte della sua Libraria.105 La dedica al Bonucci viene mantenuta nell'edizione in tre libri uscita per Francesco Marcolini nel 1552, anche se il secondo libro di questo volume non corrisponde a quello stampato nel 1546 a Firenze con questo titolo, ma raccoglie parte dei testi già apparsi come Libro primo; anzi, la dedica al Bonucci, che apriva il Libro secondo del 1546 e la «diceria» Il vecchio indirizzata a Francesco Strozzi, che lo chiudeva, sono gli unici due testi di quell'edizione confluiti nel secondo libro dell'edizione Marcolini.106 Il terzo libro, aggiunto in questa edizione, è dedicato a Giacomo (Jacopo) De Nores, Contino di Tripoli. I De Nores erano una nobile famiglia originaria di Cipro, dove ancora risiedevano, come conferma anche la soprascritta della dedica (inviata «a Nicosia in Cipro»); Giacomo era probabilmente ancora piuttosto giovane e non aveva ancora ereditato il titolo dal padre, come si può arguire dal titolo di «contino» e non conte. Suggestivo è l'accostamento della provenienza cipriota di questo dedicatario con il soggiorno nell'isola dello stampatore del libro, Francesco Marcolini,107 soprattutto se collegato all'ipotesi di Paolo Temeroli che in quel periodo Doni fosse in parte finanziato dall'Accademia dei Pellegrini e dal Marcolini per svolgere funzioni di intellettuale a servizio della tipografia (contro l'ipotesi di un Doni che stampa a sue spese o in società col Marcolini).108 Si tratta però come si è detto di niente più che una suggestione, in mancanza di più sostanziose prove documentarie. Anche il testo della dedica non aiuta molto a fare luce sulla figura del dedicatario, al quale sono di fatto riservate poche righe finali di un'epistola già di per sé abbastanza breve e in buona parte occupata dal concetto della stampa come sommo rimedio all'oblio. Del De Nores, con la scusa di «non la ingiuriare, non lodando quella [la sua persona] a bastanza», si ricorda solo che «la Natura l'ha dotato di tutte le gratie et l'Arte di tutte le virtù» e che il suo operare è «Magnifico, Generoso, et Nobilissimo». Il dono del libro è fatto non solo per la «servitù» nei confronti del Contino di Tripoli ma anche di «tutti i Signori generosi & illustri & nobilissimi, simili a V. S». Il primo volume delle Lettere di Pietro Bembo è dedicato a Guido Ascanio Sforza, cardinale di Santafiora. La prima motivazione addotta per la scelta operata dallo stampatore, Valerio Dorigo, ma condivisa anche dai due curatori ed esecutori testamentari, Carlo Gualteruzzi e Girolamo Quirini,109 è la «molta affettione & molta riverenza» che il Bembo stesso avrebbe manifestato nei confronti del cardinale di Santafiora; vengono poi lodati, sempre attraverso presunte parole del Bembo, il suo ruolo di ecclesiastico e una magnanimità e una generosità degne di quelle degli antichi.110 Solo verso la fine della dedica viene ricordata, espressamente dallo stampatore, «la nobiltà & la chiarezza del suo sangue». Questo richiamo, seppur topico, nasconde forse anche una delle motivazioni della dedica, cioè una possibile intercessione dello Sforza presso Papa Paolo III, suo nonno,111 quantomeno per la concessione del privilegio di stampa papale, che apre il volume e reca la data del 3 dicembre 1547. Il secondo volume Lettere delle lettere di Bembo passò ai torchi di Antonio Manuzio, al quale si deve anche la dedicatoria, che è indirizzata proprio a uno dei due esecutori testamentari del Bembo, Girolamo Quirini (di cui si specifica che è figlio «del Magnifico M. Smerio [Ismerio]», per distinguerlo dal suo omonimo, figlio di Francesco, altro amico del Bembo). Manuzio, dopo una lunga prima parte dell'epistola tutta dedicata alla difesa da alcune obiezioni mosse alla pubblicazione delle lettere di cotanto letterato, afferma di aver dedicato il volume al Quirini prima di tutto in quanto in parte proprietario di alcune lettere («a lei stessa scritte»), e in un certo senso dell'opera,112 ma anche perché è colui che «fu più con M. P. congiunto» e «più da S. S. amato»113 oltre che per i suoi meriti di Veneziano «nobile» e «gentile»; l'editore ricorda inoltre come il Quirini sia stato anche materialmente benefattore della famiglia del Bembo: «conciosia che voi habbiate amato alle volte gli heredi del vostro amico morto più, che esso vivo non gli amò. Et ben grossa somma di moneta & di contanti, la quale egli molto amandovi, in morte vi lasciò in vita, morto lui, la sua memoria sommamente amando, a suoi heredi habbiate lasciato». Infine Manuzio ricorda la «statua di finissimo marmo & di mirabile artificio» fatta collocare da Girolamo Quirini nella chiesa di Sant'Antonio a Padova.114 Questa dedica è senza dubbio da ricollegare al passaggio delle opere di Bembo da Roma, dove era stato stampato anche il primo libro di lettere, sotto la cura diretta di Carlo Gualteruzzi (e romana è infatti, come abbiamo visto, la dedica del volume), a Venezia, sotto l'ègida appunto del curatore veneziano, Girolamo Quirini.115 Nel 1552, Gualtiero Scotto, pubblicando le Lettere di Bembo in quattro volumi, mantiene per i primi due le dediche originarie. Il terzo invece, che raccoglie lettere a «Prencipi & Segnori», lo dedica egli stesso al cardinale di Urbino Giulio della Rovere. Come nelle dediche dei primi due volumi si ricordano i legami del Bembo con il dedicatario, o meglio in questo caso con la sua famiglia, simboleggiata dalla quercia, alla cui ombra questo divino ingegno fiorì ancho egli al tempo, che quella dotta & nobile schiera di spiriti eletti, nella corte della sempre viva, & sempre dal mondo honorata memoria del Sig.or Duca Guido Ubaldo di quel nome Primo, vostro Avolo.116 Addirittura, sostiene Scotto, a Urbino questo medesimo libro per la gran parte fu ordito, & tessuto, insieme con gli altri, che nell'una, & l'altra nostra lingua dal medesimo autor nostro, con tante & si belle & si magnifiche lodi della vostra nobilissima casa, & de' vostri illustrissimi progenitori scritti & dettati, in ogni parte del mondo tutto dì si leggono, & per mano si tengono. La dedica del volume al cardinale d'Urbino, come si mette in chiaro fin dall'inizio della lettera, era «suta imposta» allo stampatore, che sembra quasi accettarla di malavoglia o quantomeno maldestramente, già a partire dall'accenno appena ricordato, per finire con l'appello a nome del committente della dedica, che rimane misterioso (ma sarà stato noto a chi conosceva le vicende editoriali del volume e soprattutto al dedicatario): rimane che nella buona & salutevole gratia vostra io raccomandi colui, che la mi diede: del quale tuttavia non accade, che altra più particolar contezza vi se ne dia, che quella, che voi stesso di lui comprender potrete: peroché lo stato di lui non è tale che basti à tanto conoscitor sostenere, chente voi siete. Solo dopo essersi liberato di questa incombenza lo Scotto può tracciare il breve, usuale ritratto del dedicatario, praticamente in chiusura insieme con gli auguri di rito: State adunque sano Ill.mo & R.mo Signor mio: & poscia che di giustitia & di prudentia & d'ogni altra vertù, nel reggimento di cotesta vostra bella et gran provincia tutti gli altri Prencipi & Sig.ri della vostra età di gran lunga superati havete; attendente hora à procurar di vincere & superar voi stesso per lo innanzi. Quando Francesco Sansovino, nel 1560, ristampa i quattro volumi dell'epistolario di Bembo, dedica il primo volume a Filippo Mocenigo, arcivescovo di Cipro, proprio in occasione della sua nomina, avvenuta il 13 marzo di quello stesso anno (termine post quem per la dedica, che non è datata).117 Ricordando poi la nobile famiglia Mocenigo («già al presente copiosa di chiarissimi Senatori, di valorosi Capitani & di grandissimi Principi») il Sansovino si augura che il nuovo arcivescovo di Cipro possa aumentarne la fama con «la virtù sua [...], & le sue religiose operationi».118 Per questo lo stampatore si pone al suo servizio. Solo fuggevole è l'accenno al Bembo, a differenza dell'edizione precedente. La caratteristica che più di tutte induce il Sansovino a dedicare al conte Marcantonio da Thiene il secondo volume delle lettere, oltre ovviamente alla «sua nobile & antica famiglia» e alle «sue rare & belle qualità», è la sua ospitalità di mecenate: «sentendo che nelle vostre honoratissime case degne di esser habitate da i Re, sono abbracciati non solamente gli huomini rari per lettere, ma gli Scultori, i Pittori, & ogni altra maniera ancora di persone di qualche virtù», con l'evidente speranza di essere tra quelle persone.119 Anche in questo caso il legame con l'autore del libro è liquidato con un generico paragone («a me pare che nella humanità, nella dolcezza della conversatione, nella cortesia liberale, & nella affabilità della maniera voi siate tanto simile al Bembo quanto si possa dire»). Marcantonio Thiene morì nel 1560, lo stesso anno dell'uscita del volume a lui dedicato. Con il conte Girolamo della Torre, patrizio di importante famiglia veneziana, dedicatario del terzo volume, il Sansovino può già vantare, secondo le sue stesse parole, una lunga consuetudine e i benefici che da essa sono derivati («essendo già molti anni vostro antico servitore, ho veduto & sentito intrinsicamente il valor vostro & la vostra bontà in molte occorrenze di cose importanti»); oltre alle solite qualità del dedicatario («rare qualità d'animo», «affabilità», «dolcezza di natura», «sincerità di procedere», «nobiltà di costumi»), viene sottolineata l'antica nobiltà della sua famiglia, i cui antenati ressero la città di Milano e la Lombardia. Inoltre, come già per il Mocenigo, viene sottolineato il plauso ottenuto dal conte nella città di Venezia: «ella splendendo a gli occhi di questa maravigliosa Città, viene amata & lodata sommamente per la modestia; per la magnificenza & per la grandezza sua». Infine i consueti auguri sono estesi «a suoi bellissimi & honorati figliuoli, & a tutti i suoi congiunti & amici», ma in particolare ed espressamente al fratello Michele, vescovo di Ceneda. Non si fa invece cenno alla moglie del Della Torre, Giulia Bembo, che pure avrebbe potuto collegare il dedicatario all'autore del libro, essendo figlia di Gianmatteo Bembo, nipote dello scrittore; su di lei, Francesco Sansovino scriverà, pochi anni dopo, un intero volume, la Vita della contessa Giulia Bemba della Torre.120 Il primo volume di lettere di Bernardo Tasso è dedicato a «Monsignor d'Aras», ovvero ad Antoine Perrenot di Granvelle, vescovo di Arras, ministro imperiale di Carlo V.121 Una lettera pubblicata nello stesso epistolario122 scritta a Baldo Granato da Anversa (senza data ma risalente al 1544), dà notizia della consegna da parte di quest'ultimo di un «dono, che è picciolo, & basso» del Tasso al Perrenot. Di questo dono, Tasso dice: «Et mi rendo certo, che non la bellezza delle lettere mie, ma la gentilezza della sua natura l'abbia mosso a laudarle», e prosegue «con le chiavi del vostro favore m'havete aperta questa porta del suo servitio». Tasso si riferisce alle lettere che già circolavano manoscritte, dedicate a Monsignor d'Arras, che poi sono confluite in questo primo volume dell'epistolario, con il medesimo dedicatario.123 Nel 1547 Bernardo Tasso fu accolto direttamente nella Corte imperiale, dove rimase almeno fino al gennaio del 1548;148 tra tutti i dignitari con cui stabilì o rafforzò proficui legami «quegli [...] col quale ei contrasse più stretta servitù, fu il celebre Monsignor Perenotto, allora Vescovo d'Arras, poi cardinale di Granvela, personaggio di grande mente, e di non minore autorità in quella Corte».125 Pagamento di un debito quindi,126 ma anche costituzione di un credito per successive richieste di intercessione presso l'imperatore.127 La dedica a Monsignor d'Arras, in verità, è assai parca di lodi nei confronti del destinatario: solo nel rappresentarlo topicamente come sostegno solido per la costruzione a suo dire fragile rappresentata dalla raccolta di lettere, Tasso ricorda «l'altezza de la virtù, & de l'auttorità» del Perrenot, e poco avanti lo definisce «persona di perfetto giudicio». Solo verso la fine della dedica Bernardo, riprendendo l'immagine della statua e del suo solido piedistallo che aveva tratteggiato nella prima parte della dedica, ricorda la sua devozione al Vescovo: «il loro peso [delle lettere] così grave non sarà, che la devotion de l'animo mio verso di voi, e'l desiderio, che io ho di servirvi, & di honorarvi, maggiore di gran lunga non sia». Poi però tutto il resto dell'epistola è occupato dalla necessità di giustificarsi per la presenza di lettere «nelle quali la Fortuna del Christianissimo piu tosto, che quella di Cesare egli mostri desiderare», lettere dovute alla fedeltà del Tasso verso il suo signore Ferrante Sanseverino, non a disaffezione nei confronti dell'imperatore.128 La dedica a Pietro Paolo Manfrone, governatore di Verona, delle Lettere di Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo, pur non essendo firmata è sicuramente di Ortensio Lando. La maggior parte dei commentatori ha ritenuto che tutto l'epistolario, in verità, fosse in tutto o in parte opera del letterato (come lo è, del tutto o in parte, la raccolta di Lettere di molte valorose donne),129 ma nessuno è riuscito finora a produrre prove definitive a sostegno di una tesi o dell'altra.130 In ogni caso è evidente che il dedicatario del volume è stato scelto in quanto parente della Gonzaga;131 l'unico aspetto della sua personalità che viene ricordato nella dedicatoria è l'ammirazione per la «prontezza d'ingegno» e la «tenace memoria» della Gonzaga. Forse il richiamo alla famiglia Manfrone fin dalla dedicatoria serve ad attirare l'attenzione sulle vicende riguardanti il marito di Lucrezia, Giampaolo Manfrone, condottiero a servizio della repubblica di Venezia catturato e condannato a morte dal Duca Ercole II d'Este, condanna poi commutata nel carcere a vita (e in carcere Manfrone morì nel 1552).132 Per il resto, la dedicatoria non sembra mirare ad ottenere specifici benefici, se non, nel caso di apocrfìa della raccolta, una presunta legittimazione dell'autenticità dell'opera.133 Il Sanesi accosta l'epistolario di Lucrezia Gonzaga a quello di Pietro Lauro:134 mentre il primo potrebbe essere opera del Lando (e il Sanesi ne è convinto) per via dello stile, ricco di «citazioni della storia e della mitologia» e caratterizzato da «una certa maniera di filosofare tutta propria del Lando», è proprio questo stile, paradossale e basato sull'accostamento di contrari, che il Lauro vuole apertamente imitare in quelle che, secondo l'opinione di Sanesi, sono lettere fittizie scritte à la Lando. Certo è che la dedicatoria a Francesco Chimenti, nobile fiorentino del primo libro di Lettere del Lauro si può considerare esattamente speculare a quella appena vista al Manfrone: laddove nella prima il dedicatario veniva liquidato con la titolazione della soprascritta, qui l'autore si diffonde in numerose variazioni sul tema della generosità del Chimenti nei confronti dei virtuosi, ma soprattutto nei confronti del dedicante, tanto che il Lauro lo vedeva «tanto disposto ai suoi comodi, che lui à saper desiarli». Altro aspetto sottolineato in più riprese è il piacere provato dal Chimenti nell'intrattenersi in dotte conversazioni,135 conversazioni che il Chimenti ritroverà in parte divenute materiale per queste lettere («Et io tenendone memoria, me ne sono in molte mie lettere servito»). Quando Paolo Manuzio, già editore di una delle più fortunate raccolte antologiche di lettere volgari,136 stampa le sue proprie lettere con il titolo di Tre libri di lettere volgari (1556)137 indirizza a Antonio D'Avila, Gran Contestabile dell'isola di Cipro,138 una dedica che rispetta tutti i luoghi comuni: la motivazione dell'affezione del dedicante, individuata nell'«opinione di virtù», ritenuta, tra le tre cause che muovono all'amore (le altre due sono i benefici e la conformità di costumi), la più potente perché può nascere e si può esercitare anche da lontano, è seguita dall'espressione del «desiderio di servirlo & honorarlo», dalla lode della patria del dedicatario, Cipro, «molto honorata» ma resa anche più illustre «col lume delle sue rarissime virtu'» e dall'elenco delle «conditioni, che riguardevole lo fanno: che sono, i costumi, gli studi, la grandezza dell'animo, e valor suo» e che danno onore alla sua illustre casata. Lodovico Domenichi dedica le lettere di Giovio, da lui pubblicate postume, a Matteo Montenegro, «gentilhuomo genovese». Oltre alle solite manifestazioni di «affetione» e «riverenza» e al solito florilegio di virtù (tra cui la «natural modestia»), colpisce il doppio riferimento a Marc'Antonio Passero: Essendo Io dunque, già è buon tempo, informatissimo per fama delle virtuose qualità & conditioni di V. S. & dipoi per relatione del mio cortesissimo, & carissimo amico M. Marc'Antonio Passero, il quale va tuttavia in traccia de più eccellenti & più valorosi suggetti d'Italia; e ancora: Et di questo volontario tributo ne saprà grado al Passero, serventissimo predicatore delle sue rarissime virtù: il quale havendo nuovamente veduto, che V. S. così felicemente accompagna le sue copiosissime & bene impiegate ricchezze con lo studio de le buone lettere, va per cosa mirabile additandola a chi ha il lume dell'intelletto. Anche Lodovico Dolce, che aveva dedicato al Montenegro il settimo volume di Rime di diversi autori napoletani e d'altri uscita presso Gabriel Giolito de' Ferrari nel 1556 (che conteneva anche alcune poesie del Montenegro), aveva, nella sua dedicatoria, ricordato il Passero, che in questo caso era anche il raccoglitore dei componimenti. Quindi oltre che un omaggio diretto a un cultore di lettere e possibile benefattore, la dedica del Domenichi è un indiretto tributo a Marc'Antonio Passero, sponsor del poeta genovese. I libri di lettere del commendatore Annibal Caro, pubblicati postumi per le cure dei nipoti (rispettivamente Giovambattista per il Volume primo e Lepido per il Volume secondo) sono dedicati a due cardinali. Il primo, pubblicato nel 1572 è dedicato all'anziano Cardinale di Correggio,139 in nome non soltanto della benevolenza da lui sempre mostrata nei confronti dell'illustre zio, ma anche dello stesso Giovambattista Caro «giudicandolo degno de la successione di suo zio & insieme de la gratia sua». Il cardinale morirà nell'ottobre dello stesso anno, dopo essere stato a maggio tra i papabili per la successione al soglio pontificio di Pio V (appoggiato da Alessandro Farnese ma non gradito a Filippo II). Risultò invece eletto in quel conclave il candidato sostenuto dal dedicatario del Volume secondo, Tolomeo Gallio, vescovo di Como.140 Lepido Caro ammette esplicitamente il ruolo del dedicatario nella stampa del libro: dopo la morte del precedente curatore, il fratello Giambattista, Gallio aveva «con l'auttorità sua ritenuto nella persona sua & de gli altri suoi fratelli tutto quello che a la morte d'esso M. Giovambatista di trovò in termine di potersi conservare»; Lepido spera che il favore fino a quel momento dimostrato non mancherà di essere espresso anche in occasioni future di necessità e, come d'uso, commette al dedicatario al suo «giuditio esattissimo» e al «favor suo» la difesa dell'opera.141 Difficili da identificare sono i dedicatari dei due libri di Lettere di Luca Contile:142 probabilmente Giovanbattista Spinola era un gentiluomo genovese, forse un membro dell'Accademia degli Affidati: a lui Contile dedica il primo libro, unendo nell'omaggio anche il fratello Franco Spinola (e paragonando i due fratelli a Castore e Polluce). Buona parte dell'epistola è comunque dedicata a osservazioni sull'opportunità di pubblicare lettere familiari. Altrettanto difficile da identificare con sicurezza è Alessandro Cremona, probabilmente un gentiluomo lombardo. Il Contile, a differenza di quanto afferma riguardo a Spinola, non aveva conosciuto di persona Alessandro Cremona, ma sostiene di essere rimasto colpito da come «ogni scrittore lo essalti & lo admiri», ma soprattutto «in leggere i Sonetti del Gherardini nostro Academico Affidato, in vostra meritata laude leggiadramente distesi»; anche in questo caso quindi il collegamento con il dedicatario passa probabilmente attraverso l'Accademia degli Affidati di Pavia.143 Contile conclude la dedica sostenendo che il dono del volume è stato deciso solo per unirsi al coro di lodi in suo onore, «perché chi lo loda [...] dice la verità, non è mosso da vitio di Adulatione, non tirato da speranza de favori, non punto da ingorda Avaritia, ma spronato dal obligo che dee ogni animo gentile all'opere, manifesto testimonio delle sue virtù». Del tutto evidenti sono invece le primarie finalità materiali (ossia soprattutto una rendita economica)144 di un piccolo gruppo di dediche a quelli che potremmo chiamare uomini d'affari, due italiani e due membri di grandi famiglie tedesche attive in Italia. Il primo è il dedicatario del quarto libro delle Lettere di Pietro Aretino, il cremonese Giovan Carlo Affaitati, ricco mercante attivo a Venezia, Lisbona e Anversa, e generoso mecenate.145 L'epistolario anche in questo caso è prodigo di notizie che ci permettono di ricostruire premesse e risultati della dedica. L'offerta della dedica è testimoniata da due lettere stampate una di seguito all'altra nel quarto libro: la lettera IV 235, datata novembre 1547, «Al capitano Cremona», che farà avere la richiesta all'Affaitati,146 e la lettera seguente «Al signor Gian Carlo Affaetati», con la medesima data, dove Aretino non solo annuncia la dedica del prossimo libro, ma anche di «quanti mai comporrà libri, peroché oggidì i gran maestri son diventati per l'avaritia mercanti, e i mercanti ne la liberalità gran maestri». Si ricorda che la medesima promessa era già stata fatta, ed evidentemente disattesa, ai Granduchi di Toscana. Il primo risultato già solo dell'annuncio della dedica è il dono di un diamante, per il quale l'Aretino ringrazia nella lettera IV 389 del marzo 1549 e che verrà espressamente ricordato proprio all'inizio della dedica («non fu cosa impropria a la generosità di lei, se io nel subito salutarvi con le mie lettere, ne ritrassi il diamante, che è divenuto ormanento di quel dito, a cui si appoggiò la penna, che ve la scrisse umilmente»). Ancora, nel quinto libro si trova un accenno alla dedica, nella lettera V 265 «Al Litta», del giugno 1548: «Avegna che a l'altro di Cremona tocca a me sodisfare, per via de l'opra che d'altro non dee esser che sua. In cotal mezo, basciategli la mano, come a mio benefattore; conciosia che padrone mi è egli per merito». Il quinto libro riporta anche la lettera che Aretino scrive «A lo Affaetati» dopo aver avuto notizia della sua positiva reazione nel ricevere il volume a lui dedicato. All'Affaitati, che si era schermito dicendo che quell'opera «doveva in più alto luogo rivolgerla», Aretino risponde che «se non fusse tanto di sapere ne lo intelletto ch'io tengo, quanto è di grandezza nel merito che vi fa risplendere, io non vi sarei men largo di laude al nome, che voi mi siate liberale d'oro ai bisogni», con l'ennesimo palese e un po' grossolano riferimento materiale alle ricchezze del mercante cremonese;147 in chiusura di lettera Aretino non manca di ricordare di aver dedicato i precedenti tre libri al Duca d'Urbino, al Re d'Inghilterra e al Principe di Firenze, e che un nuovo volume era già in preparazione e pronto per essere dedicato a qualcun altro (Baldovino Del Monte fratello del Papa appena eletto). Che la generosità dell'Affaitati non fosse cessata con il dono del volume lo dimostrano altre due lettere del quinto libro, datate gennaio 1550 e riguardanti un altro dono ricevuto dall'Aretino: la lettera V 403 è un ringraziamento diretto al mercante; la lettera successiva «A lo Albizi» si diffonde in particolari su questa elargizione: pregovi che ancora lo avvisiate [Monsignor De la Casa] del come il Signor Gian Carlo èmmisi di nuovo mostrato largo d'una collana di più di cento scudi in valuta, iscusandosi che non doveva aver trovato il Rubino de la finezza che desiderava, e de la sorte che gli promesse in la lettra che a lui indirizzò là di Anversa. Del che mi chiamo ben soddisfatto, che invero le di lui cortesie si avanzano sopra ogni merito mio. Come è ben prevedibile, anche la dedica è incentrata sulla generosità e magnanimità tutta materiale del cremonese («voi benefattor d'ognuno», «il numero di tutte quelle tante genti, di tutti quei tanti vertuosi, e di tutti quei tanti cavalieri, a i quali la liberalità sua prodiga apre di continuo il seno, non che le casse e le case»), ma anche sulla sua umiltà e affabilità. Aretino sottolinea che l'Affaitati «perché ne l'affabilità, e ne la eccellenza e ne la grandezza non si lascia oggidì vincere da verun Principe» può essere paragonato a un re. Questa dedica, di fatto l'unica tra le dediche dei libri di Lettere dell'Aretino, non indirizzata a un potente, sembra una delle tante manifestazioni di polemica verso quei Signori nei confronti il «flagello dei principi»148 alternava blandizie e reprimende. Basti vedere come in una lettera «Ai signori Fuccari» (i Fugger, ricca famiglia di mercanti tedeschi, con sede italiana a Firenze),149 Aretino si lamenti della misconoscenza del re d'Inghilterra: «Vergognisi la Maestade Inglese, mentre in tal cosa mi dolgo; poi che a me, che gli incorono il nome di lodi, s'è dimostrata villana. A voi dedicarle devevo, Magnanimo signore Antonio; a voi che posto in mezzo del Gian Iacopo e del singolare Giorgio, mirabili nipoti vostri, parete il senno tra la generositade e il valore»; il proposito in fondo verrà realizzato proprio con la dedica del quarto libro di Lettere, anche se il benefattore scelto non sarà la famiglia Fugger, ma appunto Giancarlo Affaitati. Si può far rientrare nella categoria degli uomini d'affari anche il dedicatario delle Lettere famigliari di Girolamo Parabosco, il cavalier Francesco Bernardo.150 Nella breve dedica premessa alle sue Lettere Parabosco ammette semplicemente di aver bisogno di benefattori: «si comprende dallo affaticarmi ch'io faccio, per acquistarmi padroni huomini illustri & valorosi. V. S. adunque [...] è fra i valorosi valorosissima». Le Lettere famigliari sono stampate insieme al Primo libro di madrigali del Parabosco; questo libro è dedicato a Laura Bernardo, moglie di Francesco, in una specie di supplemento della dedica precedente: Chiarissima Madonna, il giudizio ch'io ho dimostrato nello onorare le mie lettere famigliari nel nome dell'onoratissimo e generosissimo cavagliero suo consorte e mio singularissimo padrone, parrebbe cosa che il caso mi avesse fatto fare, se, dovend'io mandare fuori questo mio primo libro de' Madrigali [...] io non onorasse loro del felice nome e splendore di Vostra Signoria e di casa sua. A un esponente della famiglia Fugger, come avrebbe voluto fare Aretino, Pietro Lauro dedica il suo secondo libro di Lettere e precisamente a Johann Jakob Fugger (Giovan Giacomo Fuchari), uno dei nipoti di Anton Fugger, che si contraddistinse per un mecenatismo quasi dissennato, che portò la famiglia al dissesto finanziario.151 Tutta la prima parte della dedica del Lauro è occupata da un intricato ragionamento che spiega l'intento dell'autore nello scrivere e raccogliere le lettere. Solo alla fine della dedica Lauro sostiene di aver scelto il Fugger come «potente defensore» di queste lettere, per la sua virtù e bontà, la sua umanità e il «prudente giudicio» che gli permetterà di ben accogliere l'opera che gli verrà donata. Il medico modenese, che non conosce ancora direttamente il Fugger, vuole con questa dedica mostrargli «quel reverente affetto, ch'egli deve ad ogni nobile personaggio, che favorisca a letterati», sperando ovviamente di diventare uno dei letterati beneficiati. Alla stessa città dei Fugger, Augusta, appartengono i personaggi citati nella dedica di Frosino Lapini a «Lodovico Langenaur [Langenauer] Augustano Alemanno». È lo stesso Lapini a fornirci il curriculum dell'augustano, dottore «nell'una e nell'altra facoltà»: fu rettore del «nobilissimo studio di Padova» (probabilmente nel 1553-54) e dal Senato di Venezia fu nominato Gentiluomo e Cavaliere di San Marco.152 Il Langenauer apparteneva probabilmente alla famiglia cotitolare della ditta Haug-Langenauer-Link, in ogni caso il suo legame con il mondo degli affari della città di Augusta (e con le sue propaggini a Firenze) è testimoniato anche dalla dedica in esame: Lapini infatti riferisce che è stato spinto a stampare le sue lettere in particolare da Hyeronimus Kraffter, altro mercante augustano, di confessione protestante (i Fugger invece erano cattolici),153 e di aver deciso di dedicare il libro al Langenauer quando «dal suo amicissimo & mio ottimo Mecenate M. Iacopo Pachmair di lei con molta affectione mi fu parlato». Si tratta di Jakob Pachmair (o Pachmayer) che lavorava per i Kraffter. Per certi versi assimilabili alle dediche appena viste sono due dediche indirizzate ai datori di lavoro degli autori, in entrambi i casi da parte dei curatori del volume. Valerio de' Paoli, sostiene di aver stampato le lettere di Giovan Camillo Maffei, medico e musicista, perché gli sono «capitate [...] nelle mani» e di averle volute dedicare a Giovanni di Capua, conte d'Altavilla «acciò che alla sua honorata servitù, elle lo conducano». Ora, considerando non solo che Maffei era al servizio del conte, come medico e come musicista, e che anche la successiva opera del Maffei fu dedicata al conte d'Altavilla,154 è decisamente probabile che la decisione di dare alle stampe il volume e la scelta del dedicatario sia da ripartire tra il curatore e l'autore, come conferma anche la parte finale della dedica, che coinvolge nel dono anche il Maffei: «Dunque, togliendo da lui l'inventione, da me, la fatica, e dall'uno e dall'altro il desiderio di servirla; riceva il dono e l'guiderdone sia l'amarci». La prima edizione (postuma) delle Rime e lettere di Vincenzo Martelli è dedicata dal curatore, Baccio Martelli, a Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, di cui il fratello Vincenzo era stato «antico, & fedelissimo servidore».155 La dedica è motivata dal fatto che Vincenzo aveva scritto sia le Rime sia le Lettere mentre era al servizio del principe di Salerno.156 Baccio giustifica l'esiguità del materiale raccolto perché «il più del tempo consumò [Vincenzo] ne' servigi di S. E. Illustrissima». Infine Baccio Martelli non manca di ricordare la situazione sfavorevole nella quale il principe si trova in quel momento157 e a garantire in un certo senso il suo sostegno morale.158 In alcune delle dediche fin qui esaminate, il dedicatario veniva ricordato insieme ad altri personaggi a lui collegati, che si rivelavano così come obiettivo secondario dell'omaggio.159 Ci sono al contrario alcuni casi, che vedremo ora, in cui il dedicatario è palesemente un tramite per raggiungere il personaggio al quale davvero ci si vuole rivolgere, quasi, potremmo dire, delle dediche per interposta persona. Mentre Aretino stava preparando per la stampa il suo Quarto libro, dedicato, come già visto, al mercante Giancarlo Affaitati, viene eletto al soglio pontificio, il 7 febbraio 1550, il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, suo conterraneo (era di Monte San Savino, nel territorio di Arezzo) e corrispondente,160 che assume il nome di Giulio III. Per Aretino si tratta di un'occasione promettente, che egli cerca di sfruttare, ricorrendo ad ogni mezzo a sua disposizione, come mostra diffusamente Larivaille;161 l'obiettivo, mai espresso troppo esplicitamente, ma chiaramente ravvisabile, è quello di ottenere la porpora cardinalizia. A tal fine Aretino cerca di mobilitare i suoi corrispondenti,162 compone opere che hanno direttamente per oggetto Giulio III,163 e dedica i suoi libri al Papa direttamente o a personalità a lui vicine.164 Il primo omaggio alla famiglia del nuovo Papa è proprio il quinto libro di Lettere, che ha una gestazione rapidissima e intrecciata con quella del precedente volume,165 e che viene dedicato a Baldovino del Monte, influente fratello di Giulio III. Il vero bersaglio della dedica è evidente fin dal vocativo che apre l'epistola: «O del Pontefice massimo, ottimo fratello, e divoto», sottolineato anche dal carattere maiuscolo che nelle dedicatorie Aretino usava con parsimonia, e che qui ritorna a sottolineare i nomi di Baldovino e Giulio III quando vengono resi espliciti verso la fine della dedica (ancora al maiuscolo Aretino ricorre nel nominare Cristo, Gesù, la Trinità − Padre, Figliuolo, e Spirito Santo − e Pietro, di cui Giulio III è il successore). Se l'offerta delle lettere viene fatta a Baldovino, dicendo che il suo nome è «giocondo e salutifero ad ognuno» e che «la Eccellenza dei suoi costumi si sforzò sempre d'essere ciò che egli è, e maggiore», il fatto che egli sia conosciuto come «inimico della superba ambizione, e infesto» diventa l'occasione per il passaggio al ben più illustre fratello, che da questo trae consolazione. Segue così la lode al vero destinatario dell'omaggio, Giulio III, di cui vengono esaltate le qualità con l'adeguata enfasi. Solo a questo punto Aretino torna a rivolgersi a Baldovino, ma per stabilire una parallelo incrociato tra i due fratelli: Ma perché la Bontade nasce da convenienza, tutti i di lui fermi andari si accordano con quegli in che lo somigliate sì forte, che (sì come ho detto) ne sente qualunque consolazione di contento può exprimere una abondante copia d'allegrezza in un Petto (simile a quello di sua Beatitudine) saldo, fermo e immaculato. E a entrambi saranno dedicati gli auguri in chiusura. La dedica, significativamente non datata, avrà effetto immediato su quanto è nelle possibilità di Del Monte, che farà ottenere ad Aretino la nomina a Cavaliere di San Pietro,166 ma non servirà a fargli ottenere la desiderata nomina a cardinale. Evidentemente mirata ad ottenere i favori di Cosimo I granduca di Toscana è anche la dedica dell'edizione fiorentina del primo libro delle Lettere di Anton Francesco Doni (la cui prima edizione, si ricordi, era uscita a Venezia presso Girolamo Scotto nel 1544 ed era dedicata dallo stampatore a Federico Cesi e dal Doni a Lodovico Domenichi): nel 1546, quando Doni stampò il libro nella sua neonata impresa editoriale fiorentina, il figlio di Cosimo I, Francesco de' Medici, dedicatario dell'opera, aveva appena cinque anni, perciò, anche se purtroppo non mi è stato possibile per il momento recuperare la dedica,167 è chiaro fin dalla soprascritta, intitolata a «il S. Don' Francesco de' Medici, primogenito dell' Eccell. duca di Fiorenza» che la dedica intende compiacere quest'ultimo, alla cui benevolenza era legato il ritorno e la permanenza del Doni a Firenze.168 Spesso queste dediche per interposta persona erano rivolte a donne, con lo scopo di ottenere benefici dai loro mariti o parenti, magari anche proprio grazie alla mediazione della dedicataria. Ancora Doni, per esempio, dedicando l'intero volume dei Tre libri di lettere a Costanza Vitelli Baglioni,169 non fa mistero di voler in questo modo omaggiare le due potenti famiglie, alle quali offre apertamente i suoi servigi: se io non ho potuto pareggiare il Dono della gratia vostra (anchora che io sia il Doni) con sì poco libro pieno di parole, (non vò dir che'l cuore supplisce, per che vorrei poter mostrarlo) accadendo la servitù mia mai per alcun tempo alla Casa vitella, & bagliona; lo mostrerò con i fatti. Anche facendo professione di modestia Doni scrive di non sentirsi degno prima di tutto di lodare «si famose case Illustri, ne in tanti huomini Illustrissimi per lettere, & per armi», e solo poi «le virtù di V. S. degne d'ogni lode & honore».170 Anche Nicolò Martelli, che stampò il suo libro di lettere preso la stamperia di Doni a Firenze, dedica la sua raccolta a una donna: si tratta di Maddalena Bonaiuti, moglie di Luigi Alamanni.171 Nell'incipit lo scrittore ricorda subito il noto marito, dicendo di aver pensato in un primo momento di dedicare a lui il libro, ma aggiunge: «facendolo errava, & tale errore meritava riprensione: ma haveria risposto, che non meno si conveniva alle sue nobili qualitati & magnanime Eccellenze d'esser sacrati purissimi inchiostri, che egli stesso s'habbia fatto si divinamente quelle d'altri»; così Martelli si rivolge a Maddalena: «ma ecco che voi per essere il cuore dell'anima sua; come egli l'animo de l'anima vostra: indirizzandole alla candidezza di quello splendore: che vi adorna il pellegrino spirito di si pregiate lodi: ci haverà parte in ogni modo». Con la donna, in ogni caso, Martelli ha debiti personali diretti: di lei infatti viene lodato «l'offitio di cortesia» e la sua capacità di intercedere efficacemente «dalle gran Madame & dalle persone deputate, à ciò per le vie ch'ella sa più brevi & migliori», sostenendo che, vista l'influenza che già esercita alla giovane età di ventidue anni, è facile pensare che tutte le faccende importanti di cotesto Christianissimo Regno, si guideranno un giorno nel dignissimo cospetto vostro per conferirle nella Maestà della Sereniss. Madama caterina unica vostra Signora & mia sempiterna Patrona, acciò ch'ella ne risolva poi col grande arigo Marito suo, quello che Dio gli spirerà. In effetti la Bonaiuti era dama di compagnia della potente Caterina de' Medici, futura regina di Francia. Il Martelli, ricorda poi un episodio preciso: «quando non havendo di me à gran pena conoscenza vi degnaste introdurme a villa Cutrea la vigilia del Batista hora ha due anni, davanti al sacro cospetto della giovane reale: per presentarle il libro delle Donne Illustri, che presto verrà a luce».172 Le lettere che le vengono donate, inoltre, sostiene Martelli, parlano in più punti delle dame di compagnia della regina, che Maddalena stessa gli ha permesso di conoscere. La dedica si conclude unendo negli auspici la dedicataria «insieme con l'Eccellenza del suo gran Consorte in quella Realissima di Madama la Dalfina, unica sua Regina». Grazie alla mediazione della Bonaiuti, Martelli aveva ottenuto dalla Delfina di Francia, prima della pubblicazione del libro di lettere, una donazione di cento scudi d'oro e delle raccomandazioni per il granduca Cosimo I.173 Non sembra invece che questa dedica sia stata particolarmente gradita alla dama di compagnia di Caterina de' Medici, visto che in una lettera al marito di lei, Alamanni, Martelli si lamenta: «Meritava un certo che, se non d'altro, di gratitudine di parole, dove io non ho mai havuto risposta alcuna, né da V. S., né da Lei, né dal Sr abate vostro figlio»; lo stralcio, riportato da Hauvette174 è tratto da una lettera dell'epistolario inedito, destinato probabilmente a diventare il secondo libro di lettere, poi mai stampato e conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze (cl. viii, cod. 1447); se non ci sono errori nella data indicata da Hauvette (10 gennaio 1545) si tratterebbe di un pentimento piuttosto precoce, visto che il Primo libro verrà stampato nel 1546.175 Non sempre però la scelta di indirizzare una dedica a una donna sottintende l'intenzione di raggiungere attraverso di lei qualcun altro, come abbiamo già visto in parte per Maddalena Bonaiuti e come accade per il quarto volume delle Lettere di Pietro Bembo che, coerentemente con quanto era avvenuto per i precedenti tre, è dedicato a un personaggio che sia in qualche modo rappresentativo dei destinatari della raccolta: in questo caso, trattandosi di lettere scritte «in diversi tempi a diverse nobili donne» la dedicataria è appunto una nobildonna, la veneziana Elisabetta Quirini, sorella di quel Girolamo Quirini a cui è dedicato il secondo volume delle Lettere e, secondo le parole di Dionisotti, «l'ultima donna veramente cara al poeta».176 Di lei si ricorda come «di somme lode & di incomparabile honore degna essendo, ha molti havuti che di lodarla & di honorarla hanno con ogni loro studio nelle voci & nelle scritture loro procacciato»,177 ma soprattutto che Bembo «quantunque egli già vecchio & canuto di voi notitia havesse» non mancò di riconoscere la sua virtù e di lodarla «parlando & scrivendo et poetando». Segue il catalogo delle virtù della Quirini: «essendo ella per sé stessa chiara & luminosa, & oltre a ciò ornata di antichissima gentilezza & di maravigliosa corporal beltà dotata».178 Il libro, aggiunge Girolamo Scotto, stampatore e dedicatario del volume, risulterà particolarmente gradito alla Quirini che «si come quella che a leggere & à dettare vaghe scritture & terse avezza, meglio che alcun'altra la dolcezza & la purità di questa conoscer potrà».179 Tanto è consustanziata al contenuto del libro la dedica di questa prima edizione, tanto è d'occasione quella che la sostituirà nelle edizione di Francesco Sansovino del 1560, indirizzata a Lucrezia de' Medici, duchessa di Ferrara. La giovanissima Lucrezia, una delle figlie di Cosimo I ed Eleonora di Toledo, sposò appena tredicenne, nel 1558 il duca Alfonso II d'Este, ma solo nel 1560 si trasferì nella corte estense.180 Il Sansovino, sostenendo che per la sua lode si rallegrano tanto Firenze quanto Ferrara fa ovviamente riferimento alle due casate regnanti; e infatti subito si industria a cantare le lodi dei Medici, in particolare come protettori dei letterati, e soprattutto del padre di Lucrezia, il granduca Cosimo: s'ella si rivolge in dietro a riguardar con la mente le imagini de' suoi progenitori, non può meno amare i virtuosi nelle lettere & sostenerli di quello che si facesse l'antico suo Cosmo, il Gran Lorenzo, & il Massimo Leon Decimo, chiarissimi lumi non solamente della vostra Città & di tutta l'Italia, ma dell'Euròpa anchora. Et s'ella affisa gli occhi nel secondo Cosmo suo prudentiss. & degno padre, Duca invitto della Thoscana, ardendo di dolce invidia, non può rimanersi di non contender con lui in procacciarsi la gloria che sanno arrecare a Principi gli huomini di qualche spirito, accioché la V. Eccell. perpetui la memoria del suo valore; subordinate a queste sono le lodi del marito, tant'è vero che già in fine di periodo si torna a parlare dell'unione tra le due casate: dall'altra parte l'aspetto del valoroso Alfonso vostro Consorte, la cui prosapia Heroica per lunga discendenza è celebrata per tutte le parti del Mondo, vi invita all'altezza de bei pensieri & alla grandezza dell'operationi liberali & magnanime, delle quali egli sempre si è dilettato & diletta, di maniera che rivolgendo voi gli occhi in qualunque parte delle due case immortali, havete alla presenza gli essempi che dolcemente vi astringono a gradir l'opere di valore. Dopo l'offerta del libro, Sansovino torna a parlare dei Medici e degli Estensi come mecenati: i primi hanno «sostenuto la divinità di Marsilio Ficino, la eloquenza d'Angelo Poliziano, & la dolcezza di Christoforo Landino», i secondi hanno «honorato la vivacità del Giraldo, la molta cognitione del Calcagnino, & la chiarissima dottrina del S. GiamBattista Pigna».181 Sansovino conclude rallegrandosi con la duchessa «perch'ella al presente ha piena occasione di poter giovare alle genti tranquillando le lunghe tempeste & rasserenando le tenebre loro, dal qual giovamento ne le potrà venire somma contentezza, perciò che la Maestà di Dio richiedendo cosi la sua innocentia, le apparecchia felice & honorata prole, a sostenimento del suo imperio, a ornamento del suo sangue, & a sollevamento di tutti i buoni & eccellenti intelletti». L'editore si mostra poco lungimirante nella sua profezia, poiché Lucrezia de' Medici morirà quello stesso anno. Alla precedente duchessa di Ferrara, madre di Alfonso II, erano invece dedicate le Lettere di Orazio Brunetto. In questo caso però la motivazione della dedica è ben diversa dalle precedenti: Renata di Francia, infatti, aveva costituito a Ferrara una vera e propria enclave calvinista in terra cattolica, rifugio di numerosi esponenti di quei movimenti eterodossi, quando non apertamente ereticali, che percorrevano la penisola alla vigilia del Concilio.182 Il libro di Brunetto è stampato per Andrea Arrivabene, uno stampatore la cui bottega "Al segno del pozzo" era «luogo di discussioni eterodosse aperte e palesi».183 La lunga dedicatoria percorsa da un intricato ragionare inizia stabilendo che è difficile trovare chi possa seguire le cose dello spirito e allo stesso tempo le dottrine profane, ma si trovano alcuni «huomini molto catholici, & pij» che ci riescono. Tra questi 'uomini' cattolici e pii, Brunetto annovera di fatto Renata di Francia (che sarà stata senz'altro pia, ma di certo non cattolica, tanto che proprio nel 1548 verrà dichiarata eretica):184 Tra queste rarissime volte, c'habbiamo contemplato tale miracolo dirò; che si egli vede hora benissimo nella beatissima anima di V. E. in cui s'ammira risplendere un vivacissimo raggio d'immaculato, e vero spirito: il quale mal grado de la carne con sue divine speculationi cosi coperta di questo grave e oscuro corpo la tiene sempre sospesa ne la contemplazione dell'eccelso Iddio, & la esquisita peritia d'altro canto di molte scienze carnali ubbidire à questo spirito, come ancelle à suo Signore, & ministrarle di quel tanto, che sanno, & ponno. E continua Brunetto: «Ma ne ciò pare gran cosa al pio & fedel christiano, il quale conosce, quanto sia infinita la potestà del suo padre». Si noti l'insistenza sull'aggettivo pio (si troverà anche la variante pietoso); inoltre compare il sostantivo christiano, altro Leitmotiv della dedica. Brunetto ammette che può sembrare strano che egli le faccia dono delle lettere senza esserle stato presentato prima, anzi essendole completamente sconosciuto, ma ha fiducia nella positiva risposta della principessa che è «non meno pia ricevitrice dè buoni christiani, che humanamente poco meravigliosa dè virtuosi effetti». Brunetto insiste ancora, delineando (anche con un facile calembour) la nobiltà della dedicataria, nel rimarcarne la pietas cristiana: «che V. E. essendo grande di nobiltà di sangue, & di beni temporali, nata di Re, anzi di Re nata, & prima Prencipessa d'Italia, ella non di meno è piatosissima christiana, molto lontana da le grandezze humane»; ancora, la pietà è la qualità grazie alla quale il mondo accoglierà benevolmente le lettere se queste saranno benevolmente accolte da lei: «ma perché conoscendo il mondo la pietà di V. E. la quale non ama, se non gente buona, habbiano rispetto di biasimare quelle cose, che sono lodate da lei». La servitù del dedicante viene offerta a motivo del «valor di vera Prencipessa, & spirito di buona christiana», di nuovo. E il libro viene offerto «con quella candidezza di core, che in vero christiano si richiede». Infine Brunetto esalta in Renata di Francia «una sola mansuetudine, & [...] una christiana pietà, & singolar caritate verso'l prossimo, che da Signori mondani suole essere sempre tanto lontana». Questo gli dà occasione di una filippica contro i cattivi costumi dei Signori del mondo che hanno «il dominio di tutti gli appiaceri, & lascivie del mondo». Poi termina, ancora all'insegna della religiosità, riuscendo a inserire l'aggettivo pia nel topico baciamano, praticamente in chiusura: Ma poscia che pur mi convien tacere, con questo la lascierò, che la ne priego, et supplico christianamente à ricevermi nel numero d'i suoi servitori: Tra li quali debbo per molte ragioni esser annoverato, ma più per la grande affettione, ch'à portarle mi spingono la carità christiana, & le singolar bellezze de l'animo suo: à cui divotiss. m'inchino tutto humile, con riverenza baciandole la pia mano. Tra le molte ragioni per le quali Orazio Brunetto doveva essere annoverato tra i servitori di Renata di Francia c'era evidentemente anche la consonanza di idee religiose, espresse nemmeno troppo velatamente già in questa dedica. Si torna su terreni più conosciuti con la dedica del Secondo volume delle lettere di Bernardo Tasso a Giulia Estense della Rovere, sorella del duca d'Urbino che aveva accolto il Tasso alla sua corte dopo le sventure da lui subite al fianco del Sanseverino.185 Ovviamente il fratello viene nominato nella dedica, come una delle ragioni per le quali il Tasso desidera dedicare a Giulia le lettere («l'obligo ch'io ho al'Eccellentissimo Signor Duca suo fratello»), ma prima ancora viene nominato Paolo Casali, colui che ha parlato a Tasso della duchessa, davvero «affettionatissimo servitor di S. Eccellenza & carissimo amico» del Tasso (nonché suo benefattore).186 Le qualità della duchessa descritte dal Casali sono «la cognitione de le bone lettere», «l'esercitatione de gli studij nobili», «la perfettione del giuditio» la «candidezza dell'animo». Rarissime, a conferma di quanto osservato dalla Di Filippo Bareggi, sono le dediche indirizzate ad amici.187 Senza dubbio era un rapporto di amicizia quello che legava Anton Francesco Doni a Lodovico Domenichi al tempo in cui il primo dedicò al suo conterraneo il suo primo libro di Lettere (1544);188 bisogna però tenere conto che il volume si apriva con un'altra dedica, quella dello stampatore al vescovo di Todi, rendendo forse inopportuna un'ulteriore dedica utilitaristica da parte dell'autore. La dedica si apre con una lunga similitudine che accosta l'incertezza del Doni nella decisione di dare alle stampe le proprie lettere con quella di un «Unghero; il quale smarrisce la via del Giubileo»; vengono così assimilati i pericoli che l'«Unghero» correrebbe se sbagliasse strada a quelli che Doni correrà se la sua decisione di pubblicare le lettere non sarà la scelta giusta. Segue una lunga anticipazione di quanto teme gli succederà per voler pubblicare il proprio epistolario, tanto più senza essere un personaggio noto. Ma, tornando all'immagine iniziale del pellegrino, Doni conclude «Deh vada come si voglia, forz'è caminare». Solo a questo punto viene introdotta la figura del dedicatario: «Eccole à voi come uno de principali amici, ch'io habbia». A lui viene commesso il giudizio sulla possibilità di pubblicare le lettere («Se vi parrà, ch'io camini per la strada della stampa sia fatto come vi piace»); è possibile che in questo caso non si trattasse solo del topos della sottomissione al giudizio de destinatario, dal momento che era tutt'altro che improbabile che il Domenichi fosse incaricato dall'amico di esprimere un vero giudizio editoriale, da esperto del settore, e forse anche di preparare le lettere per la stampa presso Scotto. Topica è invece sicuramente la giustificazione addotta per non aver dedicato il libro a un principe: «io non so il più bel signore, ne il più gran principe, ch'uno spirito virtuoso. Però come à principe, il quale segga in compagnia di molti altri signori sopra il triompho della virtù, ve le mando».189 Come si vede l'amicizia non è molto tematizzata: si afferma in una sola frase e si sostiene con la breve lode della dignità del destinatario;190 il resto della dedica è di fatto riservato al libro. Il tono dell'epistola è singolarmente poco elevato: all'interno del nostro corpus si tratta dell'unico caso in cui si possa senza dubbio parlare di stile comico in una dedicatoria, a partire dall'immagine iniziale dell'«Unghero» che ha smarrito la strada, per arrivare in crescendo alla «mandria dei cancellieri; i quali arrotato il rasoio della loro prosopopeia gli daran fiancate, che fumeranno». E decisamente allo stile comico appartengono moltissimi termini, che mai ci aspetteremmo di trovare in una dedicatoria: per fare solo qualche esempio leggiamo linguacciuti, urtata (deverbale da urtare), malandrino, svaligiasse, mandria (di cancellieri!), arrotato, fiancate, sciagurato, due dita di maraviglia, impaniato, gaglioffi, una bibbia di risposte e così via. Ancora, si veda la vivacità colloquiale di questo accumulo di interrogativi che immagina la reazione del pubblico all'uscita del suo libro di lettere: «Eccomi s'io fallo la strada intrafatto ogniun griderà; dove va costui cosi solo per questa contrada? che facende ci ha egli? noi non lo conosciamo. dove diavolo è egli uscito? debbe essere qualche spione», oppure della già ricordata esclamazione: «Deh vada come si voglia, forz'è caminare». Quando però Doni riprende il suo primo libro per l'edizione dei Tre libri di lettere del 1546 l'amicizia con il Domenichi si è trasformata in un aperto contrasto. Non sono del tutto chiari i motivi che hanno portato alla rottura tra i due, che risale all'ultimo periodo della permanenza del Doni a Firenze;191 è comunque indubbio che si trattò di una rottura netta e più volte ribadita. Una delle testimonianze di questo dissidio è proprio il cambiamento di destinatario di questa dedica. Si badi: non la sostituzione della dedica con un'altra a diverso destinatario, azione non inusuale, di cui troviamo esempi anche tra gli epistolari qui considerati,192 bensì il mantenimento della stessa dedica con lievi adattamenti per adeguarla al nuovo destinatario, che in questo caso sono i lettori.193 In verità la maggior parte degli interventi sono destinati soprattutto a un miglioramento del testo; non solo, come osserva già Simona Re Fiorentin: «il testo si arricchisce [...] di particolari, immagini e similitudini che lo rendono più vivido»,194 ma vengono anche ritoccate alcune espressioni, alla ricerca di una maggiore chiarezza ed eleganza espressiva, e sono rilevabili anche ad alcuni interventi linguistici.195 I cambiamenti che riguardano il dedicatario sono la sostituzione di «Eccole à voi come uno de principali amici, ch'io habbia. A voi ne fo dono: à voi le consacro: à voi le dedico» con «Eccole in libertà di tutti, come quel Doni che sono ubligato a tutti. A voi ne fo pala, a voi le do a leggere, a tassate [sic], a lodare, et mi rimetto nel giuditio di tutti coloro che hanno qualche discretione». La struttura dei periodi è la stessa: l'incipit con il presentativo «Eccole», la successiva comparativa e il modulo ternario con l'anafora di «a voi». Anche la frase seguente mantiene la medesima apertura («Se vi parrà, ch'io camini per la strada della stampa sia fatto come vi piace» diventa «Se vi parrà che questa strada della stampa non sia stata buona, avisatemelo con qualche pistolotto») anche se in questo caso il significato della frase diventa profondamente diverso, passando da una richiesta di approvazione probabilmente reale a un topico e forse anche ironico invito a esprimere una propria opinione a stampa già avvenuta.196 Anche il paragone del Domenichi a un principe per la nobiltà dell'animo virtuoso deve essere cambiata nel paragone dei lettori con «qualche gran dotto, a qualche gran savio, che ne sapesse dar giuditio», ai quali Doni contrappone i nuovi dedicatari, espressione di «molti e variati cervelli». Se si tiene presente anche che il primo libro delle Lettere del Doni aveva già avuto una ristampa fiorentina, alla quale Doni aveva premesso, come abbiamo visto, una dedica al figlio di Cosimo I, si potrebbe ipotizzare che questa operazione di cambio del destinatario vada al di là di un semplice riutilizzo di materiale già esistente, e sia un modo per far intravvedere, sotto la damnatio memoriae, l'azione stessa della rimozione, con un bisbiglio più efficace del silenzio. La stessa intenzione che forse potrebbe rivelare anche l'intitolazione delle lettere inviate al Domenichi all'«Amico finto» (con l'ambivalenza del termine finto, che può significare tanto 'fittizio' quanto 'che si comporta in maniera falsa') e quella affermazione altrimenti incomprensibile posta nella dedica dell'intero volume dei Tre libri di lettere a Costanza Vitelli Baglioni (il corsivo è mio): «scrissi certe lettere familiari, & di quelle feci un libro, & senza dedicarle a persona alcuna le diedi alla stampa». Noi sappiamo bene, invece, che il primo libro aveva avuto ben due dedicatari da parte del Doni, ossia il Domenichi e il piccolo Francesco de' Medici (senza contare la dedica del primo editore, Girolamo Scotto, a Federico Cesi). L'affermazione si adatta invece alla dedica del libro nel volume in oggetto, dal momento che i lettori non rappresentano una specifica persona, ma sembra anche sottintendere che la persona alla quale il libro era originariamente dedicato, vale ora, nella visione del Doni come se non fosse «persona alcuna».197 Non sopravvive alla ristampa nemmeno l'unica altra dedica a un amico trovata negli epistolari qui considerati, quella di Girolamo Muzio a Vincenzo Fedeli.198 La motivazione è però ben diversa, perché tra la prima dedica (1551) e la seconda (1576) è sopravvenuta la morte del dedicatario. Come scrive Anna Maria Negri in una nota di commento, «la brevità e sobrietà di questa dedicatoria pare davvero intonata ad una amicizia priva di piaggeria».199 Le lettere vengono definite da Muzio «mantenitrici della conversazione»,200 e per questo motivo egli sostiene di volerle dedicare «a quella persona con la quale ha avuto conversatione più lunga e più amichevole». La lunga amicizia è evocata fin dai suoi esordi stabilendo un parallelo tra le figure del dedicante e del dedicatario, per evidenziarne affinità e punti di contatto, a partire dal comune percorso di studi («demmo opera a gli studij delle lettere, insieme fummo uditori del Regio, & appresso dell'Egnatio & del Fausto»).201 Anche il percorso lavorativo dei due mostra molte tangenze, che il Muzio non manca di sottolineare: si è svolto «nelle corti de' Principi & tra gli armati eserciti», anche se Muzio a servizio diretto («travagliando io ne l'une e ne l'altre») e Fedeli invece come ambasciatore della Serenissima («voi [...] sostenendo la persona dell'eccellentissima Vinitiana Republica»). Dopo un breve accenno al servizio del Fedeli presso la flotta navale veneziana («le fatiche durate in mare per servigio dei nostri Signori»), ciò che a Muzio preme ricordare è il lavoro di ambasciatore dell'amico («con quanta humanità & con quanta degnità voi sempre trattaste le cose pubbliche, & delle private anchora non poche») presso tre personaggi, Antonio di Leyva, il cardinale Marino Caracciolo e il Marchese del Vasto,202 che rimandano agli incarichi svolti presso il Ducato di Milano (allora sotto il controllo dell'imperatore), dove anche Muzio prestava servizio, in particolare dal 1540 al 1546 proprio per Alfonso d'Avalos, Marchese del Vasto (che dice infatti nella dedica di aver «più anni servito»). E proprio a Milano era proseguito il sodalizio, anche intellettuale, tra Muzio e Fedeli203 espresso anche dalle dediche di una delle Egloghe del Giustinopolitano (La sconciatura) e di tre lettere delle Vergeriane.204 Quando Muzio prepara nuovamente per le stampe la sua raccolta, Vincenzo Fedeli, come si è detto, era già morto («essendo egli di vita uscito»), perciò, dal momento che all'amico convengono «più limosine & orationi, che titolo di alcun volume», Muzio dedica «questa nuova publicatione» con alcune lettere aggiunte, a Lodovico Capponi,205 «non meno suo amico & Signore». Prima di rivolgere la dedicatoria al Capponi, Muzio ricorda brevemente il profilo dell'amico Fedeli, richiamando gli stessi elementi della prima dedicatoria («amico mio singolare, & compagno di studii di lettere nelle scuole del Regio, & dell'Ignatio: Et col quale poi ancora vissi gran tempo in Milano sotto un medesimo tetto»). E il ritratto del Capponi in quanto dedicatario è proprio costruito in parallelo a quello del Fedeli, facendo rieccheggiare i rapporti che legavano Muzio al suo pari e sodale in quelli che lo legano al più giovane fiorentino «havendo molta conformità questa con quella amicitia». Così come con Fedeli Muzio condivideva lo «studio delle lettere», con Capponi condivide lo «studio dell'onore»; un riferimento esplicito alla disputa tra il Capponi e Antonio Buondelmonti, «huomo reputato valente, col quale seppe Roma quanto honoratamente procedendo voi la terminaste», prima occasione di contatto con il Muzio, interpellato dal giovane Capponi in quanto maggiore autorità dell'epoca per le questioni cavalleresche,206 e a quella con Giulio Curto, a causa della quale, scrive il Muzio, Capponi era «tornato a dar fatica alla sua penna» e che è rapidamente riassunta anche nella dedica.207 Il parallelo tra l'amicizia con il Fedeli e quella con il Capponi continua ricordando la dimestichezza del Muzio con il primo («come io ho detto con il Fedeli vissi domesticamente»), e paragonandola a quella derivata dall'ospitalità che Capponi gli offrì in più occasioni nella sua residenza in Val d'Elsa, la Paneretta (luogo nel quale risulta scritta la dedica) e nella sua casa di Firenze: «alla gran Villa vostra della Paneretta più di una volta mi son ritirato, si per dar'opera à miei studii, come per ristoro di sanità, secondo che anche ho fatto in casa vostra nella Città di Fiorenza, con mia molta satisfatione, & recreatione». A questo punto, mi pare, si rivela la vera natura della dedica, che seppure motivata anche da una reale familiarità tra i due, che poteva far parlare il Muzio di amicizia, non è esente da una sfumatura di ossequio, dovuto all'appoggio materiale ricevuto dal Muzio da parte di Capponi, certamente un amico, ma soprattutto un benefattore e quindi, come ammette lo stesso Muzio nella dedica, suo «Signore», come non accadeva invece con Vincenzo Fedeli. E tipica delle dediche ai benefattori è la lode delle qualità del dedicatario, che ricorda «le sue amabilissime gratie, & maniere», la «leggiadria de' costumi» e, fra parentesi, «la molta cortesia» nei suoi confronti; e poi ancora «le rarissime doti, & doni del corpo, e dell'animo». Girolamo Muzio, come si è già ricordato, morirà nel 1576 prima dell'uscita della nuova edizione delle sue lettere (1590). Il curatore dell'edizione, Giovan Francesco Lucchi, manterrà la dedica già scritta dal Muzio, datata ottobre 1575, e ribadirà l'omaggio al Capponi anche in una sua personale epistola dedicatoria in cui scrive di aver assolto in questo modo il desiderio del Muzio, che aveva appunto già voluto comporre la dedicatoria indirizzata a Capponi («quasi presago della sua morte» sostiene Lucchi). Il curatore ricorda che Muzio morì proprio alla Paneretta («mortole in Casa, & si può dire in braccio»). Alla riconoscenza di Muzio, Lucchi unisce «la molta servitù» che egli stesso vuole esprimere nei confronti del dedicatario, ribadendo in chiusura di dedica di essere «servitore di ambeduoi». Di Filippo Bareggi sostiene che «andando verso la metà del secolo, tende ad affermarsi un tipo di dedica completamente diverso: quella fatta ai lettori»; 208gli esempi da lei riportati però riguardano in verità, come già si vede dalle relative note, delle prefazioni e non delle dediche.209 Le vere e proprie dediche ai lettori saranno quindi meno frequenti di quanto ipotizzato da Di Filippo Bareggi, mentre rimane vero che da circa la metà del secolo in avanti si moltiplicano gli avvisi ai lettori da parte di autori ma soprattutto di editori. Nel nostro piccolo campione di riferimento l'unica dedica «Al nobilissimo lettore» è quella che Federico Pizzimenti premette alla sua stampa delle Lettere di Antonio Sebastiano Minturno.210 Buona parte dell'epistola dedicatoria è impiegata per giustificare la stampa delle lettere da parte del Pizzimenti a suo dire all'insaputa dell'autore.211 I lettori (si noti che nella soprascritta ci si rivolgeva a un singolo «nobilissimo lettore» mentre nella dedica si parla sempre di lettori al plurale) sono chiamati difendere e giustificare il Pizzimenti davanti a chi lo accusasse di aver agito scorrettamente nei confronti del Minturno, nonché di fronte all'autore stesso di cui teme di «perdere [...] la grazia». A tal fine l'editore racconta il modo, decisamente rocambolesco, in cui è entrato in possesso di alcuni scritti dell'autore, tra i quali le lettere. Il racconto segue la biblioteca del Minturno (la sua «copiosissima & ornatissima libraria») che l'autore, nel frattempo trasferitosi in Calabria, aveva affidato ad Andrea Cossa, il quale a sua volta, spaventato da un «fiero bisbiglio» tra Napoletani e spagnoli, l'aveva lasciata nel convento di Santa Maria la Nuova. Il convento era stato poi preso dagli spagnoli e i libri del Minturno (poiché, scrive Pizzimenti, «mal si confanno i libri con l'arme») finirono «parte venduti, e parte lasciati in pegno per l'hostarie». I lettori non possono a questo punto che trovare ammirevole l'intervento del Pizzimenti che, «parte con denari parte con prieghi parte con favori molti», recupera quasi tutti i libri di Minturno, e li restituisce al Cossa. Tiene per sé, così sostiene, solo «questa sì bella e sì leggiadra operetta di lettere disciolta e quasi rovinata tutta», salvandola dall'altrimenti inevitabile oblio. A queste lettere pensa bene di aggiungerne altre, che gli invia il fratello, che si trova a servizio del Minturno in Calabria, per farne «copia a chiunque vorrà servirsene». Solo a questo punto Pizzimenti spiega perché abbia scelto di dedicare l'opera ai lettori («venendo hora all'elettion del tutore»): egli sostiene che, sebbene sia costume dedicare i libri «à qualche grande e valoroso principe», a lui non sarebbe bastato un solo difensore, per quanto potente, per difenderlo dalle eventuali accuse, vista la riconosciuta spregiudicatezza dell'operazione, e così, ecco la decisione finale: «hò meno per lo meglio deliberato d'universalmente dedicarla e donarla à voi candidissimi lettori, e sottoporla all'aiuto, favore e patrocinio vostro». Ben si capisce che l'epistola, pure dotata di tutti gli elementi formali che contraddistinguono le dedicatorie, ha soprattutto lo scopo di introduzione; tant'è vero che lo stesso Pizzimenti, dopo aver sottolineato alcune caratteristiche che gli hanno fatto ritenere degne di pubblicazione le lettere, conclude chiamando esplicitamente questo suo scritto «prefazione», proprio quando rinnova il suo gesto di dedica e dono: «Hor dunque gentilissimi lettori dedicando le mie deboli forze al vostro serviggio tempo è da por fine alla mia lunga prefatione la quale io non per altro ho fatta si non perche voi sappiate, senza la volontà del autor suo esser la presente opera mandata fuori». Della prefazione questa epistola condivide anche il carattere di pubblicità editoriale, non solo per il diffondersi sulle doti e sull'utilità dell'opera che si stampa, ma anche per l'annuncio dell'intenzione di stampare un'altra opera del Minturno salvata dallo «spagnuolesco romore» (quasi dimentico di aver poco prima sostenuto di aver trattenuto solo le Lettere).
Conclusioni? L'indagine sui dedicatari, sui loro legami con i dedicanti e con l'opera, sulle motivazioni che sottostanno alle dediche rappresenta solo due dei tre elementi che vanno presi in considerazione per poter accedere a un testo attraverso i testi di dedica, cioè appunto il dedicante (o meglio l'autore, anche quando non coincide con l'estensore della dedica) e il dedicatario. Il terzo elemento è il libro. Le dediche infatti sono spesso sede privilegiata per riflessioni sull'opera, sia per se stessa che in rapporto ad altre opere dello stesso genere. Come si capirà, tale aspetto riveste un rilevante interesse in questi epistolari, che rappresentano di fatto la nascita, l'evoluzione e la fine di un particolare genere letterario. A questo argomento sarà quindi dedicata la seconda parte di questo lavoro, che uscirà nel prossimo numero della rivista. Solo incrociando questi tre elementi, strettamente connessi tra di loro, sarà possibile trarre delle conclusioni e osservare, dal punto di accesso privilegiato della dedica, il percorso degli epistolari d'autore dall'exploit dell'Aretino all'avvento della nuova figura del Segretario.

C. S.






Note

1 Cfr. G. Baldassarri, L'invenzione dell'epistolario, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita. Atti del convegno di Roma-Viterbo-Arezzo (28 settembre − 1 ottobre 1992), Toronto (23-24 ottobre 1992), Los Angeles (27-29 ottobre 1992), a cura di M. Lettieri et al., Roma, Salerno, 1995, pp. 157-78 e P. Proocaccioli, La "macchina" delle "parole in carta", in P. Aretino, Lettere, Milano, Rizzoli, 1991, I, pp. 5-57 (e in particolare, sul significato e sulla valenza dell'operazione editoriale dell'Aretino, pp. 7-12).torna su
2 Il primo lavoro complessivo sugli epistolari in volgare nel Cinquecento è Le "carte messaggiere". Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981. Una rassegna dei successivi studi sull'argomento si trova in L. Braida, Mercato editoriale e dissenso religioso nella riflessione storiografica. Le raccolte epistolari cinquecentesche, in «Società e storia», c-ci, 2003, pp. 273-92; di Lodovica Braida è anche un volume, uscito recentemente, che si occupa in particolare delle raccolte antologiche (Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e "buon volgare", Bari, Larerza, 2009). Incentrato su questioni linguistiche e retoriche è L. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (con particolare riferimento alle lettere di Giambattista Marino), Roma, Bonacci, 2005, che, avendo come riferimento finale le lettere di Marino, fa il punto di alcuni nodi teorici e formali che riguardano l'epistolografia cinque-seicentesca (per la questione che ci interessa, quella degli epistolari a stampa, vedi in particolare cap. 3, La lettera in tipografia, pp. 80-97). Sul periodo che vide lo sviluppo di questo fenomeno è ancora fondamentale C. Dionisotti, La letteratura italiana nell'età del concilio di Trento, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 227-54, in part. pp. 231-45. Tra la consegna e la stampa di questo contributo è uscito un volume dedicato proprio ad alcuni degli epistolari qui considerati: G. Genovese, La lettura oltre il genere. Il libro di lettere, dall'Aretino al Doni, e le origini dell'autobiografia moderna, Roma-Padova, Antenore, 2009.torna su
3 Il Secondo libro uscì, sempre per Marcolini, nel 1542, il Terzo libro per Giolito nel 1546; il Quarto libro fu stampato da Bartolomeo Cesano per conto di Andrea Arrivabene, nel 1550, e nello stesso anno uscì anche il Quinto libro, presso Comin da Trino; il Sesto libro uscì postumo nel 1557, ancora per Giolito; del Primo e del Secondo libro ci furono anche numerose ristampe, non tutte autorizzate, cfr. J. Basso, Le genre épistolaire en langue italienne (1538-1662). Répertoire chronologique et analytique, Roma-Nancy, Bulzoni-Presses Universitaires de Nancy, 1980 (da qui in avanti Basso), pp. 38-48. Per l'edizione critica cfr. P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 1997-2002, 6 voll. (salvo esplicita diversa dichiarazione, quando si citerà P. Aretino, Lettere si farà riferimento a questa edizione). Un'altra edizione critica commentata dei primi due libri (basata per il primo libro sulla princeps del 1538, mentre l'edizione a cura di Procaccioli si basa sulla stampa del 1542 rivista dal Dolce per volontà dell'Aretino) è Aretino, Lettere, a cura di F. Erspamer, Milano, Fondazione Pietro Bembo; Parma, Guanda, che comprende il Libro primo (1995) e il Libro secondo (1998). Sulle vicende editoriali di questa ponderosa opera cfr., oltre ai due lavori citati a nota 1, G. Innamorati, La nascita delle 'Lettere', in Id., Pietro Aretino. Studi e note critiche, Messina-Firenze, D'Anna, 1957, pp. 221-51 e F. M. Bertolo, Aretino e la stampa: strategie di autopromozione a Venezia nel cinquecento, Roma, Salerno, 2003.torna su
4 Per questa breve rassegna ci si è basati su A. Quondam, Dal "formulario" al "formulario": cento anni di "libri di lettere", in Le "carte messaggiere" cit., pp. 13-157 (in particolare pp. 38-49, La prima fase del "libro di lettere": autori e raccolte.), su G. Moro, Selezione, autocensura e progetto letterario: sulla formazione e la pubblicazione dei libri di lettere familiari nel periodo 1542-1552, in La lettera familiare, «Quaderni di retorica e poetica», i, 1985, pp. 67-90, e sull'imprescindibile repertorio di Basso.torna su
5 Nicolò Franco, che in quegli anni era ospitato nella casa veneziana dell'Aretino, fu il curatore del suo primo libro di Lettere; in seguito i rapporti tra i due si erano deteriorati, anche proprio a causa della pubblicazione del libro del Franco. Il beneventano, che oltre a perdere l'appoggio dell'Aretino aveva compromesso le sue relazioni con buona parte del mondo editoriale veneziano, aveva lasciato la città poco tempo dopo. Su queste vicende cfr. A. Luzio, L' Aretino e Franco in GSLI, xxix, 1897, pp. 229-83, P. Larivaille, Pietro Aretino, Roma, Salerno, 1997 (Indice dei nomi, ad vocem), C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario nella Venezia del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 167-71.torna su
6 Cfr. Basso, pp. 51-55. La ristampa anastatica della princeps: N. Franco, Le pistole vulgari, a cura di F. R. De' Angelis, Sala Bolognese, Forni, 1986.torna su
7 Cfr. P. Procaccioli, Introduzione a A. F. Doni, Contra Aretinum ('Terremoto', 'Vita', 'Oratione funerale'. Con un'appendice di lettere), a cura di P. Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 1998, pp. 7-17.torna su
8 Il Libro secondo sarà stampato nel 1547 a Firenze dallo stesso Doni, che nel 1546 aveva ristampato anche il Libro primo. I Tre libri di lettere, usciranno invece a Venezia nel 1552, per Francesco Marcolini (cfr. Basso, pp. 82-89). Sull'epistolario del Doni, cfr. S. Re Fiorentin, I "libri di lettere" di Anton Francesco Doni, in «Levia Gravia», ii, 2000, pp. 65-95; in questo lavoro si annuncia l'edizione critica dell'opera (a cura della stessa Re Fiorentin), che però, purtroppo, non è ancora uscita.torna su
9 Cfr. M. Plaisance, Le retour à Florence de Doni: d'Alexadre à Côme, in Id., L'Accademia e il suo principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de' Medici, Manziana, Vecchiarelli, 2004, pp. 405-17.torna su
10 Cfr. Basso, pp. 114-15.torna su
11 Ivi, pp. 122-27; il volume ebbe numerose edizioni cinquecentesche (ma solo la seconda, del 1549 presenta poche ma rilevanti modifiche rispetto alla princeps, cfr. Moro, Selezione, autocensura e progetto letterario cit., pp. 80-81).torna su
12 Il Secondo volume esce nel 1551, presso gli eredi Manuzio; nel 1552 esce presso Gualtiero Scotto l'edizione completa in quattro volumi, che sarà ristampata da Francesco Sansovino nel 1560 (cfr. Basso, pp. 131-37).torna su
13 Cfr. Basso, pp. 137-38.torna su
14 Ivi, p. 146. Cfr. A. Greco, Per l'edizione dell'epistolario del Minturno, in Rinascimento meridionale ed altri studi in onore di Mario Santoro, a cura di M. C. Cafisse, F. D'Episcopo, V. Dolla, T. Fiorino, L. Miele, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1987, pp. 195-208; Moro, Selezione, autocensura e progetto letterario cit., p. 82.torna su
15 Le Lettere di Tasso accrescono progressivamente la loro consistenza, dagli iniziali due libri, ai tre dell'edizione Valgrisi del 1557, ai quattro dell'edizione uscita per Geronimo Giglio nel 1559. A questo volume, più volte ristampato, si aggiungerà il Secondo volume, stampato per la prima volta da Giolito nel 1560 (Basso, pp. 146-52). Si veda la ristampa anastatica dell'edizione del Giglio del Primo volume (1559): B. Tasso, Li tre libri di lettere, alli quali nuovamente s'è aggiunto il quarto libro, a cura di D. Rasi, premessa di G. Baldassari, Sala Bolognese, Forni, 2002; del secondo volume (edizione Giolito 1560): B. Tasso, Lettere, secondo volume, a cura di A. Chemello, Sala Bolognese, Forni, 2002.torna su
16 Cfr. Basso, pp. 156-58. L'edizione commentata della princeps è: G. Muzio, Lettere. Venezia, Giolito, 1551, a cura di A. M. Negri, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2000; la ristampa anastatica dell'edizione fiorentina (presso Bartolomeo Sermartelli) del 1590 è: Id., Lettere, a cura di L. Borsetto, Sala Bolognese, Forni, 1985. Per l'edizione delle Vergeriane, cfr. Basso, pp. 152-53.torna su
17 Cfr. J. Basso, La lettera familiare nella retorica epistolare del XVI e XVII secolo in Italia, in La lettera familiare cit., pp. 57-65. Per l'edizione cfr. Basso, pp. 159-60.torna su
18 Basso, 169-70. Si tratterebbe dell'unico epistolario di un'autrice a poter entrare a pieno diritto nel gruppo che stiamo considerando, dal momento che le Litere di Vittoria Colonna (pubblicate nel 1544, cfr. Basso p. 82) sono tre sole lettere "spirituali" (cfr. Braida, Mercato editoriale e dissenso cit., p. 288) e la raccolta di Veronica Franco (Basso, pp. 281-84) è invece pubblicata nel 1580, quando la "stagione" degli epistolari d'autore era ormai terminata; in verità le lettere potrebbero essere apocrife, opera di colui che figura come raccoglitore delle lettere e principale destinatario, Ortensio Lando (vedi più avanti nota 130).torna su
19 Il Libro secondo uscirà nel 1560 (Basso, pp. 170-71).torna su
20 Che avranno anche un'edizione in quattro libri nel 1560 (Basso, pp. 187-89). A Paolo Manuzio si deve la prima raccolta collettiva, le Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, del 1542 (Basso, pp. 66-73).torna su
21 Basso, pp. 186-87. Si noti la specificazione «toscane» nel titolo.torna su
22 Ivi, pp. 199-200. Il Domenichi, pur non avendo mai pubblicato il proprio epistolario, curò, oltre alle Lettere di Giovio, il terzo libro delle Lettere di Aretino e rivide per la stampa il carteggio di Orazio Brunetto (cfr. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit. p. 160).torna su
23 Basso, pp. 210-11.torna su
24 Ivi, p. 222.torna su
25 Ivi, pp. 233-35. Sul libro di lettere di Contile e sul suo rapporto con le singole lettere nella loro reale circolazione cfr. Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., pp. 21-29.torna su
26 Basso pp. 240-47. Cfr. A. Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., p. 58, L. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., pp. 22-31.torna su
27 Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., p. 49.torna su
28 Basso, pp. 250-51, 281-84, 278-81.torna su
29 Cfr. Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., pp. 54-57.torna su
30 Il secondo nel 1575 (entrambi per Manuzio), cfr. Basso, pp. 263-67.torna su
31 Un'influenza che per quanto riguarda le singole lettere aveva di gran lunga preceduto la stampa dell'epistolario, grazie anche alla pubblicazione di molte sue lettere nelle raccolte antologiche.torna su
32 Basso, pp. 306-11 e pp. 550-54.torna su
33 Ovviamente la nostra panoramica è parziale e scorciata: il fenomeno dei libri di lettere a stampa è caratterizzato molto presto anche dalla pubblicazione delle raccolte di «diversi autori» (a partire dalla raccolta pubblicata da Paolo Manuzio nel 1548, citata a nota 20) e dalle cosiddette raccolte «di genere»: facete, amorose e spirituali. Sulle raccolte antologiche cfr. Braida, Libri di lettere cit. e la relativa bibliografia; di L. Braida cfr. anche Il paratesto nelle antologie epistolari del Cinquecento (1542-1554). Tra modelli di 'buon volgare' ed espressione del dissenso religioso, in «Paratesto» I (2004), pp. 55-70, che si occupa anche di dediche. Sulle lettere di genere cfr. Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., pp. 89-120; sulle lettere facete in particolare cfr. A. De Nichilo, La lettere e il comico, in Le "carte messaggiere" cit., pp. 213-35; Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., pp. 133-60.torna su
34 Procaccioli, La "macchina" delle "parole in carta" cit., p. 25.torna su
35 Cfr. per esempio Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., pp. 42-44.torna su
36 Sull'argomento cfr. Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., cap. 6 (La lettera dedicatoria) e relativa bibliografia. Una vera e propria miniera di dediche cinquecentesche, che potrebbe essere molto utile per una descrizione sistematica del genere, sono i quindici libri delle Dedicatorie pubblicati da Comin Ventura all'inizio del seicento; il Primo libro di lettere dedicatorie di diversi, Bergamo, Comin Ventura, 1601 e il Secondo libro di lettere dedicatorie di diversi, Bergamo, Comin Ventura, 1602, sono disponibili in riproduzione fotografica nella sezione Wunderkammer di «Margini» (www. margini.unibas.ch), con introduzioni a cura rispettivamente di M. Bianco (i, 2007) e A. L. Puliafito (ii, 2008).torna su
37 Si tratta di tutte quelle delle diverse edizioni cinquecentesche dei libri di lettere descritti, con la sola eccezione, purtroppo, di quella della seconda edizione del primo libro delle Lettere di Anton Francesco Doni, difficile da recuperare: secondo l'EDIT 16 (http://edit16.iccu.sbn.it/web_iccu/ihome.htm) sono rimaste nelle biblioteche italiane solo due copie dell'edizione fiorentina del 1546: quella conservata dalla Biblioteca Bertoliana di Vicenza è mutila, mancante anche delle cc. della dedica (comprende solo le cc. 5-60); non ho avuto finora la possibilità di vedere la copia conservata dalla Biblioteca Nazionale di Roma.torna su
38 Le edizioni critiche disponibili sono solo quella dei Libri di lettere di Pietro Aretino (cfr. nota 3) e della princeps delle Lettere di Girolamo Muzio (cfr. nota 16). Si trovano in riproduzione anastatica: le Pistole vulgari di Nicolò Franco (cfr. nota 6), i due volumi di Lettere di Bernardo Tasso (cfr. nota 15) e l'edizione Sermartelli del 1590 delle Lettere di Girolamo Muzio (cfr nota 16). Sono invece accessibili in Internet le Lettere di Giovanni Camillo Maffei, riprodotte nel sito di Gallica, la biblioteca digitale della Bibliothèque Nationale de France (http://gallica.bnf.fr) e le dediche delle Lettere di Anton Francesco Doni (con l'eccezione della dedica «A i lettori» del primo libro della raccolta dei Tre libri di lettere del 1552), di Lucrezia Gonzaga di Gazuolo e di Paolo Giovio, riprodotte nella sezione Dediche dell'EDIT 16. Si trovano in AIDI (www.margini.unibas.ch) la dedica ai lettori del primo dei Tre libri di lettere di Anton Francesco Doni e le dediche del Primo libro di lettere di Nicolò Martelli, delle Lettere di Pietro Bembo, di Orazio Brunetto e di Antonio Minturno, delle Lettere famigliari di Girolamo Parabosco, dei due libri di Lettere di Pietro Lauro, dei Tre libri di Lettere volgari di Paolo Manuzio, delle Lettere toscane di Frosino Lapini, delle Lettere stampate unitamente alle Rime di Vincenzo Martelli, dei due volumi di Lettere di Luca Contile e delle Lettere familiari di Annibal Caro. Nei paragrafi che si occupano direttamente delle dediche tutte le citazioni che non hanno segnalazione esplicita della fonte sono da intendersi tratte dalla dedica in esame. Per le citazioni dai volumi disponibili in riproduzione anastatica o fotografica e delle dediche inserire in AIDI si sono introdotti alcuni aggiustamenti grafici per rendere la lettura meno difficoltosa: si sono separate le parole secondo l'uso corrente (intervento che riguarda in verità quasi esclusivamente il nesso articolo + pronome relativo, spesso scritto unito nei nostri testi), si sono distinte u e v, e si sono sciolte le abbreviazioni tachigrafiche (β per ss, titulus per nasale, p con trattino sottoscritto per per, q con trattino sovrascritto o, più raramente, sottoscritto per nesso labiovelare + vocale). Non si sono invece ammodernate le grafie (per esempio -ti- o -ci- + vocale; h etimologica), né si è intervenuti sulla punteggiatura. Solo nel caso di titoli o sovrascritte si è indicata l'originaria divisione in righe.torna su
39 Quondam, Dal "formulario" al "formulario" cit., p. 42, sostiene che la soppressione della dedica in Tolomei è coerente con quella forma di reticenza (vera o retorica) che scatta al momento della pubblicazione e che il Tolomei «non ha certo bisogno di mediazioni o malleverie». Va però notato che la prima lettera dell'epistolario, a Giovan Battista Grimaldi, condivide molte delle caratteristiche e delle tematiche delle dedicatorie (per esempio dichiarazione di modestia riguardo al proprio lavoro, descrizione delle motivazioni che spingono alla pubblicazione, lode del dedicatario e attribuzione a lui delle istanze più convincenti in direzione della pubblicazione). Addirittura Tolomei conclude che se mai un giorno le sue lettere verranno stampate, prima di tutto saranno destinate al Grimani e poi a tutti gli altri, che dovranno attribuire a Grimani tutto il merito per la pubblicazione. Questa lettera di potrebbe definire una criptodedica.torna su
40 Anche se le lettere, quando confluivano in una raccolta, subivano numerosi adattamenti, che potevano riguardare anche la datazione o il destinatario; non era inoltre raro trovare in questi libri lettere fittizie, più o meno esplicitamente dichiarate.torna su
41 Per esempio le lettere 302-307 del primo libro di Lettere dell'Aretino, o alcune dediche di Anton Francesco Doni confluite nel suo primo libro di Lettere (cfr. Re Fiorentin, I "libri di lettere" di Anton Francesco Doni cit., pp. 72-73).torna su
42 Nei Tre libri di lettere del Doni e nell'edizione del 1552 delle Lettere del Bembo, le dediche sono separate dal testo anche da una carta bianca.torna su
43 In particolare la Tavola delle lettere, che si trova di solito in fondo al volume, ma è invece subito dopo la dedica nell'edizione del 1547 del secondo libro delle Lettere del Doni e nell'edizione Marcolini (1552) in tre libri dello stesso autore (in questo caso la Tavola, o meglio il Sommario, segue la dedica dell'intero volume e riguarda tutto il volume), in ciascuno dei quattro libri dell'edizione Sansovino del 1560 dell'epistolario del Bembo, nel secondo volume delle Lettere di Bernardo Tasso e nell'edizione Sermartelli (1590) dell'epistolario di Girolamo Muzio; in tutte le edizioni del Bembo, volumi di un certo pregio tipografico, alla dedica segue il faux titre o occhiello, che apre l'epistolario vero e proprio.torna su
44 Cfr. Bertolo, Aretino e la stampa cit., pp. 110-11.torna su
45 La soprascritta non è riportata nell'edizione Procaccioli.torna su
46 Come «AL REVERENDISS. P. M. AGOSTINO / Bonucci dignissimo generale / di tutto l'ordine dei Servi» (Secondo libro di lettere del Doni) o «allo illvstriss. et reverendiss. / monsig. gvido ascanio sforza / card. di santa fiora et camerl.» (Primo volume delle Lettere di Bembo).torna su
47 Per esempio: «Al reverendissimo / Monsignor Leone / Orsino eletto di Fregius, / / Nicolo Franco / Beneventano.» (Pistole vulgari di Nicolò Franco), oppure «AL MOLTO MAG.CO / messer francesco chi- / menti nobile / Fiorentino./ pietro lavro» (primo libro delle Lettere di Pietro Lauro).torna su
48 Si deve però tenere conto, che il sesto libro uscì postumo; non è perciò detto che il titolo risponda all'effettiva volontà dell'autore.torna su
49 Il secondo volume, uscito nel 1560 per Giolito, non ha la dedica nel titolo.torna su
50 Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., pp. 81-89.torna su
51 M. Marti, L'epistolario come «genere» e un problema editoriale, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1961, pp. 203-08, a p. 204.torna su
52 Anche se l'autore, come scrive Matt (Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., p. 77) aveva manifestato l'intenzione di pubblicare «senza però effettuare a tal proposito un lavoro concreto».torna su
53 Si tratta, come era prevedibile, del gruppo numericamente più consistente, dal momento che gli altri due casi sono piuttosto eccezioni a questa regola generale.torna su
54 Anche se per quanto riguarda il sesto libro di Lettere dell'Aretino è opinione condivisa quella espressa da Baldassari (L'invenzione dell'epistolario cit. p. 164) secondo il quale «il lavoro dell'Aretino [per questo libro] si ferma alle soglie della tipografia». Sull'edizione Sermartelli dell'epistolario di Muzio cfr. Borsetto, Introduzione, a Muzio, Lettere cit., pp. ix-lvii, in part. pp. xlii-lvii e Negri, Introduzione a G. Muzio, Lettere. Venezia, Giolito, 1551 cit., pp. vii-xliii, in part. pp. xxx-xxxviii. La dedicatoria di Muzio a Lodovico Capponi era anche contenuta nel ms. Riccardiano 2115, con indicazioni sulla sua stampa; cfr. Borsetto, Lettere inedite a Girolamo Muzio tratte dal codice Riccardiano 2112, in «La Rassegna della letteratura italiana», xciv, 1990, pp. 99-178, in part. p. 101.torna su
55 A volte alcune informazioni sono contenute nello stesso epistolario, ma sono comunque da prendere con molta cautela.torna su
56 Cfr. nota 130.torna su
57 Anzi il secondo sostiene addirittura di temere la reazione del Minturno quando verrà a conoscenza dell'operazione.torna su
58 Sull'epistolario di Minturno cfr. l'opinione di Moro, Selezione, autocensura e progetto letterario cit., p. 82.torna su
59 Cfr. Rasi, Introduzione a B. Tasso, Li tre libri di lettere cit., pp. ix-xlii, in part. pp. xvii e xxxi-xxxii, e Basso, p. 146.torna su
60 Cfr. M. Santoro, Contro l'abuso delle dediche. Della dedicatione de' libri di Giovanni Fratta, in «Paratesto», i, 2004, p. 99-119, M. Bianco, Lodovico Castelvetro e la 'Intitolatione gratiosa de' libri a spetial persona', in «Margini», ii, 2008 (http://www.margini.unibas.ch).torna su
61 Sansovino però mantiene per il secondo libro anche la dedica originaria di Antonio Manuzio a Girolamo Quirini, probabilmente soprattutto per il suo valore prefatorio.torna su
62 Gli altri epistolari che recavano solo la dedica del curatore o dell'editore non ebbero che un'edizione, perciò non è possibile completare la verifica.torna su
63 Cfr. Larivaille, Pietro Aretino cit..torna su
64 Su Francesco Maria della Rovere cfr. G. Benzoni, Francesco Maria I Della Rovere, in Dizionario Biografico degli Italiani (da qui in avanti DBI), vol. l, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 47-55; sul suo rapporto con l'Aretino cfr. Larivaille, Pietro Aretino cit., Indice dei nomi, ad vocem, e Aretino, Lettere cit., vol. i, pp. 661-703, Indice dei nomi, ad vocem.torna su
65 Lettera 156 di P. Aretino, Lettere cit., vol. i, datata 26 giugno 1537. Si tratta in un certo senso di una lettera programmatica, nella quale Aretino esprime le sue intenzioni nello scrivere e raccogliere le lettere (di disfare e ricostruire la «macchina elementale chiamata mondo»), cfr. a riguardo P. Procaccioli, La "macchina" delle "parole in carta" cit., p. 28.torna su
66 Lettera 210 in Aretino, Lettere cit., vol. i, datata 23 ottobre 1537. Su Ottaviano de' Medici vedi la nota di F. Erspamer, in Aretino, Lettere, a cura di F. Erspamer cit., Libro primo, p. 252.torna su
67 Vedi la lettera di Cosimo a Francesco Maria in Cosimo I de' Medici, Lettere, a cura di G. Spini, con prefazione di A. Panella, Firenze, Vallecchi, 1940, pp. 24-25; la lettera è del 2 ottobre 1537.torna su
68 Riprendendo di fatto le parole del duca stesso nella lettera (pubblicata in Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di P. Procaccioli, libro ii, Roma, Salerno, 2004; è la lettera 5) nella quale gli dava notizia dell'inoltro della richiesta, anticipandogli che, concretamente non avrebbe ottenuto molto: «ma se mi credesse che con il figliuolo del signor Giovanni d'i Medici voi aveste bisogno di mezi, me lo levarei dall'animo, nel quale lo tengo come che Guidobaldo e me stesso» (il corsivo è mio).torna su
69 La vicenda non è sicura, ma probabile; cfr. Larivaille, Pietro Aretino cit., p. 316 e p. 489 nota 24.torna su
70 Forse per avvelenamento, cfr. Benzoni, Francesco Maria I Della Rovere cit., p. 53.torna su
71 Vedi la lettera di Cosimo citata a nota 68; sui rapporti tra Aretino e il Granduca di Firenze cfr. anche nota 85.torna su
72 Sulla reale eloquenza del Della Rovere cfr. l'opinione di Benzoni in Francesco Maria I Della Rovere cit., p. 53.torna su
73 Sui rapporti di Aretino con Carlo V cfr. G. Galasso, Pietro Aretino nel suo contesto storico: il Papato, la Francia, l'Impero, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita cit., pp. 297-331 e Larivaille, Pietro Aretino cit., Indice dei nomi, ad vocem.torna su
74 Dipende dalla reale datazione della dedica, cfr. la nota di Erspamer in Aretino, Lettere, a cura di F. Erspamer cit., Libro primo, pp. 7-8.torna su
75 J. C. D'Amico, Aretino tra Inghilterra e Impero: una dedica costata cara e una lettera non pubblicata, in «Filologia e critica», i, 2005, pp. 72-94.torna su
76 Da Pietro Vanni, cfr. lettera 437, datata 13 agosto 1542, in Aretino, Lettere cit., vol. II.torna su
77 Si tratta della lettera 371, datata 22 maggio 1542, ibid. Il passo citato, come vedremo, sarà oggetto di autocensura.torna su
78 Aretino, Lettere, a cura di F. Erspamer cit., Libro secondo, p. 373.torna su
79 Ricordata dallo stesso Aretino nella lettera 57 (in Aretino, Lettere cit., vol. ii), a Ottaviano de' Medici, datata 3 luglio 1538.torna su
80 Lettera 166, datata 10 marzo 1547, in Aretino, Lettere cit., vol. iv,; per altri sviluppi della vicenda cfr. D'Amico, Aretino tra Inghilterra e Impero cit.torna su
81 Bertolo, Aretino e la stampa cit., pp. 84-90.torna su
82 Ivi, p. 86, l'intero passo soppresso.torna su
83 Lettera 127 in Aretino, Lettere cit., vol. ii. La versione integrale della prima tiratura (da cui si cita) si trova in Appendice i, pp. 451-52.torna su
84 Re cristianissimo era l'appellativo ereditario ed esclusivo spettante ai sovrani di Francia. L'insistenza sui tratti religiosi della figura del sovrano è tanto più significativa se si pensa che a quei tempi era già avvenuto lo scisma della chiesa d'Inghilterra dalla chiesa cattolica.torna su
85 Larivaille, Pietro Aretino cit., pp. 336-38. Sui difficili rapporti di Aretino con Cosimo de' Medici, cfr. anche L. Mulas, L'Aretino e i Medici, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della sua nascita cit., pp. 535-72, in part. pp. 561-72.torna su
86 Lettera 178 in Aretino, Lettere cit., vol. iv.torna su
87 Si tratta della lettera 68 e della lettera 82 in Aretino, Lettere cit., vol. iv, datate entrambe aprile 1546.torna su
88 Che saprà trarre vantaggio da questo compito, entrando nelle grazie del duca e divenendo dapprima collaboratore dello stampatore Lorenzo Torrentino, che aveva ottenuto quel ruolo di "impressore ducale" che al Doni era stato negato, e poi storiografo ufficiale del Granducato di Toscana.torna su
89 Il riferimento è alla dedica delle Guerre de' Greci di Senofonte tradotte da Francesco Strozzi (cfr. lettera 627, datata gennaio 1546, in Aretino, Lettere cit., vol. iv).torna su
90 Sul rapporto di Aretino con Giovanni dalle Bande Nere cfr. Larivaille, Pietro Aretino cit., Indice dei nomi, ad vocem.torna su
91 Cioè la dedica del Terzo libro a Gian Carlo Affaitati e quella del Quarto libro a Baldovino del Monte, per le quali vedi più avanti.torna su
92 Cfr. Larivaille, Pietro Aretino cit., p. 451 nota 92; sulle relazioni tra i due cfr. anche G. Campori, Pietro Aretino ed Ercole II duca di Ferrara, in «Atti e memorie delle R. R. Deputazioni di Storia Patria per le provincie modenesi e parmensi», v, 1870, pp. 29-37. Sulla Vita di Aretino del Berna, cfr. A. Romano, I biografi dell'Aretino, dallo pseudo Berni al Mazzucchelli, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita cit., pp. 1053-71.torna su
93 Cfr. Indice dei nomi in Aretino, Lettere cit., voll. i-iv s.v. Ercole II d'Este.torna su
94 Lettera 482, datata settembre 1555, in Aretino, Lettere cit., vol. vi; più avanti Aretino ribadisce: «Insomma, io stesso a me proprio il titolo d infame darei, se gitandomegli dinanzi ai piedi umilmente non chiedessi allo Estense felicissimo dominatore perdono».torna su
95 Vedi per es. Capitoli del S. Pietro Aretino iv 106 sgg. (in P. Aretino, Poesie varie, i, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano, Roma, Salerno, 1992) e i vv. 111-120 del prologo dell'Orazia (in P. Aretino, Teatro, iii, Il filosofo − L'Orazia, a cura di A. Decaria e F. Della Corte, Roma, Salerno, 2005).torna su
96 Per la biografia cfr. la nota di Franco Pignatti in N. Franco, Dialoghi Piacevoli, a cura di F. Pignatti, Manziana, Vecchiarelli, 2003, pp. 87-88 e F. Flamini, Il canzoniere inedito di Leone Orsini, in Raccolta di studii critici dedicata ad Alessandro D'Ancona festeggiandosi il 40. anniversario del suo insegnamento, Firenze, Barbera, 1901, pp. 637-55.torna su
97 Ossia le Pistole vulgari, i Dialoghi piacevoli e il Petrarchista (quest'ultimo dedicato in verità a Bonifacio Pignoli, segretario del vescovo, dichiarando apertamente però di volere in questo modo omaggiare il suo signore).torna su
98 Lo dimostrano le lettere dello stesso epistolario scritte all'Orsini fino al 1540 (cfr. Franco, Le pistole vulgari cit., nell'Indice dei destinatari, ad vocem); inoltre Franco fu probabilmente tra i membri degli Infiammati di Padova, di cui Orsini fu il primo principe (sull'Accademia degli Infiammati di Padova, cfr. R. S. Samuels, Benedetto Varchi, the Accademia degli Infiammati, and the Origins of the Italian Academic Movement, in «Renaissance Quarterly», xxix, [1976], pp. 599-634 e A. Daniele, Speroni, Tomitano e gli Infiammati, in Sperone Speroni, Padova, Editoriale Programma, 1989, pp. 1-49 (numero monografico di «Filologia veneta», ii, 1989).torna su
99 G. Betussi, Dialogo amoroso, In Vinegia, Al segno del Pozzo, 1543, c. 22v.torna su
100 Cfr. la nota di Pignatti (in Franco, Dialoghi Piacevoli cit., p. 88), che cita anche un sonetto antiaretiniano indirizzato da Franco all'Orsini dal quale sembra non trasparire alcun risentimento verso quest'ultimo.torna su
101 Cfr. A. Borromeo, Cesi Federico, in DBI, vol. xxiv, 1980, pp. 253-56; la cit. è a p. 254.torna su
102 Cfr. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit., pp. 26-27.torna su
103 «ho più tosto voluto mostrare in qualche parte a V.R.P. il desiderio ch'io tengo d'honorarla, riconoscer gli oblighi infiniti che ho seco con alcuna opera di mio».torna su
104 B. Ulianich, Bonucci Agostino, in DBI, vol. xii, 1970, pp. 438-50; la cit. è a p. 448. Si ricordi che Anton Francesco Doni «possibly entertained Protestant ideas for a limited time before giving way to utopianism and materialism» (cfr. P. F. Gredler, Critics of the italian world, 1530-1560. Anton Francesco Doni, Nicolò Franco & Ortensio Lando, Madison-London, The University of Wisconsin Press, 1969, in part. pp. 127-35; la citazione è a p. 135).torna su
105 Vedi le schede 21-22 in C. Ricottini Marsili-Libelli, Anton Francesco Doni. Scrittore e stampatore, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1960.torna su
106 Cfr. Re Fiorentin, I "libri di lettere" di Anton Francesco Doni cit., p. 86.torna su
107 Cfr. A. Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, in GSLI, clvii, 1980, pp. 75-116 e G. Floris, Le Lettere scritte a P. Aretino: nascita e strategia della raccolta, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita cit. pp. 1073-98, in part. pp. 1087-88.torna su
108 P. Temeroli, Astuzie del paratesto e gioco delle parti tra autore e editore nelle stampe di Francesco Marcolini, in I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. Atti del Convegno internazionale, Roma, 15-17 novembre 2004, Bologna 18-19 novembre 2004, a cura di M. Santoro e M. G. Tavoni, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 2005, pp. 493-503.torna su
109 «basciandovene a ciascuna hora la [...] mano: si come lo Herede, et i Commessari predetti, et io con loro insieme con quella maggiore riverenza, che per noi si può humilissimamente facciamo».torna su
110 «et insieme dell'honorato giudicio, che egli mentre visse, sempre fece della vostra incomparabile prudentia et bontà: con la quale le occorrenti bisogne del vostro grande et illustre ufficio con tanta sodisfattion d'ogniuno reggete et trattate: essendo egli solito di dire, qualhora di voi tenea ragionamento, il che; per quello, che alla mia notitia è pervenuto; era assai spesso; non haver giamai udito, ne letto cosa alcuna così magnanima, né così generosa di quegli antichi spiriti cotanto hoggi dal mondo pregiati et honorati, che fosse maggiore della speranza, che egli del vostro gran valore nudriva». Non si trovano però nell'epistolario di Bembo affermazioni di questo tipo riguardo il Santafiora.torna su
111 Sui rapporti tra Gualteruzzi e il Santafiora cfr. O. Moroni, Carlo Gualteruzzi (1500-1577) e i corrispondenti, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1984, Indice dei nomi, ad vocem, e p. 46 sul suo ruolo di mediatore con il Papa.torna su
112 In quanto esecutore testamentario incaricato, con Carlo Gualteruzzi, di occuparsi della stampa delle opere del Bembo.torna su
113 Vedi la nota di C. Dionisotti in P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966, pp. 614-15, dove si afferma che Quirini fu «uno dei migliori amici, negli ultimi anni» di Pietro Bembo.torna su
114 Cfr. G. Della Casa, Vita di Pietro Bembo, testo introduzione, traduzione e note a cura di A. Sole, Torino, Fògola, 1997, pp. 68-69, dove si ricorda anche l'orazione funebre pronunciata dal Quirini per la morte di Bembo (cfr. anche note a p. 96).torna su
115 Cfr. C. Dionisotti, Bembo Pietro, in Id., Scritti sul Bembo, a cura di C. Vela, Torino, Einaudi, 2002, pp. 143-67 (già in DBI vol. viii, 1966, pp. 133-51), in part. p.166; cfr. anche E. Travi¸ Introduzione, in P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, vol. i (1492-1507), Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1987, pp. ix-lxxi, in part. pp. lx-lxii.torna su
116 Sul soggiorno urbinate del Bembo, dal 1506 al 1512, cfr. Dionisotti, Bembo Pietro cit., pp. 152-54.torna su
117 «Poi che ha piaciuto ala Maestà di Dio, Reverendiss & Illustrissimo Monsignor, che la bontà et la virtù vostra sia stata giudiciosamente riconosciuta et honorata dal sommo Pontefice Pio Quarto con tanto applauso di questa Città, ho voluto ancho io rallegrarmene con V. S. Reveren. in quel miglior modo ch'io so, percioché io sono stato sempre affettionato al valor vostro».torna su
118 In verità la carriera di Mocenigo a Cipro non sarà molto fortunata: nel 1562 sarà denunciato da un frate domenicano che lo aveva sentito esprimere idee religiose a suo parere non troppo ortodosse; verrà processato dall'Inquisizione nel 1587. Cfr. E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella chiesa postridentina, Roma, Laterza, 2007 (alle pp. 3-13 c'è anche una breve biografia del Mocenigo fino al suo ingresso a Cipro nel settembre del 1560).torna su
119 Palazzo Thiene a Vicenza assunse l'aspetto che ancora oggi conserva proprio su iniziativa di Marcantonio, che nel 1542 commissionò ad Andrea Palladio l'ampliamento del palazzo di famiglia. Non ho invece trovato notizie su abitazioni dei Thiene a Venezia.torna su
120 Vita della illustre signora contessa Giulia Bemba della Torre, In Venetia, Per Domenico e Gio. Battista Guerra fratelli, 1565.torna su
121 Per una breve biografia del Perrenot, cfr. D'Amico, Aretino tra Inghilterra e Impero cit., pp. 72-73 note 1-3.torna su
122 Lettera clviiii di Tasso, Li tre libri di lettere cit..torna su
123 Cfr. E. Williamson, Bernardo Tasso, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1951, p. 15.torna su
124 Ibid.torna su
125 P. A. Serassi, La vita di Torquato Tasso, vol. i, Viareggio, Baroni, 1996 (rist. anastatica dell'ed. di Bergamo, 1790), p. 41.torna su
126 Vedi a riguardo anche la lettera cclxvi in Tasso, Tre libri di lettere cit.torna su
127 Cfr. per es. in Tasso, Tre libri di lettere cit. le lettere ccii e cciii, nelle quali viene chiesto a Perrenot di sollecitare il benestare dell'imperatore affinché il Tasso possa godere di una concessione feudale del Sanseverino, e in Tasso, Lettere. Secondo volume cit., la lettera clxxv in cui Tasso implora l'intercessione di Perrenot affinché l'imperatore non solo lo perdoni per aver seguito per un certo tratto il suo antico padrone sulla strada contro di lui, ma gli conceda anche una rendita per i suoi figli.torna su
128 Cfr. la lettera citata nella nota precedente.torna su
129 Lettere di molte valorose Donne, nelle quali chiaramente appare non essere, né di eloquentia né di dottrina, agli huomini inferiori, In Vinegia, Appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1548. Cfr. anche N. Bellucci, Lettere di molte valorose donne... e di alcune pettegolette, ovvero: di un libro di lettere di Ortensio Lando, in Le "carte messaggiere" cit., pp. 225-76 e S. Pezzini, Dissimulazione e paradosso nelle "Lettere di molte valorose donne" (1548) a cura di Ortensio Lando, in «Italianistica», xxxi, 2002, 1, pp. 67-83.torna su
130 Per le varie posizioni degli studiosi, quasi tutti in verità a favore dell'apocrifìa dell'epistolario, cfr. ivi, p. 256 e nota 1. Riassume dettagliatamente gli argomenti addotti in favore delle due ipotesi (e porta elementi che a suo parere sostengono l'attribuzione a Lando) I. Sanesi, Tre epistolari del Cinquecento, in GSLI, xxiii, 1894, pp. 1-32, in part. pp. 14-26.torna su
131 Il Sanesi (ivi, p. 19) scrive che è uno zio della scrittrice, ma sarà ovviamente uno zio acquisito attraverso il marito.torna su
132 Cfr. G. Benzoni, Ercole II D'Este, DBI, vol. xliii, 1993, pp-107-26, in part. pp. 114-15.torna su
133 La dedica al Manfrone era per esempio uno degli elementi a sostegno dell'autenticità dell'epistolario addotti da Ireneo Affò (cfr. Sanesi, Tre epistolari cit., p. 19).torna su
134 Ivi, pp. 26-32.torna su
135 «molti simili parlari che voi et meco ne la casa vostra, et in più altri luochi con diverse persone virtuose havete trattato»; torna qui il tema della casa accogliente, già visto per Lucrezia Gonzaga (ma anche nella dedica di Francesco Sansovino a Marcantonio Thiene).torna su
136 Cfr. n. 20.torna su
137 Sulla stampa di queste lettere come operazione di autopromozione in quanto letterato e non solo editore cfr. Braida, Libri di lettere cit., pp. 160-81.torna su
138 Antonio Davila è ricordato in quanto padre dello storico Enrico Caterino Davila (cfr. G. Benzoni, Davila Enrico Caterino, in DBI, vol. xxxiii, 1987, pp. 163-71, in part. p. 163); le notizie che abbiamo su di lui partono però dal 1570, anno in cui dovette abbandonare l'isola di Cipro, conquistata dai Turchi. Per una curiosa coincidenza Antonio Davila è imparentato con Giacomo De Nores, dedicatario del terzo libro dell'edizione Marcolini delle Lettere del Doni: la figlia del De Nores, Margherita, fu la madre del Gran Contestabile.torna su
139 Figlio di Veronica Gambara, era stato anche corrispondente dell'Aretino; cfr. G. Fragnito, Correggio Girolamo da, in DBI, vol. xix, 1983, pp. 450-54.torna su
140 Cfr. G. Brunelli, Gallio Tolomeo, in DBI, vol. li, 1998, pp. 685-90, dove si accenna anche ai suoi rapporti con Annibal Caro.torna su
141 Quando i due volumi delle Lettere del Caro saranno ristampati nuovamente nel 1581 da Bernardo Giunti, una tiratura del primo volume manterrà la dedica originale, l'altra la sostituirà con una dedica dello stampatore a «Francesco Tiepolo del Clariss. Sig. Alvise procurator».torna su
142 Su di lui cfr. A. Salza, Luca Contile. Uomo di lettere e negozi del secolo XVI, (rist. anastatica dell'ed. di Firenze, 1903) introduzione di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2007.torna su
143 Gherardini è Giovan Filippo Gherardini, accademico Affidato con il nome de l'Affettuoso. Sugli Affidati cfr. M. Maylender, Storia delle Accademie d'Italia, Bologna, Forni, 1976 (rist. anastatica dell'edizione di Bologna 1926-1930), vol. i, pp. 72-82.torna su
144 Tutt'altro che assente ma stemperata nella primaria istanza di protezione dovuta all'autorità del dedicatario nelle dediche viste fin qui.torna su
145 Cfr. S. Bertelli, Affaitati Giovan Carlo, in DBI, vol. i, 1960, pp. 350-51.torna su
146 «Ma perché io desidero quanto il viver istesso farmi predicator de i meriti soli del regio signor Gian Carlo, il quale per più odorare di principe che la maggior parte de i principi non puzzano di plebeo [...] Avrei ben caro che faceste riverenza a sua signoria».torna su
147 Così anche nella lettera iv. 460 «Al Colonna», dell'aprile 1568: «Se voi mi mandaste del vostro lago di Garda tanti cedri, tartufi e carpioni, quanti ricordi mi date sopra il risparmiare che vi parrebbe io facessi, non vi bastarebbe, M. Gasparo caro, il Tesoro del Signor Giovan Carlo Affaetati in comperargli».torna su
148 L'appellativo, come è noto, gli fu attribuito da Lodovico Ariosto nell'Orlando Furioso: «[...] Ecco il flagello / De principi, il divin Pietro Aretino» (Orlando Furioso, xlvi 15). Aretino poi lo fece suo e se ne fregiò nei titoli di più di una delle sue opere.torna su
149 Lettera iii 377, dell'ottobre 1545.torna su
150 Francesco Bernardo era un mercante ma grazie alla mobilità sociale della Serenissima ricopre anche importanti cariche pubbliche, cfr. G. Pillinini, Bernardo Francesco, in DBI, vol. ix, 1967, pp. 307-08.torna su
151 Cfr. G. von Pölnitz, I Fugger, Milano, Dall'Oglio, 1964 pp. 373-77 (ed. orig. Die Fugger, Frankfurt, Scheffler, 1960).torna su
152 È registrato come «Lodovicus Lagnoverus, al. Delangenauer, Augustanus»; cfr. I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Patavii, Typis Seminarii, 1757, vol. iii, p. 13. Il titolo di Cavaliere di San Marco veniva assegnato dal senato solo ai patrizi e ai personaggi importanti; ai personaggi di minor importanza poteva essere conferito direttamente dal Doge. Cfr. A. Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia. Indice generale, storico, descrittivo ed analitico, T. i, Roma, Biblioteca d'Arte Editrice, 1937.torna su
153 Cfr. H. Kellenbenz, I rapporti tedeschi con l'Italia nel XVI e all'inizio del XVII secolo e la questione religiosa, in Città italiane del '500 tra riforma e controriforma (Atti del Convegno internazionale di studi, Lucca, 13-15 ottobre 1983), Pisa, Pacini Fazzi, 1988, pp.111-25, in part. pp. 113, 117, dove si fa riferimento al più noto tra loro, proprio Hyeronimus Kraffter, che aveva fra l'altro rapporti con la zecca papale di Bologna; secondo la nota di Antonio Rotondò (che a sua volta ha trovato la notizia in G. von Pölnitz, Anton Fugger, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1958-1967, vol. ii, pp. 191, 397; vol. iii p. 242) in L. Sozzini, Opere, a cura di A. Rotondò, Firenze, Olschki, 1986, p. 193, Hyeronimus Kraffter era dal 1546 titolare di un'agenzia di rappresentanza dei Fugger.torna su
154 Si tratta della Scala naturale, overo fantasia dolcissima di Gio. Camillo Maffei da Solofra, intorno alle cose occulte, e desiderate nella filosofia, In Venetia, per Gio. Varisco e compagni, 1564; è l'unica altra opera a stampa del Maffei.torna su
155 Vincenzo Martelli era stato il maggiordomo di Ferrante Sanseverino, al servizio del quale, come segretario, era stato per molti anni anche Bernardo Tasso.torna su
156 «che di mano in mano che elle nascevano ne tenne conto, et gli diede sempre facultà, quando non era costretta a tenerlo occupato ne' suoi maggiori bisogni, di scrivere et essercitarsi in questo vago et gentil studio: oltre che e ce n'è una buona parte, la quale fu destinata a essa dall'autor proprio, & fatta per honorare e diletto di lei».torna su
157 Per la quale cfr. Chemello, Introduzione a Tasso, Lettere. Secondo volume cit., pp. vii-lxvi, in part. p. ix e nota, e E. Picot, Les italiens en France au XVIe siecle, introduction par N. Ordine, Manziana, Vecchiarelli, 1995 (rist. anastatica dell'edizione di Bordeaux, 1918), p. 15.torna su
158 «e portole qualche giovamento e conforto nelle sue avversità, come egl'era tenuto di fare, e certo harebbe fatto prontamente, et efficacemente con ogni suo incommodo anchora, e pericolo, e come si può dire veramente che e facesse mentre ch'egli le fu appresso: che per infino all'hora cominciarono questi cattivi humori: i quali sempre gli porsero gran timore, e lo tennero in continovo sospetto: che alla fine e' non causassino qualche grave et insanabil piaga: il che non molto dopo intervenne, con gran dispiacere di coloro, a chi era nota la vostra innocenza, e somma fede: et io mi posso dire un di quegli con verità, a chi questo vostro grave male, anzi atroce tempesta, ha porto grande affanno, come io credo ch'ella sappia molto bene».torna su
159 Vedi per esempio la dedica di Domenichi a Matteo Montenegro o di Pietro Lauro a Ludwig Langenauer.torna su
160 Cfr. Larivaille, Pietro Aretino cit., p. 350.torna su
161 Ivi, pp. pp. 350-56.torna su
162 In particolare si rivolge ai fratelli Nofri e Pietro Caimani, due fratelli aretini in debito nei suoi confronti, appartenenti all'entourage papale, e al vescovo di Arras affinché interceda per lui presso Carlo V, che ha la possibilità di presentare al Papa otto candidature cardinalizie (ma Granvelle si guarderà bene dal farlo).torna su
163 Per esempio i Ternali, che poi saranno pubblicati nel quinto volume delle Lettere, e un sonetto, che gli invierà direttamente. Cfr. Floris, Le Lettere scritte a P. Aretino cit., p. 1089 e nota.torna su
164 I due libri di Lettere scritte a Pietro Aretino ai nipoti del Papa e due opere religiose dedicate direttamente a Giulio III, cfr. ibid.torna su
165 Cfr. Bertolo, Aretino e la stampa cit., pp. 36-38 («Aretino sembrerebbe aver costruito attorno alla stampa del quarto e all'allestimento del quinto libro un fittizio sistema di rimandi interni tra alcune lettere, quasi sempre indirizzate a destinatari sodali, di cui avrebbe modificato la cronologia allo scopo di avvalorare una sorta di progettualità preesistente all'elezione del pontefice, tale da rendere meno scoperta la strategia»).torna su
166 Larivaille, Pietro Aretino cit., p. 352 e nota.torna su
167 Cfr. n. 37.torna su
168 Cfr. Re Fiorentin, I "libri di lettere" di Anton Francesco Doni cit., p. 74.torna su
169 Moglie del condottiero perugino Ridolfo Baglioni e figlia del tifernate Vitellozzo Vitelli, oltre che figliastra di Alessandro Vitelli, cugino del padre, che la madre Angela Paola Rossi aveva sposato in seconde nozze, il matrimonio di Costanza aveva rinsaldato i legami tra le due famiglie, già stretti per l'amicizia tra Ridolfo e Alessandro.torna su
170 Va tenuto però presente che Doni sostiene di aver mandato «a legger» le sue lettere alla Baglioni «per ricompensa di sì gratiosa et amorevol lettera» che lei gli ha scritto e di non intendere l'epistola che la accompagnava come dedicatoria, ma solo come «parole di ringratiamento del benifitio che V. S. Illustrissima mi farà a degnarsi di leggerne alcuna volta, due o tre».torna su
171 Su di lei cfr. H. Hauvette, Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son oeuvre, Paris, Hachette, 1903, pp. 132-35.torna su
172 Non ho trovato notizia di questo libro.torna su
173 Vedi rispettivamente le lettere del 30 ottobre 1543 e del 20 dicembre 1545 in Martelli, Primo libro delle lettere cit..torna su
174 Hauvette, Luigi Alamanni cit., nota 3 a p. 133.torna su
175 Il pentimento rimarrebbe precoce anche considerando la data ab incarnatione, perciò 10 gennaio 1546. F. Flamini, Studi di storia della letteratura italiana e straniera, Livorno, R. Giusti, 1895, pp. 285-94, in un breve resoconto dei rapporti tra Nicolò Martelli e Luigi Alamanni, dà notizia (alle pp. 289-90) di dediche di opere ancora manoscritte, indirizzate a Carlo di Valois Duca d'Orleans, a Caterina de' Medici e al Cardinale di Lorena. I risultati sono deludenti: per quanto riguarda il libro dedicato a Caterina de' Medici, Martelli scrive (nella nota a pie' di pagina del manoscritto dell'opera a lei dedicata, i Sonetti a donne illustri, signori e gentilhuomini amici suoi, riportata da Flamini): «Non la trovai alla corte, e non lo presentai, perché era ita in Guascogna». Il cardinale lo tratterà con sdegno e il duca con fredda cortesia.torna su
176 Vedi la nota di Dionisotti in Bembo, Prose e rime cit., pp. 614-15.torna su
177 Tra questi, anche monsignor Della Casa, cfr. G. Della Casa, Rime, a cura di S. Carrai, Torino, Einaudi, 2003, sonetti 33, 34, 38, 39.torna su
178 Sulla bellezza della Quirini cfr. Bembo, Lettere cit., lettera 2125 («meritate molto maggiormente voi d'essere volentieri veduta da ciascuno, che così bella e dilicata sète»), oltre ai sonetti cxxxii-cxxxvii delle sue Rime.torna su
179 Cfr. la lettera 2413 in Bembo, Lettere cit., nella quale Bembo ringrazia la Quirini per avergli consigliato di tradurre personalmente la sua Historia veneta in volgare per evitare che l'originale latino venisse malamente tradotto dagli stampatori «perché le scritture latine fatte volgari da gli impressori sogliono per lo più disonoratissime essere e iscorrettissime». Le motivazioni addotte dalla Quirini a sostegno del suo consiglio, e riportate da Bembo nella sua risposta, mostrano la conoscenza e l'interesse di Elisabetta Quirini per le questioni di lingua. Per inciso, Bembo risponde che non avrà il tempo di curare personalmente la versione italiana della sua Historia ma che grazie al consiglio dell'amica gli era «venuto nell'animo di trovare alcuno suo amico atto a ciò, e pregarlo a fare in sua vece questa fatica». Poi, in verità, preparerà egli stesso la versione volgarizzata.torna su
180 Cfr. G. Langdon, Medici women. Portraits of power, love and betrayal from the court of Duke Cosimo I, Toronto, University of Toronto Press, 2006, pp. 137-41.torna su
181 Ovvero Giambattista Giraldi Cinzio, Celio Calcagnini e Giambattista Pigna.torna su
182 Su Renata di Francia cfr. Benzoni, Ercole II D'Este cit. Su Orazio Brunetto cfr. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit., Indice analitico dei nomi, ad vocem, e Braida, Libri di lettere cit., Indice dei nomi, ad vocem. Molti dei protagonisti della produzione epistolare di questo periodo hanno mostrato diversi punti di contatto con i movimenti o almeno le idee religiose riformiste (per esempio, oltre a Brunetto e Lando, i più apertamente eterodossi, Nicolò Franco, Anton Francesco Doni, Lodovico Domenichi); sulla questione cfr. almeno Grendler, Critics of the italian world cit.; Seidel Menchi, Erasmo in Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987; Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit. (in part. il cap. 3 della ii parte, alle pp. 192-240: Stampa e suggestioni religiose); Braida, Libri di lettere cit.. Come suggerisce il titolo del capitolo della Di Filippo Bareggi e il sottotitolo del libro della Braida (Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e "buon volgare"), più che di una vera e propria convinta adesione alle dottrine riformate si trattava di una più generale riflessione che teneva presente i fermenti religiosi arrivati da oltre confine ma non portava quasi mai a una convinta conversione. Cfr. Braida, Mercato editoriale e dissenso religioso nella riflessione storiografica cit., in part. pp. 279-86, dove, con riferimento alle raccolte antologiche, si passano in rassegna i vari lavori miranti a dimostrare come questi libri fossero espressione di una consapevole «prassi nicodemitica» (cfr. in part. A. J. Schutte, The "Lettere volgari" and the crisis of evangelism in Italy, in «Renaissance Quarterly», xxviii, 1975, pp. 639-88 e P. Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questioni religiose e nicodemismo politico, Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, 1979) e quelli seguenti orientati a ridimensionare la portata di queste affermazioni.torna su
183 Cfr. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit., pp. 197-202 (la citazione è a p. 198); l'Arrivabene fu anche diffusore di testi all'Indice, cfr. Braida, Libri di lettere cit. p. 138, nota 137.torna su
184 Anche se abiurerà solo nel 1554.torna su
185 Cfr. Chemello, Introduzione cit., pp. xxii-xxiii, e A. Brancati, Bernardo e Torquato Tasso alla corte di Guidobaldo II della Rovere, in «Studia oliveriana», i, 1953, pp. 63-75.torna su
186 P. A. Serassi, La vita di Torquato Tasso cit., p. 93 e nota.torna su
187 Sono «numericamente irrilevanti», per Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit., p. 266.torna su
188 Sull'amicizia tra Doni e Domenichi cfr. ivi, pp. 26-31 e 161-62.torna su
189 Di Filippo Bareggi (Il mestiere di scrivere cit., p. 266) ritiene che «Doni consideri questa sua dedica anomala e quasi sconveniente, quasi da doversene scusare». In verità era abbastanza comune nelle dediche rispondere ad immaginarie obiezioni di chi ritenesse che il dedicatario non fosse abbastanza degno dell'omaggio: lo fa per esempio Aretino per l'Affaitati, ma anche il Pizzimenti nella dedica ai lettori.torna su
190 Cfr. invece la dedica di Girolamo Muzio a Vincenzo Fedeli.torna su
191 Cfr. P. Pellizzari, Nota biografica, in A. F. Doni, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, introduzione di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994, pp. lxix-lxxxiv, in part. p. lxxvi, nota 49.torna su
192 Per esempio la sostituzione della dedica a Vincenzo Fedeli con quella a Lodovico Capponi nella nuova edizione delle Lettere di Girolamo Muzio.torna su
193 Se avesse scelto un destinatario più preciso forse gli sarebbe stato più difficile riciclare la dedica.torna su
194 Re Fiorentin, I "libri di lettere" di Anton Francesco Doni cit., p. 92.torna su
195 Anche se non sembrano sistematici: per esempio al passaggio da forma apocopata a forma integra in particolare dopo nasale (discretion → discretione, havean → havevano, son stato → sono stato, dir qualche cosa → dire qualche cosa, vogliam noi dire → vogliamo noi dire, procession → procissione, darebbon la man → darebbono la man, n'ho un per le mani → n'ho uno per le mani, daran → daranno), si affianca il passaggio contrario in due casi dopo vibrante (saper dettare lettere → saper formar lettere, per dare de → per dar de) e anche alcuni casi di conservazione della forma apocopata; simile è quanto accade con l'elisione (da una parte ch'aspettarne → che aspettarne, cosa ch'io → cosa che io, d'un canto → da un canto, di ch'io son → di chi io son, c'habbiano → che habbino; dall'altra uno Unghero → un'Unghero, gli honori → gl'honori, una urtata → un'urtata, ogniun → ogn'un, ci ha → c'ha); al raddoppiamento in faccende → faccende e babuassi → babbuassi, si affianca lo scempiamento in smarrisce → smarisce. Altri interventi sulla fonetica sono: il passaggio da e ad i in securo → sicuro e procession → procissione, l'eliminazione del dittongo in sillaba atona in giuocasse → giocasse e il dittongamento in moio → muoio, la sincope in diritta → dritta, il restauro della fricativa in havean → havevano, la semplificazione del nesso vocale + semiconsonante + vocale in prosopopeia → prosopopea e aferesi sillabica in indirizzarle → dirizzarle. Si registrano poi alcuni interventi morfologici: il passaggio da forma integra a forma con sincope vocalica e semplificazione del nesso fricativa + vibrante in havereste → hareste, l'eliminazione di un condizionale in -ar- (intopparei → intopperei), il passaggio dalla forma habbiano a quella habbino del condizionale presente. Pochi anche gli interventi sulla sintassi: il passaggio dal passato prossimo al passato remoto in mi son fermo → mi fermai sopra di me, la sostituzione di condizionale a congiuntivo in potrei dare una urtata in qualche malandrino, che mi svaligiasse → potrei dare un'urtata in qualche malandrino, che mi svaligiarebbe; la sostituzione della preposizione a rispettivamente con di e per in s'io mi metto per questa via a dar fuori le mie lettere → s'io mi metto per questa via di darle fuori e salterà forse alcuno a dirmi → salterà forse su qualch'uno per dirmi.torna su
196 Spia di questa ironia è l'esortazione a inviargli «qualche pistolotto» per manifestargli eventuale dissenso (il termine pistolotto, peraltro, non è esente da una certa sfumatura comica, cfr. GDLI, s.v. pistolotto1).torna su
197 Per Doni, d'altra parte, la dedicatoria diventa in più di un'occasione luogo di polemica o di presa di posizione provocatoria: cfr. Temeroli, Astuzie del paratesto cit., pp. 497-99, Matt, Teoria e prassi dell'epistolografia italiana cit., pp. 166-69. In particolare si ricorda il caso dell'edizione del 1552 della Zucca: la sezione Foglie fu inizialmente dedicata a Torquato Bembo; poi la dedica fu soppressa (forse su richiesta dello stesso Bembo), perciò subito sotto il titolo si trova un ampio spazio bianco e poi la scritta: «IL LUOGO DELLA EPISTOLA DEDICATORIA», seguita da questa frase: «Quando io ho dedicato opere da me composte o altri libri l'ho sempre fatto per onorare i miei signori benefattori e coloro che meritano. Quando ho conosciuto che essi l'hanno per male, subito ho tolto via la epistola e ho dato fuori il volume senza dedicarlo ad alcun altro, com'ora io faccio, acciocé il mondo conosca che io lo fo per mio debito e non per mio utile» (cfr. A. F. Doni, La Zucca, a cura di E. Pierazzo, in Id., Le novelle, Roma, Salerno, 2003, p. 373; si veda qui anche la nota di Pierazzo, dove tra l'altro si ipotizza plausibilmente che lo spazio lasciato bianco doveva servire a sottolineare l'assenza dell'immagine che di solito apriva le varie sezioni della Zucca, amplificando così l'effetto dell'assenza del destinatario).torna su
198 Ambasciatore della Repubblica Veneta; cfr. R. Targhetta, Fedeli Vincenzo, in DBI, vol. xlv, 1995, pp. 611-15.torna su
199 Muzio, Lettere. Venezia, Giolito, 1551 cit., p. 3. A questa nota si rimanda anche per le testimonianze sull'amicizia tra i due.torna su
200 Vedi la nota di Negri, ibid.: «conversatione: è la latina conversatio, la pratica dell'amicizia, la dimestichezza acquisita per consuetudine di vita in comune».torna su
201 Sui tre maestri cfr. ivi, nota pp. 5-6.torna su
202 Ivi, p. 6.torna su
203 I due vissero sotto lo stesso tetto, come ricorderà Muzio nella dedica a Capponi.torna su
204 Ivi, p. 3.torna su
205 Cfr. F. Angiolini, Capponi Lodovico, DBI, vol. xix, 1976, pp. 62-64.torna su
206 Cfr. ivi, p. 62.torna su
207 Cfr. Borsetto, Introduzione cit., p. xlix, nota 4.torna su
208 Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere cit., p. 267.torna su
209 Ivi, p. 281; tant'è vero che in almeno un caso (l'unico che ho potuto controllare direttamente), L. Dolce, Vita di Carlo V, Venezia, Giolito 1567, è presente anche una dedica, ad Emanuele Filiberto, Duca di Savoia.torna su
210 Oltre naturalmente dalla dedica «A i lettori» conseguente alla rottura dell'amicizia tra Doni e Domenichi.torna su
211 Affermazioni sulla cui veridicità, come già visto, è opportuno mantenere una certa prudenza (cfr. nota 58). torna su