6, 2012
 
Saggi    
 
Abstract


Sara Cerneaz

«Forse la storia è più bella della poesia».
Attorno all'autocommento di Valerio Magrelli



1. Così Baudelaire, nel quarto Progetto di prefazione per 'Les Fleurs du mal', si interroga retoricamente sull'utilità di un commento ai suoi versi: Il mio editore pretende che ci sarebbe qualche utilità, per me come per lui, nello spiegare perché e come ho fatto questo libro, quali siano stati il mio scopo e i miei mezzi, il mio disegno e il mio metodo. Un simile lavoro di critica avrebbe senza dubbio qualche possibilità di divertire gli spiriti innamorati della retorica profonda. [...] Ma, a un esame più attento, non appare evidente che questo sarebbe un lavoro del tutto superfluo per gli uni come per gli altri? poiché gli uni sanno e divinano, e gli altri non capiranno mai?1 Siamo distanti dalle istanze che sottendono al grandioso autocommento della Vita Nova dantesca, come dalla posizione di Lorenzo De' Medici, il quale, ricorda Prandi nel più importante contributo sull'evoluzione storica dell'autocommento,2 sosteneva, nel Comento de' miei sonetti, che «di nessuno è più proprio officio lo interpretare che di colui medesimo che ha scritto, perché nessuno può meglio sapere o elicere la verità del senso suo». Ma se la distanza epistemologica è innegabile, minimo comun denominatore è la posizione dell'autore rispetto al prodotto letterario: egemonica, privilegiata, unica: Baudelaire, come Dante e Lorenzo De' Medici, si sente investito di un ruolo, quello di vate, e su questa antica consapevolezza basa la propria reticenza, aristocraticamente moderna. Afferma Genette: l'epoca romantica non sembra molto favorevole all'autocommento, essendo i suoi scrittori particolarmente preoccupati […] di far credere alla spontaneità quasi miracolosa della loro ispirazione, e dunque non tanto interessati a mostrare la fabbrica: tabù di pertinenza.3 Se il valore legato alla figura autoriale mostrerà le prime incrinature già dal Cinquecento (si pensi al Tasso), sarà solo nel Novecento che esso entrerà veramente in discussione. Proporzionalmente a questa incrinatura, anche il capitolo dell'autocommento, avanzando nel Novecento, si fa maggiormente complesso, fluido, dalle parabole esplicative, modali e valoriali difficilmente disciplinabili in una teoria e in una tipologia. La critica, dalla pietra miliare delle Soglie di Genette fino ai più recenti dibattiti e convegni, è concorde nell'attribuire all'autocommento novecentesco una linea empiricamente funzionale. Testa argomenta come non sia possibile, per il Novecento, adottare una categoria "ristretta" di autocommento: sono così numerosi i rivoli in cui nel secolo si dirama e sperde il darsi pensiero della poesia che all'autocommento ci si potrà riferire prima di tutto come ad una funzione - dalle svariate realizzazioni fenomenologiche - e, solo in un secondo momento, come ad un genere, con i suoi stereotipi, regole e vezzi.4 Nel Novecento la detronizzazione dell'io, i cui prodromi risalgono già al cosiddetto scacco cosmologico dettato dalle scoperte galileiane e copernicane e confermata da quello biologico delle teorie evoluzionistiche di Darwin, si esaspera nelle ultime umiliazioni: la psicanalisi e lo strutturalismo, che fanno l'uomo schiavo di pulsioni e "strutture". Anche l'io autoriale vacilla in una pesante incertezza di statuto: non ha più un punto di osservazione privilegiato, né come soggetto, né, tanto meno, come oggetto di autocommento. Si afferma così il cliché retorico tutto novecentesco della precarietà, se non incapacità interpretativa dell'autore rispetto al proprio testo. Famosa, su tutte, l'affermazione montaliana sulla scrittura di Iride: «è una poesia che ho sognato e poi tradotto da una lingua inesistente; ne sono forse più il medium che l'autore».5 L'autore rinuncia, cede il passo, in un rassegnato gesto di deposizione di ogni reticenza, e spesso leva la propria mano verso il lettore, che umilmente sente di guidare nella lettura (si pensi alla straordinaria Storia e Cronistoria del Canzoniere di Saba); tuttavia lo fa non in quanto depositario del significato ultimo del testo, per le ragioni suddette, piuttosto assumendo le vesti di dimesso contestualizzatore. Genette parla di un «tabù di competenza» dell'interpretazione autoriale: Così l'autocommento prende il più delle volte un'altra strada, quella cioè del commento genetico: non sono più (e forse meno) qualificato di un altro per dire ciò che la mia opera significa e perché l'ho scritta; invece, più di qualsiasi altro ho gli elementi per dire come l'ho scritta, in quali condizioni, secondo quali processi, e addirittura secondo quali procedimenti.6 Sul commento genetico grava il problema dell'ambiguità e dell'ironia che spesso lo contraddistingue. È classico l'esempio della contestualizzazione montaliana della - ambigua - occasione che soggiacerebbe al mottetto sugli sciacalli;7 ma molti sono gli esempi "genetici" che in realtà sollevano incertezze riguardo a una semplice "didascalicità". Prandi, Secchieri e Pusterla, in occasione del recente convegno di Berna, insistono sulla necessità di considerare l'autocommento come un testo parallelo, autonomo, non di semplice e ingenua valenza eziologica, da considerarsi spesso non più che nominale: Avvicinarsi agli autocommenti per ciò che sono (e non tanto per ciò che essi dovrebbero essere o vorremmo che fossero) sarà allora possibile unicamente sganciandone la percezione dall'ipoteca della transitività senza residui, della referenzialità ristretta di cui essi sarebbero una riprova.8
2. Se si può, con una indebita ma comoda semplificazione, tracciare delle direttive, credo, con Prandi, che i paradigmi dell'autocommento novecentesco siano avvicinabili alla dialettica tra «tentazione egemonica» - antica, ma immortale -, «concessione all'alterità del lettore», «puntiglio critico ed ironica allusività».9 È alla luce di questo paradigma - per quanto mobile e dal valore funzionale - che tenterò una lettura dell'epitesto pubblico, nella definizione genettiana, di Valerio Magrelli, ovverossia di «tutti quei messaggi che si trovano [...] generalmente in ambito mediatico (interviste, conversazioni)»10 o in forma autonoma.11 Magrelli, prodigo interprete di sé stesso, in molte occasioni si presta a sciogliere i nodi della sua poesia, a fronte di una scrittura che già si staglia per le sue caratteristiche di subitanea comunicatività, di generosa - ma mai banale - apertura al lettore. Mi sembra di poter ravvisare nel poeta, come nell'autocommentatore, il piacere - raramente compiaciuto - di comunicare con il lettore. Anche al culmine dell'autoreferenzialità tematica dello sguardo centripeto di Ora serrata retinae, mi sembra incontrovertibile quanto tutto ciò sia mediato da una sostanziale transitività del dettato poetico. E questo mi sembra confermato da quella che Genette definisce come forma indiretta di epitesto pubblico, ossia quello fornito dalle letture pubbliche: la lettura (o la recitazione a memoria) [...] è essa stessa già, ovviamente, un'interpretazione, grazie alla sua dizione, ai suoi accenti, le sue intonazioni, i suoi gesti e le mimiche che la caratterizzano. [...] si tratta, come nella musica, di una miniera di informazioni paratestuali. [...] Si dice, ma per quanto ne so io nessuna registrazione può farvi fede, che Kafka in pubblico leggesse ridendo.12 Zucco vi fa riferimento in relazione alla sua esperienza editoriale con Giudici, raccontando di un'esecuzione privata di Salutz: Ebbene, Giudici lesse l'intera sequenza senza aggiungere nulla, o quasi, talvolta allargando e lasciando cadere le braccia a esprimere silenziosamente la trasparenza (per lui) del testo, o la rinuncia a dirne qualcosa. Così facendo non si sottraeva all'impegno, no davvero. Soltanto, l'autocommento di cui ero il solo e privilegiato fruitore - autocommento interamente risolto nelle modulazioni di un emozionato pianissimo - non era partecipabile.13 Ecco, mi pare che il Magrelli che si autocommenta14 non rida kafkianamente, né faccia percepire come non partecipabile il suo autocommento. Egli scandisce il dettato poetico, sembra voler donare la sua parola all'uditorio: lo fa da poeta, prima, e da lettore della sua poesia, poi. Tuttavia, coerentemente alle istanze novecentesche di scacco autoriale e, giocoforza, di non "competenza", Magrelli non fa della sua voce autocommentatrice una voce solista, privilegiata, onnisciente. Si legga il colloquio del poeta con uno studente: Studente: Non crede che leggendo pubblicamente e soprattutto commentando pubblicamente le sue poesie si faccia un oltraggio alla pluralità delle letture cui la poesia può dare origine? La poesia è uno strumento soggettivo: com'è possibile oggettivarlo, renderlo uniforme per tutti? Non è un oltraggio anche alla sua soggettività e allo strumento con cui la soggettività è espressa?
Magrelli: Esiste un movimento critico nato in questi ultimi anni, la cosiddetta scuola di Costanza, che ha sviluppato alcune ricerche avviate da Poe e Valéry. In base a questo tipo di indagini, il vero attore, cioè colui che attiva l'opera, non è tanto chi scrive, ma chi legge. L'accento viene così spostato (da qui il nome di estetica della ricezione) su chi raccoglie l'opera e non più su chi la compone. Arrivo al punto. Il caso di uno scrittore che spieghi se stesso, che racconti ciò che ha cercato di fare, sembra effettivamente paradossale. Tuttavia, una volta che il testo è stato prodotto, non vedo perché l'autore non possa parlarne, ossia non possa avere gli stessi diritti del lettore. Da un punto di vista personale, essendo un'attività che non faccio molto spesso, riflettere ad alta voce sui miei testi è appassionante, curioso, strano, sebbene, almeno in parte, imbarazzante. Ad ogni modo, non credo che tutto ciò suoni come un oltraggio.15
Magrelli, in definitiva, carica l'autocommento di un valore non dissimile a quello di un qualsiasi commento: la sua voce è equiparata a quella di ogni lettore; l'autore, «una volta che il testo è stato prodotto», diviene semplice lettore. Su questa natura transeunte dell'attante quasi grava la necessità di una giustificazione di statuto: «non vedo perché l'autore non possa parlarne, ossia non possa avere gli stessi diritti del lettore». Mi concentrerei sulla parola «diritto», che mi pare nodale: per Magrelli l'autocommento non è una necessità, caricata di valore ermeneutico sacrale, ma è la pratica eventuale che lo stesso autore si riserva di esercitare in qualità di lettore, certo particolare e magari un po' imbarazzato nel suo svelarsi. Mi viene in mente La poesia, in Didascalie per la lettura di un giornale:
  Le poesie vanno sempre rilette,
lette, rilette, lette, messe in carica;
ogni lettura compie la ricarica,
sono apparecchi per caricare senso;
e il senso vi si accumula, ronzio
di particelle in attesa,
sospiri trattenuti, ticchettii,
da dentro il cavallo di Troia
(DLG 71).16
 
La lettura, anche se compiuta dall'autore stesso, concorre al caricamento del senso di un testo. Sulla concezione autoriale di Magrelli sono interessanti le definizioni che il poeta sviluppa alle voci Autore e Gnarus, due dei ventuno lemmi comparsi in una sorta di abecedario della poesia dedicato ai ragazzi. Alla prima voce, lungo un breve excursus storico sul ruolo dell'autore (dalla classicità fino all'epoca romantica, passando per Dante), egli afferma: in epoca romantica [...] comincia a delinearsi quella crisi del concetto di identità culminato con le tesi di Nietzsche sull'io plurimo. «Io è un altro», sosterrà il poeta più famoso, ovvero Arthur Rimbaud. «L'io è un mero avverbio di luogo», gli risponderà il filosofo meno noto, cioè Giuseppe Rensi. Addio sogni di gloria: ormai la figura del soggetto è ridotta a un insieme di frammenti. L'ultima tappa di questo smantellamento viene da Michel Foucault, che è giunto ad affermare: «La traccia dell'autore sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del morto nel gioco della scrittura». Il ruolo del morto a carte, il ruolo del morto sulla carta. Così siamo arrivati al cuore della questione: se l'autore, da quel dio che era, è ormai addirittura defunto, adesso chi le scrive le poesie? È un bel problema, ma forse, in fin dei conti, si scrive proprio per cercare di scoprirlo, per risalire dal testo al suo mittente, per muovere dal gesto al suo mandante.17 Magrelli parla di un autore defunto, compiacendosi dell'interrogativo paradossale, alessandrino, su chi, allora, scriva le poesie. È una rincorsa all'assenza, un gioco di specchi e rifrazioni disorientante - alla Escher - per cui l'ossessività dell'interrogazione diviene, essa stessa, risposta. Viene in mente quello sguardo centripeto, autoreferenziale che caratterizza soprattutto la poetica di Ora serrata retinae:
  Di sera quando è poca luce,
nascosto dentro il letto
colgo i profili dei ragionamenti
che scorrono sul silenzio delle membra.
È qui che devo tessere
l'arazzo del pensiero
e disponendo i fili di me stesso
disegnare con me la mia figura.
Questo non è un lavoro
ma una lavorazione.
Della carta prima, poi del corpo.
Suscitare la forma del pensiero,
sagomarla secondo una misura.
Penso ad un sarto
che sia la sua stessa stoffa
(OSR 75).
 
Ma ancor più esplicativa della concezione del ruolo autoriale nella poetica di Magrelli è la definizione della voce Gnarus, ovverossia la forma positiva dell'aggettivo ignaro: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo "gnarus" o "ignarus"? E ancora: siamo poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato come un tempo sui fatti da narrare? Mi piacerebbe affidare la risposta a un romanziere, Giuseppe Pontiggia: «Io non metto il messaggio nel testo, ma glielo chiedo. È da lui che lo aspetto, per scoprire ciò che non sapevo di sapere». I nostri dubbi trovano conferma. Se il narratore stesso è diventato, almeno in parte, ignaro, figuriamoci il poeta... Come uscire da tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste nel capire che l'opera non va considerata come un oggetto dominato dall'autore, bensì come un processo che trasforma l'autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, bensì per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove.18 Sembra la resa in prosa della poesia - risalente a circa vent'anni prima! - che così recita:
  Io non conosco
quello di cui scrivo,
ne scrivo anzi
proprio perché lo ignoro.
È un atto delicato,
è il limitare
che confonde la preda e il cacciatore.
Qui arrivano a coincidere
l'oggetto che cerco e la causa
di questo ricercare.
Per me la ragione
della scrittura
è sempre scrittura
della ragione
(OSR 93).
 
Mi sembra evidente la posizione che Magrelli affida al ruolo autoriale: non si tratta di una ruolo egemonico, demiurgico, bensì dialettico, dove i due attanti sono il lettore e il testo; essi, insieme - parafrasando la poesia di Didascalie per la lettura di un giornale - caricano, accumulano senso. È come se la voce della poesia fosse slegata, in qualche misura indipendente dalla penna dell'autore: quando si inizia a scrivere una poesia si sa dove si va a finire? In realtà questa è una domanda che credo non possa avere risposta. [...] Per quanto breve, ogni poesia istituisce, all'interno della sua struttura, un viaggio della scrittura verso se stessa. Si sta andando da qualche parte, ma non si sa dove.19 Esplorata dunque la posizione di Magrelli in merito al ruolo, allo statuto e al valore dell'autore, resta da capire la grande solerzia nell'autocommento di questo poeta, il quale, come ho ricordato, si fa spesso generoso interprete dei suoi versi. Mi sembra interessante partire da un suo commento al commento. In occasione di una discussione con i ragazzi di una scuola superiore, Magrelli si ritrova a rispondere alla domanda di una studentessa: il commento, la spiegazione, anche la parafrasi della poesia - prassi consolidata nella scuola italiana - non sono inversamente proporzionali all'immediatezza, alla passione che dovrebbe instaurarsi fra testo e lettore? Questa la risposta: io in particolare rimasi disturbato, diciamo, soprattutto leggendo Dante. Anche visivamente [...] la pagina dei volumi che presentano Dante e sui quali si studia, è una pagina abnorme, perché si vedono due versi e poi un'enorme siepe proprio di note che tipograficamente si mangia il resto. [...] Cioè apriamo il libro e vediamo che la poesia è scomparsa. C'è questo cancro del commento che si sta divorando tutto. Sembra un po' lo scherzo che avviene con i virus a livello appunto di informatica con i computer. Ecco, possiamo dire che il commento è un virus che distrugge il testo? La mia idea, la mia, diciamo, insofferenza di studente, mi portava verso un'idea, una convinzione di questo tipo, finché, devo dire, non mi sono imbattuto in un poeta russo, un poeta, un narratore, un saggista russo (O. Mandel'štam) [...] che parla di Dante e dice: «Esistono dei testi che nascono già commentati». [...] E fa questo esempio: nel cantiere navale de La Divina Commedia, il testo, come se fosse la carena di una enorme imbarcazione, nasce già con le conchiglie, con le remore [...], con questa vegetazione attaccata. In qualche modo La Divina Commedia non è soltanto quei due versi che noi vediamo in alto, ma anche tutto il resto. [...] Insomma ho capito come questa vegetazione, queste alghe che stavano sotto la chiglia del testo di Dante, non potevano essere tagliate via, non potevano essere rasate, ne costituivano il corpo.20 Qui il poeta parla del commento in generale, ma il suo discorso, lateralmente, ci può fornire spunti di riflessione importanti. Il valore che esso riveste è sostanziale: «le alghe che stavano sotto la chiglia del testo [...] ne costituivano il corpo». Magrelli fa del commento lo strumento necessario, il «martelletto geologico» per arrivare al «cristallo» della Divina Commedia. Si capisce che le parole del poeta trovano totale referenzialità con lo specifico dantesco: l'opera di Dante è il compendio della cultura di un evo, di un sistema di sapere collettivo, universale, per noi, ora, lontanissimo, esclusivamente mediato. Evidentemente quella dantesca è un caso particolare di poesia "sociale", che giustifica e nobilita il commento quale passepartout per varcare quel mondo ormai così distante dal nostro. Più in generale Magrelli ritiene che la poesia sia un atto squisitamente individuale: inserita all'interno di una tradizione, certo, e tuttavia contemporaneamente e costantemente aberrante. «L'autore è un hapax»: La letteratura va avanti e indietro, procede per "L", si sposta di lato. C'è una perenne compresenza di tutti gli elementi della ricerca perché, ripeto, ritengo che ogni autore debba vivere in un uno stato di perpetua aberrazione rispetto alla tradizione letteraria. Egli dispone cioè di infiniti elementi, ma la scelta di questi elementi e il loro ordinamento dipende da lui. Così ogni volta la tradizione viene ricomposta in maniera diversa, senza procedere in maniera lineare, bensì attraverso dei salti, degli scarti, che sta a noi decifrare. […] per me l'autore è una cometa, e in quanto tale non è riconducibile agli elementi della sua realtà. […] È appunto aberrante per definizione. Io terrei fissi due punti: l'autore non spunta dal nulla, è costituito dai materiali che lo circondano, che lo formano, eppure viola il proprio sistema orbitale. [...] Insomma l'autore è un hapax.21 Se per Magrelli la letteratura, di cui rifiuta una concezione lineare, progressiva, è tutta affetta da "cometismo", è incontrovertibile quanto ciò sia ancor più vero se si guarda al Novecento. E allora, se la voce del poeta del Novecento è quella singolare, unica, così diversa da quella universale del Medioevo, si può dire che l'autocommento è l'unico commento possibile? Fin quando il codice di riferimento è pubblico, l'interprete può sempre colmare il divario di conoscenza che separa il testo dal lettore; quando invece è privato, può solo sperare in un autocommento del poeta.22 Si potrebbe capire così il fenomeno, in sempre maggiore crescita, dei festival letterari, degli incontri con l'autore e dello spazio in espansione che nelle edizioni critiche riveste la cronologia: Zucco, parlando dei Meridiani, fa un paragone tra le «sette pagine di Leone Piccioni per Ungaretti, e le settantasette che ha dedicato a Raboni».23 Si tratterebbe di risposte alla domanda crescente di informazioni che i lettori di poesia sembrano porre sempre più, considerandoli appigli imprescindibili per l'esegesi: per comprendere una poesia non basta più il possesso di un sapere collettivo (politico, storico, mitologico o latamente culturale), ma bisogna anche conoscere gli aneddoti che l'autore, saltando i passaggi che di solito separano le allusioni soggettive dai riferimenti a una cultura condivisa, ha disseminato nel testo.24 Vi è un restringimento d'orizzonte: il poeta parla di un universo privato, intimo, aneddotico, che certo giunge a svelare universali, come la Poesia fa, ma su cui può gravare una difficoltà di transitività sanabile solo con l'aiuto dell'autore stesso, l'unico in grado di colmare quella «distanza epistemica»25 di cui parla Segre. Da qui la forte domanda di autocommento, che trova risposta nella diffusa epitestualità pubblica. Questo fatto tuttavia si sovrappone al cosiddetto scacco autoriale, di cui si è ampiamente parlato: è la somma degli opposti. Da una parte l'elevazione dell'autore a necessità ermeneutica, dall'altro la frantumazione del suo statuto. Il risultato è un autocommento per lo più di tipo "genetico": perché se l'autore è più ignarus che gnarus, per riferirsi al passo magrelliano citato, non può fare che il contestualizzatore della sua scrittura: spazialmente, temporalmente, paradigmaticamente svelando i suoi riferimenti testuali. Ma poi la voce della poesia è lasciata al suo volo, donata al lettore, perché diventi sua, stravolta magari, ma lasciata alla sua autonomia e libertà: caricata dal senso di ogni lettura, singola e universale insieme. Magrelli afferma: «Sono contrario all'idea di sacralità di un testo; o meglio, secondo me la sua sacralità è appunto quella che scaturisce da tutte le possibili analisi».26
3. Nel tentativo di tratteggiare una fenomenologia dell'autocommento magrelliano, ricorrerò a un'abbondante esemplificazione e farò riferimento a un criterio empiricamente funzionale, più che sistemico, in linea con le istanze tipologiche di Prandi e Testa. Inizierei da quelli che Genette definisce come «interventi epitestuali di regime mediatizzato», ovverossia interviste, conversazioni e colloqui.27 Sono spazi per i quali è ipotizzabile un'intenzionalità minima da parte di Magrelli: se quasi certamente il poeta ha in mente un canovaccio che innervi il proprio discorso, sono interventi che tuttavia si modulano, di necessità, sull'intervento orale. Spazi dunque poco filtrati, quasi vergini e dove presumibilmente non vi è scollamento tra intenzione ed esecuzione. Una prima funzione rintracciabile è quella metaredazionale, espressione che faccio mia dalla tipologia di Prandi, il quale spiega: La chiosa metaredazionale si presenta molto spesso, per quanto ho potuto vedere, con un carattere neutro "di servizio"; è certamente l'ambito in cui l'autore può assumere più da vicino la maschera impassibile dell'editore di testi.28 Si legga il commento che Magrelli fa della poesia che apre Ora serrata retinae, Molto sottrae il sonno alla vita (OSR 7): D. - Perché [...] «molto sottrae il sonno alla vita»?
R. - Forse perché è un bene, non so. [...] Qui, tra l'altro, è successa una cosa molto curiosa: c'è un verso che diceva: «E il sogno si allarga nel sonno / come un secondo corpo». Ed ecco che il tipografo, durante le prime bozze, scrisse: «E il sonno si allarga nel sonno». Io lo lasciai così, per creare una specie di sdoppiamento. Prima c'era un'immagine afferrabile, ma un po' banale. Ora, invece, con il sonno che cresce dentro sé stesso, diventa tutto più inquietante.29
Il poeta svela all'uditorio una variante del proprio testo. La responsabilità tipografica dell'avvicendamento variantistico sa un po' dello stratagemma letterario del ritrovamento di un manoscritto che l'autore si limita a continuare: sembra insomma di essere di fronte a un filtrazione romanzata. Tuttavia, l'occasione dialogica e, di più, l'incertezza che Magrelli palesa nel rispondere alla domanda - «forse», «non lo so» - allontanano questa ipotesi di alta intenzionalità. Si legga anche la seguente poesia di Ora serrata retinae:
  Una poesia teologica
offre un senso al suo oggetto
e lo orienta e gli imprime
una spinta geometrica.
Ogni riga è il fasciame
sull'asse della chiglia,
mentre lungo la prua
dove l'opera dello scafo
è detta morta,
si protende l'immagine
curva della polena
(OSR 96).
 
Magrelli, in due occasioni distinte, afferma: Io lì volevo dire, più che teologico, teleologico. Per me la poesia teologica ha soprattutto uno scopo, un fine, l'immagine della barca spinta in una direzione.30
C'è una poesia con uno scambio tra "teologia" e "teleologia", la parte della filosofia che indaga il problema della meta, dello scopo, della finalità. Però c'è anche il bisticcio tra "theos" e "telos".31
Il primo intervento, per rifarci alla tipologia di Genette, corrisponde per l'esattezza a un momento di epitestualità pubblica a regime autonomo, quello che può essere definito a tutti gli effetti un autocommento. Il secondo, invece, nasce come una conversazione con una classe di scuola media superiore, ed è costruito su domande (poche) e risposte (lunghe): quindi, seppur in maniera parca, il regime è mediatizzato. Magrelli svela una variante redazionale dall'importante valore ermeneutico. L'esempio è inoltre interessante per la convergenza che rivela tra l'epitestualità pubblica e privata: in una pagina dei quaderni dove Magrelli era solito abbozzare i suoi versi, divulgata da Tommaso Lisa, si legge la bozza della poesia; rispetto alla variante scelta in Ora serrata retinae del 1990, il primo verso parla di una «poesia teleologica», non teologica. Inoltre, ai margini del corpo poetico, vi è già un appunto dove Magrelli parla di «[una matematica / una geometria } teologiche]» (Figura 1).32 La binarietà del pensiero del poeta sembra essere quindi attiva già da una primissima stesura dei versi: la transitività dell'autocommento, così risulta assai rilevante. Eppure parziale: Magrelli infatti elude l'occasione della scelta o dello scambio tra le parole. È evidente quanto la funzione metaredazionale si mescoli a istanze di tipo genetico e linguistico (che vedremo fondersi ineluttabilmente), a testimonianza della precarietà di tale tentativo tipologico. Vi è poi una funzione che potremmo definire, sempre con Prandi, metatestuale, paradigmatica, che «informa su loci paralleli o [...] casi di intertestualità».33 Prandi avverte che tale funzione ha una fenomenologia «che presenta un'escursione da un massimo di pudore ad un massimo di esibizionismo citazionale».34 Certo, non si può parlare di pudore nel citazionismo di Magrelli: il poeta è prodigo commentatore anche della sua cultura poetica ed extrapoetica; né, d'altra parte, un esibizionismo compiaciuto mi pare confarsi alla sua personalità. Altrettanto inadeguata mi pare una comparazione con quella categoria di autocommentatori, di cui parla Testa, che arrivano a dare notizie sulla propria poesia e poetica parlando in prima battuta d'altri poeti (questo per consentire «un margine più ampio di libertà enunciativa e, forse, anche il distacco da istituzionali doppiezze letterarie»).35 In Magrelli non vi è obliquità del commento; e, tornando alle istanze di pudore/esibizionismo, mi pare che la citazione di poeti, narratori e filosofi sia riconducibile a una sorta di naturalità della narrazione. Magrelli commenta il suo testo, riferimento primo e ultimo, e nel suo racconto, svela sic et simpliciter il riferimento intertestuale. È spontaneo, senza retorica: perché non vi è iato tra il poeta e i suoi riferimenti, che sono quelli che istituiscono la sua poetica. Si legga il passo seguente: Magrelli commenta una poesia di Nature e venature che ha per oggetto il telefono (NV 212): L'investimento di forze che io attribuivo a quest'apparecchio mi faceva, e questo è un po' il gioco di questa poesia, fare il percorso del mito alla rovescia. Così come, nel mito, Eco muore e si trasforma in segnale, nella stessa maniera, qui c'è una creatura, una storia che produce un oggetto, una parola. Mentre la storia delle sirene produce la parola 'sirene', mentre la storia della ninfa Eco produce la parola 'eco', qui ho provato a fare il contrario: ho cercato di inventare un possibile mito partendo dalla parola, dal telefono. Certo, dietro tutto ciò correva la suggestione di tante letture diverse. Ci sono per esempio le pagine di Proust sul telefono, che definiscono l'operatore (cioè la signorina del telefono) divinità della voce. Ma avevo anche presenti le pagine di Kafka o di Heidegger.36 Magrelli, in un'occasione mediatizzata, parla senza riserve della suggestione poetica che l'oggetto telefono ha suscitato in lui: si noti (vi torneremo) quanto l'eziologia sia sempre fortemente linguistica. Fino allo stacco: «Certo, dietro tutto ciò correva la suggestione di tante letture diverse». Mi pare una dichiarazione di intertestualità non gravata da ostentazione: i nomi di Proust, Kafka e Heidegger sembrano venuti in mente a Magrelli con genuinità. L'esempio seguente mi sembra già più tramato: a me interessa anche una poesia che si risolva, in certi momenti, in pura curva, quasi in puro gioco. Vorrei leggerne una di questo tipo, l'ultima poesia del mio secondo libro. L'ho idealmente dedicata a Palazzeschi, un poeta che avvicinato ad altri più drammatici rischia d'essere 'bruciato' (come si dice in astrologia a proposito dell'influsso di certi pianeti deboli), sembra quasi sparire, ma che reputo un punto di riferimento straordinario per la sua folgorante levità.
  Io cammino fumando
e dopo ogni boccata
attraverso il mio fumo
e sto dove non stavo,
dove prima soffiavo.37
 
In questo caso mi pare che nel ritratto che fa di Palazzeschi, Magrelli confonde i propri tratti con quelli del poeta: una poesia che rischia di essere bruciata, accostata a certa drammaticità, è anche la sua; egli rivendica infatti che essa, talvolta, possa risolversi «in pura curva, quasi in puro gioco».38 Il suo non mi sembra, tuttavia, il caso di quegli autocommentatori che parlano di sé attraverso l'indagine dell'opera altrui, in una sorta di deliberata, o meno, lateralità di trattazione.39 È piuttosto la descrizione di una affinità elettiva tra due poeti: fumisti (si legga la brevissima prosa di Alle lagrime, rovi di Esercizi di tiptologia) e, seppur in maniera diversa, lievi. Un'affinità simile mi sembra quella descritta nel commento alla bellissima poesia L'abbraccio:
  Tu dormi accanto a me così io mi inchino
e accostato al tuo viso prendo sonno
come fa lo stoppino
da uno stoppino che gli passa il fuoco.
E i due lumini stanno
mentre la fiamma passa e il sonno fila.
Ma mentre fila vibra la caldaia nelle cantine.
Laggiù si brucia una natura fossile,
là in fondo arde la Preistoria, morte
torbe sommerse, fermentate,
avvampano nel mio termosifone.
In una buia aureola di petrolio
la cameretta è un nido riscaldato
da depositi organici, da roghi, da liquami.
E noi, stoppini, siamo le due lingue
di quell'unica torcia paleozoica.
(NV 250).
 
Dopo Nature e venature, poi, ho scritto altre poesie, che ho pubblicato in rivista e spero di raccogliere in un altro libro. Vorrei leggerne una di queste. Si intitola L'abbraccio, ed è caratterizzata da un ampio ricorso all'endecasillabo, il verso tradizionale per antonomasia. A me piacciono certi poeti, come Robert Frost, che a una prima lettura sembrerebbero assolutamente superati, quasi ottocenteschi. Amo queste composizioni che sembrano ricoperte da una patina. Uno dei maestri in questo genere di scrittura è forse W.H. Auden, un poeta straordinario, che, a una prima lettura, dà l'idea di qualcuno che voglia solo giocare, scherzare con il ritmo.40 Mi sembra, di nuovo, che Magrelli parli della propria poetica arricchendo l'uditore, con naturalezza, di notizie sui suoi riferimenti. Quello di Auden e Frost è un modo di fare poesia a lui vicino, affine: la tradizionalità di cui egli parla è la cifra della sua poesia, che è nata come un desiderio di riscoperta della forma.41 Interessante, lateralmente al discorso sull'autocommento, l'evoluzione metrica de L'abbraccio dalla versione riportata nell'intervista alla pubblicazione in Esercizi di tiptologia, da cui si cita: coerentemente a quanto affermato, Magrelli rimodula infatti la versificazione cercando la soluzione endecasillabica. Sarebbe riuscita la critica a intravedere in controluce i nomi di Proust, Palazzeschi, Frost, Auden, senza la mano tesa del poeta che commenta i propri versi? In molti casi sì, probabilmente; in altri la suggestione intertestuale avrebbe corso il rischio di rimanere taciuta. Del primo caso fa certo parte quello che, per definizione dello stesso Magrelli, è «una specie di pastiche»:42
  Rosebud

Non pretendo di dire la parola
che scoccata dal cuore traversi
le dodici scure forate
fino a forare il cuore del pretendente.
Io traccio il mio bersaglio
intorno all'oggetto colpito,
io non colgo nel segno ma segno
ciò che colgo, baro,
scelgo il mio centro dopo il tiro
e come un'arma difettosa
di cui conosco ormai
lo scarto, adesso
miro alla mira
(NV 177).
 
Un altro tema che ho ripreso spesso è quello del cinema, che appare ad esempio in un testo intitolato Rosebud, e dedicato alla parola che giace sul fondo di Quarto potere di Orson Welles. La storia ruota intorno a un personaggio che per tutto il film cerca di ricordare un nome segreto, appunto 'Rosebud'. Su questa idea, ho scritto una specie di piccola ars poetica che fa il verso alla famosa apertura di Montale.43 Dal riferimento cinematografico, forse meno immediato, ma puntuale, a quello poetico, lapalissiano, l'intertestualità del passo è "esibita", per impiegare la terminologia di Prandi. Fa da contraltare, perché è attribuibile a una sorta di pudore, il caso di Ora serrata retinae in cui Magrelli fa riferimento al Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) di Berkeley. Questa la poesia:
  L'esperienza c'insegna che ogni idea
s'accompagna a un'idea
nel corso ordinario delle cose,
e che quindi poter prevedere
dà regola alle nostre azioni
secondo le necessità della vita.
Altrimenti sarebbe il dubbio,
non saper nulla in modo
che ci desse o levasse
il dolore dei sensi.
E ogni mezzo conduce
ad un suo risultato
secondo leggi stabilite di natura.
E senza, saremmo incerti e confusi
né un adulto saprebbe vivere
meglio d'un bambino appena nato.
Tuttavia questa meccanica uniforme
che indica la saggezza dello spirito
non guida verso lui la nostra mente
che vaga in cerca d'altre ragioni
(OSR 18).
 
Si leggano due commenti, simili per "momento" e "regime" genettiano: Ecco, questa è una pagina estrema del mio libro, perché è una pagina non mia. Io non ho fatto quasi nemmeno la traduzione. Semplicemente, stavo leggendo questo testo e mi è sembrato molto bello, molto solenne. C'è questa cadenza fredda ma anche dolorante, perché si parla di un bambino, quali sono i suoi sensi, qual è l'esperienza del suo essere gettato sulla terra… Fa parte di un trattato. Io ho fatto solo gli a capo. Ma mi pareva molto bello che in un trattato, anche noioso, potesse esserci una pagina di poesia. [...] Anche lì, mi interessava vedere in che modo una scrittura che non ha come termine di proiezione la letteratura, possa alla fine ritornarvi per altri giri.44

Si tratta di un caso estremo di collage, dato che questo testo non è in realtà che la trascrizione di un passo di Berkeley, tradotto dall'inglese e messo in versi. Se togliamo gli a capo, vengono fuori due o tre paragrafi di un'opera di Berkeley. [...] Direi che un'operazione del genere, volendo andare al maestro ultimo, si ricollega a Duchamp: è una forma di ready made particolare. Un testo che almeno alla sua origine non aveva alcuna intenzione di proporsi come oggetto dotato di un valore estetico, viene recuperato e presentato non solo come testo letterario, ma addirittura come testo poetico (un po' come quello che faceva Duchamp prendendo degli elementi del nostro quotidiano e ripresentandoli in un museo). Intendevo fare la stessa operazione: leggere come poesia un oggetto che non nasce come poesia. [...] nel tentativo di riedificare una nuova possibile forma di riflessione attraverso un oggetto che non si limita a rompere soltanto un sistema estetico, ma cerca anche di delinearne uno nuovo.45
Magrelli, in entrambe le occasioni, fa riferimento all'idea formale che soggiace alla poesia, cioè al concetto di riuso e reinterpretazione per la fondazione di un nuovo valore estetico. Ma il legame con il filosofo irlandese è più profondo e significativo del semplice pretesto sperimentale, e la stessa ammissione di Magrelli di aver fatto una semplice «trascrizione»46 risulta riduttiva e forse mistificatoria. Dietro al richiamo di Berkeley vi è molto dei temi della dialettica dell'io con sé stesso, dell'auto-percezione e dell'auto-rappresentazione: nodi della riflessione poetica della prima raccolta del poeta. La percezione come tramite gnoseologico, anzi, l'identificazione percezione-ragionamento di Ora serrata retinae è perfettamente rispondente alla filosofia dell'esse est percipi berkeleiana. È evidente, quindi, la non totale transitività dell'autocommento, che esibisce il riferimento extratestuale, ma glissa sulla sua rilevanza epistemologica. Un cenno di pudore? Forse; oppure, guardando più a fondo, quell'impossibilità di una transitività senza residui o reticenze su cui Secchieri tanto insiste: Malgrado l'intento dichiarativo che esteriormente lo contraddistingue, il commento [...] non restituisce integralmente (o si dica fedelmente) l'hic et nunc dell'esperienza che dovrebbe costituirne l'oggetto privilegiato: non è mai, pertanto, una fotografia attendibile ma un costrutto di (ri)-scrittura molto simile a un ritratto "a memoria", con tutte le deformazioni implicite in un'operazione siffatta. [...] A risultarne sarà, necessariamente, un altro testo, opera di quell'altro che parla dell'autore che è stato e non è più.47 Mi viene in mente un passo di un'intervista (per restare in zona epitestuale) in cui Magrelli, interrogato sulla sua «passione», dice: Forse, la scommessa consiste nel non dirla mai o dirla sempre di rimessa, di sponda, di riflesso. Questo, anche nel primo libro, resta l'atteggiamento che mi interessa di più. Dire e non dire. [...] Creare degli ostacoli, mettere una distanza.48 L'argomento, in verità, è la dialettica tra la ragione e la maniera della poesia; tuttavia l'atteggiamento «di rimessa, di sponda, di riflesso» è il medesimo che soggiace anche all'autocommento. Ciò a confermare, con Secchieri, che nulla di un poeta, neppure l'epitesto, è intelligibile nei termini di pura referenzialità. Un'ulteriore funzione che innerva l'autocommento di Magrelli, la più importante perché intimamente consonante con la sua poesia, è quella che definirei, muovendomi tra Prandi e Genette, come genetico-linguistica. Genette, come ricordato in apertura, ritiene che il commento genetico sia l'unico possibile per l'autore novecentesco, il quale si ritrova spesso nel ruolo di mero contestualizzatore della propria scrittura. Tuttavia in Magrelli questa spinta genetica non si risolve mai in un banale resoconto spazio-temporale dell'occasione poetica. Il poeta dà voce all'urgenza verbale che sottende la scrittura in versi, andando così al cuore, alla ragione prima della spinta poetica. La suggestione linguistica è infatti nella maggior parte dei casi eziologia della sua poesia: così commento genetico e metalinguistico si fondono, svelando una funzione capace di attraversare potentemente la poesia e la poetica di Magrelli. Ho scelto, nell'abbondante esemplificazione, gli episodi più significativi di autocommento riconducibili a questa funzione genetico-linguistica. Partirei da un caso che definirei plateale come introduzione alla rilevanza del fatto linguistico in Magrelli:
  γιγνομαι

Nascono fiori
Viene l'inverno
Si leva il vento
Così sia
Mi avvicino
Ho cenato
È possibile
Che ciò non avvenga
Sono di questo parere
La cosa
Va bene per qualcuno
Tornò in sé
Ne ho bisogno
Sotto la legge
Sul fare del giorno
Prima che fossero passati sei mesi
Accadde di trovare
Il numero che ne risulta
Venne loro il desiderio
Nascere
Il male cominciò a manifestarsi
Morire
Che sarà di me?
Divenire traditore
Divenire uno dei giudici
Divenire padrone di sé
Concepire speranza
Essere solo
Strada svolgentesi su per
Sparire dalla vista
(NV 142).
 
Non saprei se dichiararla sperimentale o meno. Veniva da un'esperienza, da una forma di rabbia. Per molti anni ho fatto il traduttore, perciò ricordo ancora le versioni che facevo in classe, dal greco. E questa poesia si intitola gignomai. L'ho pensata come una collana. Ogni verso è una cellula a sé, e corrisponde a una definizione che ho preso dal dizionario, per tradurre gignomai. Ognuno di questi versi presenta una possibile accezione del verbo, ovviamente in diverse situazioni. Ho voluto fare questo perché da una parte mi ha sempre irritato, dall'altra proprio impaurito, questa specie di esplosione centrifuga che mi trovavo davanti quando nelle traduzioni dovevo cercare gignomai. Ecco, gignomai significa tutte le cose che ho detto [...], quindi non significa praticamente niente. Corrisponde a un insieme, a un coacervo di sensi contrastanti. La mia idea è stata quella di unire tante parole tramite il lungo filo costituito dal verbo, un verbo inafferrabile, che oscilla dal nascere fino al morire, in una specie di allucinazione linguistica.49 Si tratta dell'eclatante messa in scena del gioco che il poeta realizza con l'uso della parola, che ama esplorare in ogni accezione. La poesia infatti nasce e si comprende solo alla luce della sua «allucinazione linguistica», in relazione alla quale Magrelli sviluppa «rabbia», paura («mi ha sempre [...] impaurito») ma anche quel senso sublime di attrazione estetica che il poeta prova per la lingua, in tutto il suo - a tratti disorientante - declinarsi. È evidente la sostanzialità del fatto linguistico; e dunque, di riflesso, quella dell'autocommento che nasce ai suoi margini. Si legga ora come, in occasione di un dialogo in una scuola, il poeta introduce una poesia di Nature e venature: Questa che vi leggerò ora è una poesia che gioca sulla parola salma: salma nel senso di cadavere, ma anche come misura di un appezzamento, come dire un ettaro. Nello stesso tempo è una riflessione sul paesaggio attraverso un ricordo. Molto spesso ricorro a una sovrapposizione di due piani: quello dell'esperienza e quello di una ricerca di una lettera. Mi interessa quando questi due livelli riescono ad intrecciarsi:
  Qui sto senza paesaggio,
pere, mele, stagioni, cielo, niente,
soltanto suppellettili, una campagna
fatta ad artificio. Ma già da piccolo
per gioco stendevo una coperta
nella stanza, sopra mucchi di carta,
ed era un panorama,
una salma di monti.
Di tutto ciò qualcosa resta,
adesso, che scrivo a letto,
che io faccio la terra.50
 
La rivelazione dell'uso della parola salma anche nel senso di 'unità di misura' - accezione non corrente, ma vocabolaristica - carica la glossa di un valore ermeneutico importante. Inoltre, nel suo commento Magrelli rivela quanto - «molto spesso» - la poesia nasca dalla «ricerca di una lettera»:
  Sant'Eustorgio

Ora non ricordo il nome della chiesa
ma so che dava su una distesa,
un prato rovinato, e sotto,
diramandosi fino sotto il prato,
stava la cripta. Diramandosi,
l'albero di Jeffe o l'ostensorio,
un mozzo sepolto, araldico,
radiante (se «radiante» è il punto
della volta celeste da cui sembrano
divergere le traiettorie tracciate
dagli sciami di stelle cadenti).
Sostavamo parlando accanto all'asse
di quella cripta, cripto-perno
di un organo rotante.
Perché questa è la città,
sciame di stelle cadenti,
alveare astronomico.
«Si dovrebbe sempre partire da qui»,
mi spiegava
(ET 283).
 
In questa poesia si parla di un incontro svoltosi in una chiesa milanese che aveva una cripta molto luminosa, con un perno radiante in mezzo. Tramite il dizionario, ho scoperto che questa parola indica il punto della volta celeste da cui sembrano divergere le traiettorie tracciate dagli sciami di stelle cadenti. Come in altre poesie del primo libro, ho fatto ricorso al collage, usando definizioni prese alla lettera dal dizionario. L'etimologia del termine "radiante" produce uno slittamento del senso, e ci proietta dalla terra al cielo. Mentre guardavo questo grande perno, pensavo al famoso Mulino di Amleto, un libro di Santillana sull'asse della terra e sui grandi miti fondanti. E così via...51 L'autocommento permette di penetrare nella caleidoscopia linguistica che è alla base della scrittura in versi: attorno e a partire dalle parole cripta e radiante si dipana l'allucinazione linguistica del poeta. Spesso sarà proprio «una lettera» a dettare tutta la poesia: Alcune parole le ho usate proprio perché restassero singole; "marea sizigiale", per esempio. Andavo in barca in quel periodo ed ero affascinato dal linguaggio tecnico, nautico. La "marea sizigiale" è un tipo di marea, però mi piaceva soprattutto come parola, c'era qualcosa di oscuro, mi ricordava l'Egitto. Una parola del genere è usata come una pietra, viene proprio incastonata in un testo.52
  Nel letto aggrovigliate
stanno le mie radici di carne,
solo la testa sporge
come una pianta dalla terra.
In questa esposizione alla notte
come in una marea sizigiale,
la luce si ritira e scopre
la nudità fertile dello spirito
(OSR 65).
 
Dall'affermazione di Magrelli emerge quanto lo slancio metaforico sia da interpretarsi anzitutto come un'urgenza verbale. È il trampolino del tuffo del poeta, non semplicemente l'appiglio al quale il poeta ricorre per sostenere un intento contenutistico, ideale: è la ragione prima della sua scrittura. Si legga anche il passo che segue: C'è una poesia che parla di logismografia; non è che la poesia venga "condita" da questa parola difficile, piuttosto è la parola che mi ha fatto venire in mente la poesia. La logismografia è una tecnica, una pratica che consiste nel numerare, nel separare un'architettura. È successo a Roma, in via della Conciliazione, è successo in Egitto per la diga di Assuan: un edificio viene segnato e fatto a pezzi, ogni singolo membro di ogni parte viene numerato, si smonta e si ricostruisce venti metri, venti chilometri più in là, perché deve passare una strada, un fiume. Mi domandavo che cosa succedeva con i pensieri che vengono prima di addormentarsi, quando siamo troppo stanchi per segnarli. Allora mi è venuta in mente la parola logismografia, pensando al nostro cervello come a un paesaggio, a un'altura. Sta arrivando l'acqua che si ingoierà tutto, e allora, in fretta e furia, mi dedico a questa operazione, smonto la casetta che sta per finire in fondo al lago e la trasferisco sulle alture del sonno, usando materiali smembrati per poi ricomporli. È la parola che dettava tutta la poesia, una parola che mi ha permesso di rappresentare ciò che pensavo in quel momento. Il sonno era visto come un allagamento sullo sfondo dell'Egitto, del fiume Nilo che deborda portando ricchezza.53 Magrelli parla di questa poesia, sempre di Ora serrata retinae:
  Per ogni riga un numero,
come secondo norme di logismografia.
Il pensiero calcola le sua membra
e le chiama per nome.
Io trasferisco sulle alture distanti
le figure di pietra
che l'acqua sta ricoprendo,
perché non si disperdano
sommersi i lineamenti
(OSR 85).
 
È proprio la parola «logismografia» a costituire la chiave musicale del componimento, che trova una corretta interpretazione solo in riferimento a questo tecnicismo. Ma, come afferma Magrelli, «non è che la poesia venga "condita" da questa parola difficile»: è la parola a dettare tutta la poesia. Mi pare chiaro quanto l'autocommento, in questa funzione genetico-linguistica, permetta di attraversare in profondità la scrittura in versi del poeta; esso si è infatti svelato come potente strumento critico, capace di rivelare il punto di partenza dell'occasione poetica, da cui il componimento sembra srotolarsi senza soluzione di continuità semantico-metaforica.
4. La transitività degli esempi riportati sembra, nella maggior parte dei casi, totale e quasi esaustiva rispetto all'esegesi del componimento. Tuttavia, come già ricordato, una referenzialità totale dell'epitesto non è confacente allo statuto stesso della poesia. Come interpretare quindi le forme e le funzionalità dell'autocommento magrelliano? Proverei a farlo partendo dai seguenti versi:
  Questo per dire quanto
resta di qua dalla pagina
e bussa e non può entrare,
e non deve. La scrittura
non è specchio, piuttosto
il vetro zigrinato delle docce,
dove il corpo si sgretola
e solo la sua ombra traspare
incerta ma reale.
E non si riconosce chi si lava
ma soltanto il suo gesto.
Perciò che importa
vedere dietro la filigrana,
se io sono il falsario
e solo la filigrana è il mio lavoro
(OSR 15).
 
Sulla linea di quanto sollecitato l'autocommento mi pare spiegabile come un sguardo indiretto, mediato. È la descrizione della gestualità di un corpo; il poeta non vuole riconoscere quel corpo né vuole farsene specchio: la parola è il vetro zigrinato delle docce, e il poeta è il falsario che riproduce la filigrana. Magrelli gioca coi concetti di realtà e falsificazione, creando una giostra alessandrina di sovrapposizioni a lui care: l'unica realtà della parola, della scrittura, è la falsificazione; perché si tratta sempre di una deformazione, di un gioco plastico (in modo analogo si può leggere l'interesse di Magrelli per la malattia, la miopia, il sonno: tutte anomalie del rapporto col reale). In uno dei molti esempi di autocommento, quello relativo alla poesia Siedo al cinema, in cura, votato di Nature e venature, dopo un spiegazione genetica, il poeta afferma: «Forse la storia è più bella della poesia».54 Al di là di un cenno di umiltà nei confronti della propria scrittura in versi, si percepisce bene l'esistenza di due piani del fatto poetico: quello orizzontale dell'occasionalità e quello - con le parole di un altro poeta, Fabio Pusterla - del «viaggio linguistico ed espressivo lungo il quale il dato di realtà viene elaborato, centrifugato, stravolto, estratto dalla piatta orizzontalità della prosa quotidiana e trasformato in esplorazione verticale, in roccia metamorfica».55 L'autocommento, soprattutto nelle ultime esemplificazioni esplorate, quelle inerenti a una funzionalità genetico-linguistica, sembra essere dunque un primo gradino verso la discesa verticale del vortice espressivo della poesia. Magrelli prende per mano il lettore e gli indica il «gesto» del corpo che sta dietro a un «vetro zigrinato». Ma è un vetro che non viene spostato: molto «resta di qua dalla pagina / e bussa e non può entrare, / e non deve». Perché poi il viaggio della lettura sarà in solitaria e il lettore «dovrà arrangiarsi da solo, facendosi carico di un itinerario interpretativo dal quale l'autore può anche risultare escluso».56
5. Se fino ad ora ho analizzato occasioni epitestuali pubbliche di regime mediatizzato, pur nelle sfumature di una maggiore o minore interlocuzione, resta da osservare quello che corrisponde esattamente alla definizione di 'autocommento' nella tipologia genettiana. Di regime autonomo e tardivo è infatti sicuramente una delle più recenti pubblicazioni di Magrelli, La vicevita, un volumetto di prose che raccoglie una serie di riflessioni attorno a treni e viaggi in treno, come specificato dal sottotitolo. Diversi sono i richiami interni all'opera dello stesso poeta: Magrelli infatti ripropone e si sofferma su quei suoi componimenti, anche remoti, che in qualche misura sono legati al viaggio in treno. Interessante un dato di natura peristestuale, per rimanere sempre intorno alle genettiane soglie del testo. Di questi richiami intertestuali ne La vicevita non vi è citazione della corrispondenza specifica nell'opera del poeta. Magrelli semplicemente ripropone, intrecciandoli al fil rouge del viaggio in treno, alcuni suoi versi, decontestualizzandoli rispetto alla loro originaria provenienza. Solo alla fine del testo, nella pagina antistante il colophon, vi è una Nota dove l'editore, non il poeta, afferma che nel volume alcuni «passi provengono [...] da Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (p. 35), Esercizi di tiptologia (pp. 10, 16, 42 e 98-99), Didascalie per la lettura di un giornale (pp. 48 e 51)»,57 con riferimento alla pagina di citazione degli stessi nel volumetto di prose. Su questa forma di epitestualità grava - di statuto - certamente un'intenzionalità molto più alta a confronto di quella mediatizzata: l'ambiguità rispetto a una mera didascalicità è indubbia. Siamo di fronte a un «altro testo»,58 con le sue istanze e reticenze; ed è interessante individuare e percorrere le scelte letterarie e retoriche osservabili in controluce a questa romanzata forma di autocommento. Se per le forme mediatizzate si può parlare di orizzontalità e verticalità, in questo caso siamo di fronte a due verticalità diverse: una poetica e una prosastica. Vediamo qualche esempio, alla ricerca della forte intenzionalità del Magrelli commentatore tardivo. Magrelli riporta la prima poesia, da Ora serrata retinae, nella quale ricorda di aver evocato un treno:
  A quest'ora l'occhio
rientra in se stesso.
Il corpo vorrebbe chiudersi nel cervello
per dormire.
Tutte le membra rincasano:
è tardi. E queste due ragazze
sul sedile del treno
s'inclinano col sonno nella testa
stordite dal riposo.
Sono animali al pascolo.
 
Erano davvero curiose, le due studentesse che tornavano a casa la sera, su un regionale, sedute davanti a me in un vecchio scompartimento. Mi aveva colpito la loro stanchezza. Oscillavano letteralmente, cozzavano fra loro, e vennero ghermite dal sonno proprio sotto i miei occhi. D'altronde, si capisce: quel vibrare, quel dolce franare molecolare cui il treno sottopone il nostro organismo, quello smottamento interiore, quell'incessante tremore di un mondo lanciato sui binari, non è forse la più compiuta rappresentazione della culla? Caddero una sull'altra e lì restarono, riverse, ansando, quasi brucassero il cibo del riposo. Lo sguardo era scomparso al calare delle palpebre, ma anche se le avessi sollevate, avrei trovato solo la vacuità che traluce dall'occhio della bestia. Erano concentrate su se stesse, ma insieme assenti, serie, serene e severe, intente a dormire con la stessa determinazione con cui si prepara un esame.59 Il poeta racconta l'occasione che è alla base del componimento: il viaggio serale su un regionale e due ragazze, sedute di fronte a lui, con le teste ciondolanti dal sonno. Magrelli svela il dipanarsi del pensiero metaforico: la trasformazione delle due ragazze addormentate in animali al pascolo; la conversione del «riposo» in «cibo», cibo che i due soggetti non mangiano ma brucano, come bestie, animali al pascolo. È tuttavia evidente la tramatura retorico-stilistica: l'abbandono del corpo al sonno è un «dolce franare molecolare»; lo spostamento metaforico agisce anche in prosa: il riposo è trasformato in cibo tramite un semplice uso genitivo-preposizionale («il cibo del riposo»), come tipico della costruzione metaforica nella scrittura in versi; si noti inoltre l'andamento allitterante e paronomastico della descrizione delle due ragazze: «Erano concentrate su se stesse, ma insieme assenti, serie, serene e severe». Il caso che segue testimonia bene il piacere del racconto dell'occasione poetica. La poesia in oggetto è della sezione L'imballatore di Esercizi di tiptologia e si intitola Da «Contre la traduction, élégie» di Guillaume Colletet: Saranno stati sei mesi, che era stato fissato il convegno a Trieste, eppure non avevo ancora preparato niente. Uno dice domani, domani, e invece riesce solo a rimandare. Così mi ritrovai nel bel mezzo del viaggio, senza aver scritto nemmeno una riga di intervento. Vero è che sul treno, molto spesso, lavoro. Pensai di farlo anche quella volta, tanto più che mi ero portato dietro un magnifico reperto poetico. Si trattava dell'elegia di un traduttore francese del Seicento, Guillaume Colletet, intitolata Discorso contro la traduzione. Ne avevo ritagliato un frammento, e adesso disponevo di tutto il tempo necessario per tradurlo, in doppi settenari a rima baciata. Il compito era semplice e divertente, ma fu soltanto allora che mia accorsi di non avere con me né un dizionario dei sinonimi, né un rimario. [...]. Mentre temevo già di dover lasciar perdere, vedendomi svanire sotto gli occhi un progetto tanto allettante, mi ritrovai cullato dal rimbombo del treno, in una scansione indimenticabile, inesorabile, inconfondibile: ta-tàm / ta-tàm // ta-tàm / ta-tàm. Era lei e mi chiamava, anzi era lui, era il Giambo, quell'ossessiva sequenza di breve-lunga che va dalla poesia greca fino a Shakespeare, passando per la Divina Commedia: «Nel-mè / zzo-dèl / ca-mmìn / di-nò / stra-vì [ta]». Rullavano i miei giambi ferroviari, e come avrei potuto lasciarli andare? Cosa c'era di meglio che tradurre, stando dentro un metronomo? Così, facendo a meno di ogni libro, mi abbandonai a quella possente ipnosi ritmica, e composi la mia versione italiana come un invasato, come un posseduto. Di solito si va in trance per una poesia; a me successe per una traduzione.60 È notevole la personificazione del metro giambico e il catapultamento del poeta in un metronomo viaggiante qual è diventato il treno nella suggestione di Magrelli: l'occasione squisitamente genetica è così piegata al piacere e alle istanze del racconto. Ne La vicevita Magrelli giunge addirittura a scardinare un'intera struttura poetica complessa e stratificata. Si tratta di una poesia di Esercizi di tiptologia, cui faccio seguire il passo de La vicevita che la commenta:
  Treno-cometa
Treno-cometa
fiammifero stregato, ferro
sfregato contro le rotaie,
freno tirato e attrito,
treno-freno che strazia
e stride nella notte.
Venivo avanti con le ruote bloccate
le vertebre contratte
le parole-trattino
e dal mio sforzo veniva
un calore e un colore
e un odore di carne strinata:
scintille, una pioggia di lingue
focaie nella notte.
Ah vagoni frenati, ah parole-trattino
io fricativo, ritratto dell'attrito
(ET 286).
 
Questa poesia, la sola che ho dedicato per intero al treno, ha una storia piuttosto complicata. Tutto nasce dal sovrapporsi di quattro visioni estremamente diverse fra loro: la prima è clinica (riferita al cosiddetto "colpo della strega"), la seconda, aneddotica (l'incidente capitato a un amico), la terza, storica (il resoconto di uno scontro fra Annibale e l'esercito romano), la quarta, mitologica (relativa alle avventure di Ercole). Provo a ricostruire brevemente. L'accostamento di partenza è quasi immediato: il treno in fiamme visto come la schiena di un uomo sofferente. L'immagine di un incendio ferroviario, di cui parla la poesia, prende cioè la forma di un'infiammazione spinale, nella quale le vertebre sono appunto descritte alla stregua di vagoni bloccati dal dolore. La colonna dorsale apparirà così come un convoglio rovente che attraversa il corpo del malato: la schiena, come una campagna, solcata da un treno che semina ovunque scintille di dolore. Da parte loro, le parole dei versi comporranno sulla pagina una sorta di trenino, specie laddove figurano, ad unirle, i trattini, quasi fossero i respingenti dei vagoni. Lo spunto successivo, più esplicito, viene invece spiegato nella citazione che precede i versi [...]: "fasci di scintille" schizzano dalle ruote di un vagone, rimaste inceppate per un qualche guasto, e danno fuoco alle terre confinanti. Ascoltando il racconto dell'incidente, mi è venuto spontaneo immaginare che il convoglio, scendendo dal nord, attraversasse tutta la penisola come un fiammifero magico, sfregato lungo una superficie scabra. L'Italia, scatoletta di cerini, e il treno che l'accende tutta, da cima a fondo. [...] E siamo al terzo punto: accanto a questa notizia, si staglia un ricordo storico, da antico sussidiario delle scuole medie. Dopo la battaglie di Canne, qualcuno (forse Cornelio Nepote) racconta che Annibale si reca nell'Agro Falerno, dove si accampa. Il suo nemico, Quinto Fabio Massimo, coglie il momento propizio e riesce ad accerchiarlo, ma il comandante cartaginese escogita un trucco memorabile. Calata la notte, legate delle fascine alle corna di ben duemila (duemila?) buoi, fa incendiare quelle torce viventi e le spinge, terrorizzate, contro i nemici. [...] Infiammazioni nervose, incendi ferroviari, bovini arsi vivi: fin qui l'associazione d'idee è ancora abbastanza lineare. Ma ecco la quarta e ultima suggestione, derivata da un saggio di Jurgis Baltrušaitis, La ricerca di Iside: «Dionigi di Alicarnasso narra che quando Ercole traversò l'Italia con i buoi di Gerione, un vitello si allontanò dalla mandria fuggendo fino alle coste della Sicilia. Tutte le regioni traversate dal vitulus presero il nome di Vitulia, che perse la v e divenne Italia». [...] Ricapitolando: l'Italia come la terra su cui è passato un vitello smarrito, terra che da quell'animale prende il nome; buoi con le corna in fiamme che fuggono via; treni con i vagoni bruciati che incendiano la penisola; un attacco di discopatia che appicca il fuoco alla schiena di un paziente. Il risultato di questa catena di equazioni ci dice quindi: l'Italia-Vitellia come un corpo malato percorso da fitte acutissime. Di tutto ciò dibattono quei versi. A forza di procedere con i freni tirati, il testo e le sue parole-trattino hanno preso fuoco. Finché da ultimo, come fosse nei titoli di coda, l'io stesso si rivela "fricativo", prodotto dello sforzo che risulta dal semi-anagramma fra "ritratto" e "attrito". La sofferenza è la pietra molare su cui affilare la nostra identità.61 Magrelli sviscera e decostruisce la struttura tutta del componimento, per rivelarlo in ogni sua parte, in ogni immagine traslata venuta a nutrire la sua immaginazione. Tale autocommento non nasce come genetico, né vuole essere scambiato per tale: Magrelli non contestualizza spazialmente o temporalmente la scrittura del componimento. Non esiste alcun resoconto, bensì il racconto del dipanarsi di una suggestione. La dialettica tra autocommento e poesia non è risolvibile nel rapporto tra l'orizzontalità e la verticalità di cui parla Pusterla, e a cui sono riconducibili le forme epitestuali mediatizzate di cui si è già parlato. Ora sia la prosa sia i versi sono forme di «esplorazione verticale».62 E così davvero la storia può forse essere, se non più bella, certamente bella come la poesia: un altro mirabolante viaggio linguistico ed espressivo.

S. C.




Appendice

 
appendice
Figura 1





Note

1 C. Baudelaire, Progetto di prefazione per 'Les Fleurs du mal', in Id., Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, introduzione di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1453-55, alle pp. 1453-54.torna su
2 S. Prandi, Problemi dell'autocommento novecentesco, in L'autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana. Studi e testi di letteratura e linguistica, a cura di M. Gezzi e T. Stein, Pisa, Pacini, 2010, pp. 5-25.torna su
3 G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, cura e trad. di C. M. Cederna (Seuils, Paris, Seuil, 1987), Torino, Einaudi, 1989, p. 360.torna su
4 E. Testa, Dal nominativo al dativo. Poesia e autocommenti novecenteschi, in L'autocommento, Atti della Giornata di studi, Genova, 16 maggio 2002, a cura di M. Berisso, S. Morando, P. Zublena, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2004, pp. 47-58, a p. 54.torna su
5 E. Montale, L'opera in versi, a cura di R. Bettarini, G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 962.torna su
6 Genette, Soglie, cit., p. 360.torna su
7 Cfr. E. Montale, Due sciacalli al guinzaglio, in Id., Sulla Poesia, a cura di G. Zampa, pp. 84-87.torna su
8 F. Secchieri, Luoghi e modi dell'autocommento, in L'autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana cit., pp. 91-105, a p. 94.torna su
9 Prandi, Problemi dell'autocommento novecentesco cit., p. 25.torna su
10 Genette, Soglie cit., p. 7.torna su
11 Cfr. ivi, pp. 337-64.torna su
12 Ivi, pp. 363-64.torna su
13 R. Zucco, Commento e autocommento: esperienze editoriali, in L'autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana cit., pp. 107-22, alle pp. 118-19.torna su
14 Valerio Magrelli il 18 settembre 2009 è intervenuto nell'edizione 2009 della Festa del Libro e dell'Autore di Pordenonelegge, per la serie di incontri intitolata Mappa dei sentimenti: occasione a cui ero presente.torna su
15 V. Magrelli, L'enigmista e l'invasato, in Seminario sulla poesia, a cura di F. Nasi, L. Vetri, Ravenna, Essegi, 1991, pp. 121-46, alle pp. 125-26.torna su
16 Abbrevio, nella citazione delle poesie, in DLG e rimando alla pagina di comparizione delle stesse, in riferimento a V. Magrelli, Didascalie per la lettura di un giornale, Torino, Einaudi, 1999. Lo stesso principio vale per Ora serrata retinae, Nature e venature ed Esercizi di tiptologia, abbreviati rispettivamente in OSR, NV ed ET; il riferimento è a V. Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie, Torino, Einaudi, 1996.torna su
17 V. Magrelli, Che cos'è la poesia? La poesia raccontata ai ragazzi in ventuno voci, Roma, Sossella, 2001, pp. 6-7.torna su
18 Ivi, pp. 13-14.torna su
19 Magrelli, L'enigmista e l'invasato cit., p. 135.torna su
20 Id.,Cantare il mondo: la poesia, su http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=178. Cfr. anche O. Mandel'štam, Conversazione su Dante, a cura di R. Faccani, Genova, Il Melangolo, 1994, p. 149: «il commento (esplicativo) è parte integrante, strutturale della Commedia. La nave-portento è uscita dal cantiere con piccole conchiglie già appiccicate alla carena».torna su
21 Valerio Magrelli, in I. Vincentini, Colloqui sulla poesia. Le ultime tendenze, Torino, Nuova ERI, 1991, pp. 125-31, alle pp. 128-29.torna su
22 G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 166-67.torna su
23 Zucco, Commento e autocommento cit., p. 108.torna su
24 Mazzoni, Sulla poesia moderna cit., pp. 166-67.torna su
25 C. Segre, Per una definizione del commento ai testi, in Id., Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993, pp. 263-73, a p. 264.torna su
26 Magrelli, L'enigmista e l'invasato cit., p. 126.torna su
27 Cfr. Genette, Soglie cit., p. 345.torna su
28 Prandi, Problemi dell'autocommento novecentesco cit., p. 21.torna su
29 V. Magrelli, Su 'Ora serrata retinae' e altra poesia, Incontro del 15 marzo 1989, in Preparar parole. Conversazioni sulla poesia, Firenze, Liceo scientifico Leonardo Da Vinci, 1992, pp. 9-23, a p. 23.torna su
30 Id., Scrittura e percezione: appunti per un itinerario poetico, in «Il Verri», 1-2, 1990, pp. 185-202, a p. 201.torna su
31 Id., Su 'Ora serrata retinae' e altra poesia cit., p. 19.torna su
32 T. Lisa, Scritture del riconoscimento. Su 'Ora serrata retinae' di Valerio Magrelli, Roma, Bulzoni, 2004, p. 29. Lisa, in didascalia all'immagine, scrive: «Valerio Magrelli, "Una poesia teologica" (autografo - quaderno ottavo)».torna su
33 Prandi, Problemi dell'autocommento novecentesco cit., p. 19.torna su
34 Ivi, p. 21.torna su
35 Testa, Dal nominativo al dativo cit., p. 55.torna su
36 Magrelli, L'enigmista e l'invasato cit., pp. 128-29.torna su
37 Ivi, p. 123.torna su
38 Ibid.torna su
39 Cfr. Testa, Dal nominativo al dativo cit., pp. 54-55.torna su
40 Magrelli, L'enigmista e l'invasato cit., p. 124.torna su
41 Cfr. Id., Su 'Ora serrata retinae' e altra poesia cit., pp. 20-21: «Io sono stato in una scuola aberrante. Era una specie di paese di Lucignolo. Si chiamava Liceo sperimentale. [...] per me la tradizione è la trasgressione. Da tredici anni fino a diciotto anni non ho studiato che frammentazione, sperimentazione linguistica, astrattismo. Così, la scoperta di Gozzano e Morandi mi ha dato gli stessi brividi che a un lettore dell'Ottocento l'incontro con Joyce. Sono vissuto tra i cocci, per cui nulla è stato più impressionante che vedere una forma sana, intera. Di solito è il contrario, si vive dentro una tradizione e si ha voglia di sfasciare tutto. Io sono vissuto tra le macerie, per cui il mio più grande desiderio è stato quello di mettere insieme qualcosa».torna su
42 Id., L'enigmista e l'invasato cit., p. 138.torna su
43 Ibid.torna su
44 Id., Scrittura e percezione: appunti per un itinerario poetico cit., p. 193.torna su
45 Id., L'enigmista e l'invasato cit., p. 144.torna su
46 Genette parla di versificazione. Cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. di R. Novità (Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, 1982), Torino, Einaudi, 1997, p. 253.torna su
47 Secchieri, Luoghi e modi dell'autocommento cit., p. 96.torna su
48 Id., Scrittura e percezione: appunti per un itinerario poetico cit., p. 200.torna su
49 Id., Su 'Ora serrata retinae' e altra poesia cit., pp. 12-13.torna su
50 Id., Scrittura e percezione: appunti per un itinerario poetico cit., p. 195.torna su
51 Id., L'enigmista e l'invasato cit., p. 142.torna su
52 Id., Su 'Ora serrata retinae' e altra poesia cit., pp. 21-22.torna su
53 Ivi, p. 22.torna su
54 Magrelli, L'enigmista e l'invasato cit., p. 140.torna su
55 F. Pusterla, Dal nulla al troppo. I rischi del dire e quelli del tacere, in L'autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana cit., pp. 123-32, a p. 126.torna su
56 Ivi, p. 132.torna su
57 V. Magrelli. La vicevita. Treni e viaggi in treno, Bari, Laterza, 2009.torna su
58 Secchieri, Luoghi e modi dell'autocommento cit., p. 95.torna su
59 Magrelli. La vicevita cit., p. 35.torna su
60 Ivi, pp. 42-44.torna su
61 Ivi, pp. 99-102.torna su
62 Pusterla, Dal nulla al troppo. I rischi del dire e quelli del tacere cit., p. 126.torna su