6, 2012
 
Saggi    
 
Abstract


Franco Pierno

Il modello linguistico decameroniano nel pensiero dell’umanista Antonio Brucioli.
Un’analisi di peritesti*



1. Introduzione
Circa vent’anni fa, Paolo Trovato, in uno studio che avrebbe contribuito a rinnovare l’approccio metodologico della cinquecentesca questione della lingua italiana,1 si chiedeva (e chiedeva ai suoi lettori): «Cosa possono insegnarci, in concreto, le Prefazioni?».2 Trovato, attraverso un’acuta analisi delle prefazioni di testi appartenenti a una letteratura cosiddetta ‘minore’ (bibbie, trattati poco celebri, libri mercantili, ecc.), metteva in evidenza la fragilità delle acquisizioni teoriche classiche, sottolineando la necessità di uno sguardo storico-linguistico che tenesse (e tenga) conto dei «piani più bassi della società».3 Lo studio della percezione delle discussioni linguistiche da parte di un pubblico di medio-basso livello (lettore, fruitore, talvolta autore di questi testi minori), infatti, non solo rivelerebbe i modi di ricezione delle posizioni eminenti (Bembo e Castiglione, e forse anche Trissino e Machiavelli), ma potrebbe anche spiegare la vittoria dell’opzione tosco-fiorentina ai danni delle aspirazioni cortegiane senza ricorrere necessariamente allo stereotipo dello schiacciante successo bembiano.4
Quanto poi alla scelta delle prefazioni come oggetto di studio, essa è implicitamente giustificata dai risultati ottenuti negli ultimi decenni dalle ricerche di tipo semiologico. Queste ultime hanno innanzitutto messo in rilievo come, in seguito alla grande rivoluzione mediatica provocata dall’invenzione della stampa, il cambiamento radicale della tecnologia del comunicare (dal manoscritto al libro-oggetto in serie) abbia comportato anche un ripensamento delle strutture retoriche interne al testo e, di conseguenza, una ridiscussione delle istanze della comunicazione letteraria e della loro rappresentazione testuale.5 I «simulacri della comunicazione installati nel testo»,6 che sono alla base del cosiddetto «patto di lettura»,7 hanno un loro luogo privilegiato nel «peritesto», ossia in quel «messaggio riguardante il contenuto nello stesso suo spazio e da questo in qualche modo delimitato»;8 in esso il «patto di lettura» si definisce in maniera preliminare ma fondamentale. Man mano che la tecnologia editoriale progrediva e affinava i suoi metodi, l’apparato peritestuale affrontava delle conseguenti trasformazioni, fino ad assumere caratteri interessanti già durante la prima metà del Cinquecento, quando la riconfigurazione del comunicare poteva incrociare i temi scottanti della questione linguistica e della discussione religiosa.9 Su questa scia metodologica, nelle pagine che seguono, si vorrebbe dunque prendere in esame il rapporto dell’umanista fiorentino Antonio Brucioli10 con la lingua volgare, alla luce di alcuni suoi peritesti (dedicatorie, introduzioni, commenti e apparati ‘accessori’ per la lettura, ecc.). Questo rapporto è valutato soprattutto in prospettiva boccacciana, ossia tende a mettere in evidenza il ruolo esercitato in esso, in maniera diretta o indiretta, dal modello linguistico costituito dal Decameron. I risultati di questa analisi, pur nella loro frammentarietà, potrebbero risultare interessanti in quanto rivelatori non solo delle posizioni in materia di lingua di Brucioli stesso, ma anche delle «idee-forza»11 comunemente percepite e condivise da un pubblico non letterato, quella massa di lettori lontana dai salotti letterari e non avvezza alle opinioni bembiane, cortegiane o trissiniane. Si vorrebbero appunto individuare, se possibile, gli elementi fondanti di un patto di lettura tra lo scrittore e il suo pubblico. Del resto, i peritesti in questione sono il corredo di opere di larga diffusione o concepite per essere tali (basti pensare alle traduzioni bibliche e alle edizioni letterarie destinate a un ampio smercio, soprattutto quelle di Boccaccio per quello che qui c’interessa). Nel nostro caso specifico si tratterebbe dunque di capire se la concezione del modello linguistico boccacciano da parte di Brucioli possa rivelare ulteriori implicazioni e sottolineare altre priorità rispetto all’interpretazione classicheggiante di tipo elevato, in parte influenzata da Bembo (ma debitrice anche del successo della grammatica, più volte ristampata, di Fortunio),12 secondo la quale l’autore di Certaldo costituiva un modello grammaticale e sintattico imprescindibile per la prosa letteraria in lingua volgare. Per far questo, dopo una veloce presentazione dell’autore, si prenderanno in considerazione prefazione e glossario dell’edizione decameroniana realizzata da Brucioli, cercando di metterne in luce l’opinione linguistica soggiacente. Tale operazione sarà completata dall’analisi del ruolo assunto dalla lingua nella riflessione peritestuale di Brucioli sull’esercizio della traduzione. Quest’ultimo passaggio assume un valore emblematico se si tiene conto dell’incessante attività del Brucioli traduttore (bibbie, autori greci e latini, ecc.),13 e costituirà una chiave di lettura necessaria delle posizioni linguistiche emerse da prefazioni e apparati del testo boccacciano.
2. Antonio Brucioli, un fiorentino «operaio della penna»14
Brucioli, come vedremo, può essere considerato l’emblema di quella categoria di umanisti di medio-bassa fortuna costretti, molto spesso, a trasformarsi in divulgatori e stampatori per sbarcare il lunario.15
Traduttore, saggista, filosofo, esegeta, insomma poligrafo, Antonio Brucioli, di origine fiorentina, era in gioventù un frequentatore degli Orti Oricellari. Fu poi coinvolto (soprattutto per i suoi legami con Luigi Alamanni) nel complotto antimediceo del 1522 e, di conseguenza, costretto una prima volta all’esilio in Francia. Al rientro a Firenze nel 1527 seguirà un secondo espatrio forzato nel 1529, a Venezia, per via delle simpatie dimostrate nei confronti delle idee luterane che cominciavano a circolare anche nella penisola. Brucioli, grazie alla frequentazioni degli Orti, doveva aver tratto profitto dalle lezioni del Machiavelli;16 nei suoi Dialogi17 (che, a giudizio di Carlo Dionisotti rappresentano «il solo importante documento di prosa fiorentina nell’età di Machiavelli»18) emergono inoltre, seppure nella finzione, i rapporti intessuti con il Tolomei e altri letterati di calibro.19 Tuttavia, qualsiasi sia stato lo spessore della sua riflessione intellettuale e letteraria,20 Brucioli non era immune dai compromessi imposti dalla produzione libraria di larga circolazione, divenendo lui stesso, come detto sopra, uno stampatore dall’attività frenetica in una Venezia che pullulava di tipografie fin dalla seconda metà del Quattrocento, e combattendo contro la precarietà fino ai suoi ultimi giorni.
3. L’edizione del Decameron del 1538 e la lingua volgare come mezzo educativo ed edificante
Agli occhi di Antonio Brucioli, Boccaccio non rappresentava solo un sublime modello letterario, ma anche e soprattutto una garanzia economica nel duro mondo del commercio editoriale del primo Cinquecento. Alla fine degli anni Trenta, decennio cominciato con la pubblicazione di un altro best-seller come la traduzione in lingua toscana dei libri sacri, Brucioli si dedica dunque al monumento della prosa trecentesca fiorentina e, nel 1538, presso l’editore veneziano Giolito, dà alle stampe un’edizione del Decameron.21
Il volume è corredato di brevi annotazioni lessicali che, come spiega Brucioli stesso nella lettera dedicatoria, sono destinate a coloro «che Toscani non sono»: Et essendo da molti, che Toscani non sono, letto con gran desiderio di intenderlo, il presente autore per impararne la forza di essa lingua, molte parole, et molti verbi et modi del suo dire, propij e particulari Fiorentini a utilità di quegli che Toscani non sono et così bene non hanno cognitione, ho dichiarati veggendo quegli essere incogniti alle altri parti della Italia. L’operazione lessicografica di Brucioli non mostra intenzioni di tipo storico-linguistico, semmai ha le movenze pedagogiche di un dizionario culturale, concepito per l’apprendimento di vocaboli tosco-fiorentini della vita quotidiana.22 I termini decameroniani prescelti appaiono come appartenenti all’uso corrente e i verbi delle definizioni attribuite al significante sono sempre al tempo presente;23 inoltre, essi sono spesso accompagnati dal corrispondente geosinonimico «lombardo», come se l’attenzione dell’editore fosse soprattutto rivolta al pubblico italiano settentrionale,24 un pubblico da educare attraverso le parole di Boccaccio.25 I lettori non-toscani potevano dunque conoscere il significato esatto di alcuni termini (tosco-) fiorentini ma, come detto nella dedicatoria, anche (e innanzitutto) «la forza di essa lingua». Il sostantivo «forza», come vedremo, allude al potere retorico della prosa decameroniana e mostra che l’intento di Brucioli non è puramente lessicale, ma s’inserisce in un’interpretazione del testo trecentesco più ampia di quella strettamente linguistica. La lingua del Boccaccio non è dunque affrontata con la distanza museale delle Prose del Bembo, testo di cui Brucioli doveva, verso la fine degli anni Trenta, ormai aver preso conoscenza. L’operazione bembesca (dipanatasi tra Asolani, Prose e Rime) contrae e monumentalizza l’innovativa offerta stilistica e sintattica del Boccaccio decameroniano, limitandosi a una lezione di lingua. Brucioli, invece, ne abbraccia, constatandone al tempo stesso l’attualità, l’intera forza retorica, della quale non solo ammira la tenuta stilistica, ma anche l’utilità civile. Scrive infatti nella dedicatoria presente nella stessa edizione del 1538 e indirizzata ad Alvisia Gonzaga: Quanta forza habbia sempre avuto la virtù del bene dire? […] se non che il vigore delle persuasioni bene dichiarate et dette hanno già havuto forza di comporre gli animi rozzi et efferati et con la dolcezza delle accomodate parole, tirargli alla civilità, onde dipoi ne sieno state edificate le città et poste le leggi et ridotti gli humani alla moderatione. E se alcuno autore è nella nostra lingua che con lo ornato scrivere sciolto possa insegnare questo, è il presente libro di Messer Giovanni Boccaccio quel desso, et veramente il principale. […] nel toscano, nel quale propriamente ha scritto il presente nostro autore, come esso medesimo confessa, dicendo di aver scritto in Fiorentino vulgare. La retorica, intesa come guida per gli uomini nella loro realizzazione sociale, non costituisce certo un punto di vista innovativo: la stessa prosa ciceroniana aveva acquistato, nella tradizione umanista, una pregnanza etica e morale, basti pensare all’umanesimo civile di Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini e Coluccio Salutati. Inoltre, l’idea di una civiltà fondata sul «fiorentino vulgare», lingua, da una parte appoggiata al versante letterario dei modelli trecenteschi e, dall’altra, lingua viva intesa dai più e lontana dalla regolamentazione grammaticale bembiana, è sicuramente riconducibile all’influenza esercitata su Brucioli da Machiavelli. Tuttavia, allargando l’analisi ad altri testi brucioliani, l’azione civile della lingua boccacciana sembra collocarsi in una personale e più ampia evoluzione del pensiero politico-culturale dell’umanista fiorentino, la quale, nel 1538, l’anno della pubblicazione dell’edizione del Decameron, era giunta alla sua piena maturità. Tale cambiamento, come mostra ottimamente Giuliano Procacci,26 è in gran parte palpabile nelle modifiche che Brucioli apporta in vista della riedizione dei suoi Dialogi, pubblicati per la prima volta nel 1526 e ristampati proprio nel 1538. Lo studioso intravvede uno sforzo riflessivo supplementare a riguardo delle possibilità concrete della tanto desiderata «repubblica dei mediocri», sforzo accompagnato da un continuo confronto con le parole del suo maestro, Machiavelli, la cui lezione è attinta dai Discorsi. L’astrattezza e l’idealità di certe proposte sembrano cedere il passo a considerazioni più lucide e, talvolta, pessimistiche.27 Nella ristampa del ’38 (e ancora in quella del ’44), tuttavia, Procacci non nota cambiamenti per quel che riguarda gli ordinamenti interni della «repubblica dei mediocri», la cui classe dirigente, secondo la teoria brucioliana, non doveva contare fra i suoi ranghi membri provenienti dai ceti le cui attività hanno puro scopo di lucro, vale a dire i contadini, i mercanti e gli «artefici».28 In questa visione politico-sociale, il bersaglio della critica è rappresentato soprattutto dal mestiere del mercante che nei diversi Dialogi (tanto nella versione del 1526 che in quelle seguenti) è ritratto con descrizioni poco lusinghiere.29 Tuttavia, nel glossarietto decameroniano, contemporaneo alla riedizione dei Dialogi, Brucioli sembra riconsiderare la figura del mercante; basti vedere lo spazio concesso alla spiegazione della parola «mercatante» e del verbo correlato, «mercatare»: [mercatare] è fare mercato, e pregio delle mercantie, l’uno mercatante con l’altro, mercatante si dice quegli che vanno per il mondo esercitando la mercatura, dicendosi il tale va mercatando ne’ tali e tali paesi. Nella stampa del Giolito questa «annotatione» consta di quattro righe, contro un massimo di due, riservato in genere agli altri termini.30 L’impressione che la figura del mercante sia, in un certo senso, rivalutata a partire dagli anni Trenta, gli anni che segnano l’inizio dell’esperienza veneziana, sembra rafforzata dall’iconografia che accompagna la pubblicazione della traduzione biblica del 1532. Infatti, nel frontespizio, opera del celebre artista Lorenzo Lotto, compaiono nove riquadri silografici prospettici; i due in basso, sotto il titolo e la didascalia, raffigurano, rispettivamente, Mosè che riceve la Legge (a sinistra) e san Paolo che predica al popolo nell’Areopago (a destra): nel secondo, la predicazione dell’apostolo è rivolta a un pubblico formato da personaggi raffigurati secondo canoni contemporanei, fra i quali spiccano alcuni che, con mantello, cappello ed elegante foggia dell’abito, richiamano in maniera evidente l’abbigliamento dei mercanti benestanti.31 Vedremo più avanti che a questi esempi di velata ammirazione se ne aggiungeranno altri, leggermente più espliciti, nelle dichiarazioni fatte nella dedicatoria della traduzione biblica. Ma come spiegare questo doppio, quasi ‘schizofrenico’, atteggiamento brucioliano nei confronti della «mercatura»? La spiegazione più adatta dovrebbe risiedere nell’attenzione per la diversità dei vari pubblici che Brucioli voleva raggiungere attraverso le sue opere, un’attenzione per il sistema culturale d’arrivo. I Dialogi nascevano dagli anni delle discussioni negli Orti Oricellari e, tutto sommato, intendevano ‘dialogare’ con gli intellettuali di quell’epoca e di quei luoghi. I testi in cui il «mercante» gode di un discreto trattamento sono invece quelli presumibilmente destinati ai mercanti stessi, a quel pubblico di lettori non litterati, ma protagonisti reali del tessuto sociale cittadino, a dispetto di tutte le teorie politiche.
L’esaltazione della lingua del Decameron sembra dunque coincidere con una messa in evidenza dei valori della vita activa del mercante. E il nuovo progetto civile ha bisogno di un fondamento linguistico-retorico che solo il fiorentino promosso da Boccaccio può assicurare, in opposizione al potere ecclesiastico e principesco. Anche il luogo si presta a quest’azione: Venezia, come ha avuto modo di osservare Christian Bec, è la nuova Firenze; la città lagunare garantisce il mantenimento dell’ideologia civile e della cultura umanistica, al riparo sia dalle minacce del potere principesco, che si era ormai affermato a Firenze con i Medici, sia dalle grinfie del potere ecclesiastico, di cui Brucioli aveva fatto le spese in prima persona.32 Tuttavia, l’impegno sociale assunto per il tramite della lingua volgare non può prescindere dal contesto traduttivo in cui Brucioli era immerso e al quale resterà legato. L’idea di un’eguaglianza attuata attraverso la lingua è centrale nella dedicatoria indirizzata al re Francesco I, dedicatoria che funge da premessa alla traduzione integrale della Bibbia pubblicata nel 1532 per i tipi di Giunti:33 O fia ora gravato Cristo d’esser letto da quegli da quali volse essere udito? Et perchè non potrà venire al pasco di quel nostro gran pastore Giesù Cristo, il mercatante, il fabro, il contadino, il muratore, il pescatore, i publicani, e tutte le conditioni de gli huomini et de le donne che furno fatte degne d’udirle da la bocca di esso Cristo? In queste parole è abbozzato un ritratto della società contemporanea medio-bassa, una società rappresentata da un succinto riassunto dei mestieri fondamentali, con annesse «tutte le conditioni de gli huomini et de le donne». In tale contesto, la lingua volgare garantirebbe il diritto fondamentale, per quell’epoca, della lettura dei testi sacri. Più che essere animate da velleità luterane, le aspirazioni del Brucioli riecheggiano i desideri già espressi, circa un paio di decenni prima, da Erasmo da Rotterdam nella sua Paraclesis, prefazione della celebre edizione greca e latina del 1516 del Novum Testamentum, testo destinato a divenire imprescindibile nel dibattito sulla presenza e l’uso della Bibbia nell’Europa del XVI secolo. L’umanista olandese vi rivendicava l’opportunità di una traduzione nelle lingue volgari dei testi sacri: Vehementer enim ab istis dissentio, qui nolint ab idiotis legi divinas Litteras in vulgi linguam transfusas, sive quasi Christus tam involuta docuerit, ut vix a pauculis theologis possint intelligi, sive quasi religionis Christianae praesidium in hoc situm sit, si nesciatur. Regum mysteria celare fortasse satius est, at Christus sua mysteria quam maxime cupit evulgari.34 Altrove, nelle Paraphrases in Novum Testamentum, Erasmo conferma la propria opinione in materia di diffusione delle Scritture, proponendo la visione idilliaca di un mondo in cui le persone dei ceti sociali più bassi, ormai familiarizzatesi con i testi sacri grazie alle traduzioni in lingua volgare, associano i gesti della propria quotidianità alle parole evangeliche: il contadino le recita durante l’aratura, il tessitore le declama lavorando alla tela, il viaggiatore le utilizza come compagnia lungo il cammino.35 Pur ispirandosi ad essa, Brucioli organizza la visione erasmiana con rigore diastratico, secondo l’importanza delle tipologie professionali citate. In cima a questa ideale piramide il «mercatante», collocato subito dopo il Cristo, risulta preminente sugli altri mestieri e agli antipodi della condizione femminile.36 Se, alla luce di quel che si è appena detto, si rilegge il frammento della dedicatoria del Decameron del ’38 sopra citato, si ha l’impressione che quest’ultimo venga a completare l’abbozzo di una repubblica basata sull’eguaglianza linguistica, così come appare nella dedicatoria del ’32; tale completamento avviene grazie a un elemento necessario e ancora assente: il modello linguistico su cui formare la parola volgare che possa trasmettere il Verbo del Cristo, il modello boccacciano. A questo proposito, l’edizione del Decameron sembra segnare un altro momento culminante nella riflessione del Brucioli: dopo quello di natura politica, quello di natura linguistica. Nel 1526, nella già citata prima edizione di uno dei Dialogi, il Delle leggi della Repubblica, il personaggio di Gianiacopo Leonardi sogna una riforma di Stato grazie alla quale i giovani studenti possano leggere la Scrittura volgarizzata: dieci o dodici scuole nella nostra republica si constituissino per i giovani et cinque o sei per le giovani, dove ogni giorno una lettione delle sacre lettere nella materna lingua si leggesse.37 La novità pedagogica proposta si limita dunque a una lettura in «materna lingua», concetto vago e medievale, che sembra solo voler contrapporre la lingua di natura alla lingua artificiale, alla gramatica latina, sulla scia dell’esempio dantesco.38 Pubblicando, nel 1532, la sua prima traduzione biblica, Brucioli inaugura, in materia di lingua utilizzata, una serie di affermazioni che, lungo il resto delle edizioni bibliche da lui tradotte e curate, dichiareranno un impiego della «lingua toscana» (come nel frontespizio della Bibbia del ’32, e in numerosi altri frontespizi), oppure di una «nostra materna lingua toscana» (quest’ultima definizione è più ricorrente nelle dedicatorie). Le proclamazioni di toscanità appaiono talvolta concorrenziali a quelle di «italica lingua nostra» o, addirittura, ad affermazioni di questo tipo: «italiano et che in lingua italiana scrivo».39 Per Ivano Paccagnella, autore di uno dei rari studi linguistici dedicati alla prosa di Brucioli,40 il moltiplicarsi di queste definizioni è il segno di una «ormai [...] sfumata [...] categoricità»41 delle posizioni bembiane e, all’opposto, di quelle trissiniane; tuttavia, appare difficile immaginare che Antonio Brucioli fosse influenzato in modo così puntuale dall’elitario establishment culturale dell’epoca, benchè sicuramente attento e relativamente informato. Piuttosto, ripercorrendo la strada di una possibile influenza linguistica machiavelliana, traspare l’orgoglio patrio che, indifferente (o disobbediente) alle Prose, rivendica l’autosufficienza della propria lingua, identificata nel fiorentino (o in un tosco-fiorentino), non solo per la sua naturalità, ma per il patrimonio culturale e, addirittura, politico-sociale che esso rappresenta. Quanto alla presunta confusione terminologica tra «lingua toscana» e «lingua italiana», le due categorie, in apparenza (secondo i canoni ‘classici’ della questione della lingua) antitetiche, mantengono invece un rapporto che potremmo definire ‘sinonimico’: il toscano e l’italiano, per Brucioli e, probabilmente, per un ampio pubblico di suoi contemporanei, rappresentavano due sistemi linguistici contigui, praticamente intercambiabili.42 Tale intercambiabilità sembra manifesta quando, in un altro brano della dedicatoria del ’32, Brucioli, che nel frontespizio aveva appena dichiarato la toscanità della lingua impiegata, si pone come divulgatore della Scrittura per un pubblico «della Italia»: Onde dovendo, tutte le genti di tutte le lingue, venire a questo santissimo autore, et datore della vita, acciò che quegli della Italia, che altra lingua non sanno, possino gustare questo pane celestiale [...] avanti alla mensa delle pie menti vulgari lo pongo. Sei anni prima del glossario decameroniano Brucioli afferma in maniera esplicita il suo ruolo di traduttore per un pubblico ‘italiano’, in una lingua che apporti non solo conoscenza, ma anche un beneficio spirituale: è fiducioso, come lo sarà nel 1538, nel potere edificante del toscano. In Brucioli, edificazione spirituale ed edificazione civile sembrano confondersi (la proposta di una riforma pedagogica di Stato, sopra citata, che avesse come elemento principale la lettura della Bibbia, prefigurava del resto questa ‘confusione’), e convergono nel beneficio che la lingua toscana trasmette in modo naturale. In un’altra introduzione, quella al Comento della Bibbia pubblicata a Venezia nel 1540, le precisazioni fornite a riguardo della lingua utilizzata per la traduzione biblica non fanno che confermare, ancora una volta, l’idea di una educazione alla virtù, per via linguistica, dei lettori: bisogna che in quella lingua si legga e si dichiari [...] nella quale chi ode, possa edificare la mente, et non nel fasto delle lingue, et talmente anchora dichiararla, che intesa sia da simplici et idioti, che con purità di cuore la cercono di apprendere. Con la definizione «fasto delle lingue» Brucioli confermerebbe l’intenzione di trasmettere una lingua la cui «forza» è intima e non acquisita; non sembra azzardato ipotizzare che questa sia la spia di una malcelata polemica il cui bersaglio non è semplicemente costituito dalle lingue classiche, litterali (le lingue dei testi sacri non tradotti), ma anche e soprattutto da quella retorica volgare frutto della ‘dissezione’ bembiana (o degli epigoni del Bembo – come l’Acarisio -, o del Fortunio), dissezione finalizzata a una trasmissione innaturale e atemporale della lingua, unicamente in nome di una neoplatonizzante concezione estetica.
4. La lingua volgare e il ruolo del traduttore
In questa trasmissione di testi appare significativo che Brucioli, tanto per la Sacra Scrittura quanto, soprattutto, per il Decameron, non rinunci allo statuto di traduttore. Se per i testi sacri questo appare ovvio, per il testo boccacciano, tutto sommato, lo è di meno. Il voler tradurre («dichiarare») «molte parole, et molti verbi et modi del suo dire, propij e particulari Fiorentini a utilità di quegli che Toscani non sono et così bene non hanno cognitione», dietro la parvenza dell’erudizione lessicografica o della divulgazione interregionale, nasconde la medesima azione traduttiva.
Come ha scritto Ivano Paccagnella a proposito del ruolo di Brucioli di traduttore di testi sacri, si può parlare di un’«interpretazione pentecostale»43 di tale operazione, sacro o profano che sia il testo tradotto. Il traduttore non traduce, almeno non nel senso moderno a cui siamo abituati, ossia non ricrea il testo tradotto, ma lascia parlare attraverso sé stesso il testo originale; la lingua originale passa intatta attraverso la mediazione di colui che la ri-trasmette, senza cambiamenti, ma per una sorta di rifrazione, come nell’evento della Pentecoste che Brucioli stesso cita nella dedicatoria indirizzata a Renata di Francia e premessa al Comento biblico pubblicato a Venezia nel 1542: Christo vuole che la luce risplenda a ciascuno, in quelle lingue, che le si può intendere, dando di questo manifesto segno, quando mandò lo spirito santo a’ discepoli, per il quale potessimo parlare in tutte le lingue, et in tutte essere intesi.44 Ancora una volta Brucioli si situa nel solco dell’insegnamento erasmiano. Erasmo aveva indicato agli umanisti che il miglior stile consisteva nell’adesione suprema alla Parola di Cristo e alla sua Sacra Scrittura. Il Cristo si situa dunque all’origine dell’amplificazione pentecostale dei testi sacri. Di conseguenza, sempre seguendo l’insegnamento di Erasmo, in materia di traduzione sacra, niente si può definire, ma solo dispensare: Veteres autem parcissime de rebus divinis philosophabantur; neque quicquam audebant de his pronunciare, quod non esset aperte proditum his literis quarum autoritas nobis est sacrosanta […]. Immo hoc demum est eruditionis theologicae, nihil ultra quam sacris litteris proditum est, definire; verum id quod proditum est, bona fide dispensare.45 Nella traduzione dei testi sacri, l’atteggiamento pentecostale di Brucioli aveva infatti portato a un’aderenza alla sintassi della lingua di partenza, a una fedeltà ai costrutti sintattici originali46 che avrebbe creato qualche difficoltà di lettura e fatto storcere il naso ai traduttori che vennero in seguito.47 Nei confronti del modello boccacciano, la restituzione dei vocaboli decameroniani, sotto l’apparenza del definire, certifica la quotidianità del tosco-fiorentino trecentesco e lo propone al patrimonio lessicale dei lettori, riducendo l’equivalente settentrionale a una categoria diastratica o, addirittura, relegandolo a un uso decaduto; si tratta dunque di dispensare in maniera accurata la parole boccacciana perché s’inserisca naturalmente nella langue del pubblico, immettendo in questo modo la «forza» necessaria alla costruzione morale dell’individuo e, soprattutto, all’edificazione sociale della comunità, di quella repubblica tanto vagheggiata.
5. Conclusione
Nel titolo di questo contributo ci siamo proposti di esaminare, attraverso l’analisi di peritesti, il ruolo assunto dal modello boccacciano nei confronti della lingua volgare, alla luce del pensiero brucioliano. È emerso, attraverso testimonianze tanto frammentarie quanto intense nella loro formulazione, che l’approccio di Brucioli alla lingua decameroniana va al di là del giudizio espresso sull’opera letteraria, oltrepassando anche l’interesse per quello che Bembo aveva chiamato il «corpo delle compositioni sue»,48 ossia quell’architettura prosastica in cui subordinate, inversioni e sapienti distribuzioni di predicati e gruppi nominali contribuiscono alla creazione di un monumento sintattico.
Boccaccio assume, al pari della letteratura sacra, un ruolo fortemente simbolico, su cui non serve intervenire con operazioni filologiche o grammaticali, ma la cui materia testuale chiede una distribuzione accurata ai lettori tramite una fedeltà linguistica che divenga strumento pedagogico edificante. Come si accennava nell’introduzione dell’articolo, è possibile che l’interpretazione brucioliana del ruolo del Boccaccio all’interno dello statuto della lingua volgare non esprima unicamente una posizione individuale, ma che sia piuttosto la concretizzazione editoriale di convinzioni e concezioni (le «idee-forza» di cui si parlava sopra) condivise da un pubblico, alfabetizzato, ma pur sempre di medio-basso livello, che frequentava soprattutto i testi di genere divulgativo, come quelli appunto prodotti da Brucioli. Definito giustamente da Aldo Landi «specchio della cultura italiana del suo tempo»,49 il poligrafo fiorentino potrebbe dunque riflettere anche i modi ricettivi del dibattito intorno alla lingua volgare negli strati non letterati della società a lui contemporanea; modi che escludevano gli approcci tecnico-grammaticali e privilegiavano invece immagini e idee di portata più generale, inserendosi, senza steccati specialistici e senza timori di una confusione di competenze, nelle discussioni più ampie e strutturali riguardanti la religione e la comunità civile.

F. P.






Note

* Questo contributo è frutto della profonda revisione di un articolo pubblicato alcuni anni fa: Il modello linguistico decameroniano e il suo rapporto con il volgare nel pensiero di Antonio Brucioli, in «Cahiers d’études italiennes. Filigrana», 8, 2008, pp. 99-114.torna su
1 Nato inizialmente come comunicazione presentata al xvi Convegno Interuniversitario di Bressanone su I preliminari del testo: Proemio Prologo Prefazione (9-11 luglio 1988), tale contributo è stato poi edito in rivista: P. Trovato, Prefazioni cinquecentesche e «questione della lingua». Assaggi su testi non letterari, in «Schifanoia», 9, 1990, pp. 57-66. Qui, però, si cita da una versione successiva, concepita come un capitolo inserito nel volume: Id., L’ordine dei tipografi. Lettori, stampatori, correttori tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 143-61.torna su
2 Trovato, L’ordine dei tipografi cit., p. 145.torna su
3 Ivi, p. 143.torna su
4 Cfr. ivi, pp. 143-145.torna su
5 Cfr., a questo proposito, gli studi classici di M. McLuhan, The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man, Toronto, University of Toronto Press, 1962, e di E. Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change. Communications and Cultural Transformations in Early-Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; per il contesto italiano si può vedere A. Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1983, vol. ii, pp. 555-686.torna su
6 La citazione è tratta dallo studio di A. Bernardelli, Le trasformazioni nella retorica degli apparati prefativi delle prime Bibbie italiane a stampa (1471-1551), in «Schede umanistiche», 2, 1995, pp. 5-35, a p. 7. Al contributo in questione è fortemente debitore, del resto, tutto il mio discorso dedicato agli apporti semiologici.torna su
7 Cfr. P. Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975 e U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979.torna su
8 Bernardelli, Le trasformazioni cit., p. 7.torna su
9 Ivi, passim.torna su
10 Punto di partenza obbligato per una bibliografia su Antonio Brucioli (Firenze, 1487 - Venezia, 1556) è il catalogo esaustivo di G. Spini, Bibliografia delle opere di Antonio Brucioli, in «La Bibliofilia», xli, 1940, pp. 129-181; a questo può affiancarsi, a firma dello stesso Spini, la voce Brucioli (del Bruciolo), Antonio, stesa da R. N. Lear per il Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 14, 1972, pp. 480-85. Di recente, un agile ed efficace profilo del Brucioli è stato stilato in D. Dalmas, Antonio Brucioli, in Fratelli d'Italia, a cura di L. Felici, Torino, Claudiana, 2011, pp. 19-26. Rimane inoltre fondamentale l’interpretazione dell’attività letteraria brucioliana di C. Dionisotti, La testimonianza del Brucioli, in Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, pp. 193-226, che offre anche una lucida analisi dei tergiversamenti e dell’evoluzione dei comportamenti politici di Brucioli, passato da repubblicano convinto a disillusa spia medicea.torna su
11 Trovato, L’ordine dei tipografi cit., p. 143.torna su
12 Le Regole grammaticali della volgar lingua di Giovan Francesco Fortunio furono pubblicate per la prima volta nel 1516 ad Ancona. Il successo riscosso fu tale che, negli anni immediatamente successivi, vennero approntate due altre edizioni: quella di Milano (1517) e quella di Venezia (1518). La fortuna editoriale delle Regole continuò ancora per qualche decennio. Le Prose bembiane, invece, risultarono un libro difficile e costoso (cfr. P. Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, Bologna, il Mulino, 1994, p. 116, che fornisce delle ragioni economiche e pratiche al diverso andamento editoriale delle due grammatiche antagoniste).torna su
13 Cfr. Spini, Bibliografia delle opere di Antonio Brucioli cit., passim. Si veda anche l’articolo di S. Brambilla, Antonio Brucioli traduttore del Somnium Scipionis: origini e fortuna di un volgarizzamento ciceroniano nel Cinquecento e oltre, in Antonio Brucioli. Humanisme et évangelisme entre Réforme et Contre-Réforme. Actes du colloque de Tours, 20-21 mai 2005, sous la direction de É. Boillet, Paris, Champion, 2008, pp. 99-117.torna su
14 La definizione è tratta da G. Spini, Tra Rinascimento e Riforma: Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940, p. 92.torna su
15 Sull’attività tipografica di Antonio Brucioli, avviata in collaborazione con i fratelli Alessandro e Francesco, cfr. F.Ascarelli e M.Menato, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze, Olschki, 1989, p. 380, nonché Spini Tra Rinascimento e Riforma cit., pp. 92-93. Mentre Ascarelli e Menato si mostrano più cauti nell’affermare l’esistenza di una vita ‘da editore’ del Brucioli, Spini non ha dubbi a tal proposito.torna su
16 Cfr. ivi, pp. 27-28. Per un’analisi approfondita dell’influenza esercitata da Machiavelli su Brucioli, cfr. D. Fachard, Entre utopie et réalité: Antonio Brucioli et la leçon machiavélienne, in Antonio Brucioli cit., pp. 77-97.torna su
17 L’edizione moderna dei Dialogi brucioliani, con l’utile raffronto testuale tra la princeps del 1526, e le ristampe – con modifiche - del 1538 e del 1544, è fornita da Aldo Landi, cfr. A. Brucioli, Dialogi, a cura di A. Landi, Napoli-Chicago, Prismi, 1982.torna su
18 Dionisotti, La testimonianza del Brucioli cit., p. 202.torna su
19 Cfr. ivi, p. 221.torna su
20 Spini appare piuttosto severo a questo proposito: insiste sullo scarso valore intellettuale del Brucioli e lo considera un divulgatore culturale di bassa lega, interessato soprattutto ai guadagni provenienti dall’editoria e disposto ai plagi d’autore (da Machiavelli a Martin Bucero) più sfrontati (cfr. Spini, Tra Rinascimento e Riforma cit., pp. 92, 122, 154, 228-29).torna su
21 L’edizione di Brucioli fu aspramente criticata dal veneziano Lodovico Dolce, il quale la disprezzò in quanto tipico prodotto di «que’ di Firenze», vantando invece i meriti dell’edizione di Dolfin (cfr. C. Gizzi, Girolamo Ruscelli editore del Decameron: polemiche editoriali e linguistiche, in «Studi sul Boccaccio», 31, 2003, pp. 327-48, in particolare p. 329). Negli anni successivi ci furono due altre edizioni, sempre per i tipi giolitini, del Decameron di Brucioli: quella del 1542 e quella del 1546. Quest’ultima fu rivista da Francesco Sansovino e divenne un pezzo forte dell’offerta editoriale del Giolito (cfr. Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato stampatore in Venezia, a cura di S. Bongi, Roma, presso i principali librai, 1890-1897, ad indicem).torna su
22 Pur inserendosi in una tradizione ben collaudata di lessicografia applicata ai testi dei grandi autori fiorentini del Trecento (basti pensare al glossario decameroniano di Minerbi, alla Tavola di tutte le voci usate dal Petrarca con la sposition loro di Ludovico Dolce, per non citarne che due), Brucioli sembra distinguersi per un diverso approccio semantico (cfr. la breve, ma utile, presentazione fornita da G. Tancke, Die italianischen Wörterbücher von den Anfängen bis zum Erscheinen des Vocabolario della Crusca (1612), Tübingen, Niemeyer, 1984, pp. 35-38).torna su
23 Per esempio: «mela casolana: pomo, et sono mele casolane [...]»; «cipolle maligi: cipollette che cominciano sul principio della primavera [...]»; «lavandaia: quella che imbiancha i panni [...]»; «lucignoli: sono lucignoli quelle particelle del lino [...]» ecc...; il tempo presente, utilizzato per illustrare vocaboli tosco-fiorentini tratti dal Decameron, sembra risaltare ancora di più quando Brucioli, per presentare il termine veneziano bergolo, utilizza il tempo imperfetto: «bergoli: bergolo o bergola era vocabolo proprio venitiano [...]» (gli esempi, con qualche nostro ritocco ‘editoriale’, sono citati da Tancke, Die italianischen Wörterbücher cit., pp. 36-37).torna su
24 Per esempio: «lavandaia: quella che imbiancha i panni, in lombardo lavandiera»; «lucignoli: sono ucignoli quelle particelle del lino [...], che in lombardo si chiama paviere»; «arcolaio: questo i lombardi chiamano guindolo o corto [...]» (cfr. ibidem).torna su
25 Ripercorrendo gli esempi forniti nelle note precedenti, è inoltre interessante notare che, spesso, lo ‘statuto semantico’ dei termini di origine tosco-fiorentina si distingue rispetto a quello dei termini "lombardi” nella scelta del connettivo verbale che congiunge il vocabolo al suo significato: per i termini tosco-fiorentini prevale il verbo essere, quasi ad accentuare la realtà fattuale e lessicale del lemma illustrato; per i termini lombardi sembra invece prevalere il verbo chiamare, come se Brucioli volesse indicare un uso non solo limitato da un punto di vista geografico, ma anche diafasicamente poco elevato (le voci del verbo chiamare evocherebbero una testimonianza orale).torna su
26 G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 43-61.torna su
27 Come l’eliminazione dell’utopistica città-ideale di «Matthien, una delle cinque insule delle Monlucce» (ivi, p. 61).torna su
28 Cfr. ivi, pp. 52-53.torna su
29 Tra i vari esempi possibili, ne citiamo almeno due: nella versione del 1526 del Dialogo VI (Della Repubblica), il personaggio di Carmene parla della «mercatura» come «quella cosa, ch’è delle ultime e più vile e di minima necessità» (cfr. A. Brucioli, Dialogi cit., pp. 96-97, testo A del 1526); oppure, nello stesso dialogo (ma nell’edizione del 1544 che, in questo caso, non differisce granché da quella del 1526 e da quella del 1538), fa dire al Trissino: «[...] e i mercatanti virtuosi non possono essere non si essendo essercitati nelle morali discipline e non stando a quelle intenti, onde vile è la loro vita e alla virtù contraria» (ivi, pp. 136-37).torna su
30 Questa definizione doveva essere sfuggita all’ottimo Spini che, tendendo a minimizzare il ruolo del «mercatante» all’interno del pensiero politico-sociale del Brucioli, si chiedeva: «Nei "mercatanti”, ad esempio, si debbono intendere i negozianti al minuto, come appare più verosimile, oppure anche coloro – come la maggior parte dei cittadini fiorentini usava da secoli, e con lei anche il Buondelmonti e l’Alamanni, - che univano il possesso di qualche modesta estensione di terreno nei dintorni di Firenze, le rendite dei propri lucrosi traffici industriali e bancari in Italia e all’estero?» (cfr. Spini, Tra Rinascimento e Riforma cit., p. 156).torna su
31 Per un’analisi accurata della parte iconografica di tale frontespizio, cfr. F. Cortesi Bosco, A proposito del frontespizio di Lorenzo Lotto per la Bibbia di Antonio Brucioli, in «Bergomum», lxx, 1976, pp. 27-42.torna su
32 Così si esprime Christian Bec in uno studio dedicato ai mercanti scrittori (C. Bec, I mercanti scrittori, in Letteratura italiana cit., vol. 2, pp. 269-97): «La decadenza della classe mercantile nella Firenze del secondo Cinquecento è stata contestuale ad una crisi dell’Umanesimo […]. Inversamente, si può constatare che contemporaneamente la continuità a Venezia di questa stessa classe borghese ha assicurato il mantenimento dell’ideologia civile e della cultura umanistica, pur lasciando le porte della città aperte agli intellettuali, soprattutto fiorentini, rimasti fedeli ai valori comunali. È a Venezia che si rifugiano il Brucioli, il Giannotti, Bartolomeo Cavalcanti, o è comunque a Venezia che essi trovano un modello di città che sappia ancora esaltare la vita activa e la vita civilis, che sappia difenderle con coraggio dalle minacce del potere ecclesiastico e principesco» (ivi, p. 297).torna su
33 La Biblia quale contiene i sacri libri del Vecchio Testamento, tradotti nuovamente de la hebraica verità in lingua toscana per Antonio Bruciali. Co’ divini libri del nuovo testamento di Cristo Giesu signore et salvatore nostro. Tradotti di greco in lingua toscana pel medesimo, Venezia, Lucantonio Giunti, 1532.torna su
34 E. Roteradamus, Ausgewählte Werke, hrsg. von H. Hajo, München, Beck’sche Verlagbuchhandlung, 1933, p. 142.torna su
35 Cfr. E. Roteradamus, Paraphrases in Novum Testamentum, in Id., Opera omnia, Lugduni Batavorum, Vander, 1703-1706 (ora anche London, The Gregg Press, 1962), vol. vii, f. 3v.torna su
36 Tuttavia, anche Brucioli non manca di riecheggiare la visione idilliaca di Erasmo citata sopra, quando dichiara di voler tradurre in un linguaggio che possa essere inteso dall’«aratore [che] governando l’aratro alcuna cosa nella materna lingua cantasse dei psalmi», dal «tessitore», dal «nocchiere» (citiamo da G. Procacci cit., p. 36); cfr. a questo proposito anche S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, pp. 88-89.torna su
37 A. Brucioli, Dialogi cit., p. 201 (Dialogo VII. Delle leggi della Repubblica).torna su
38 Basti ricordare una definizione come quella di «parlar materno», estratta da Purg. xxvi 117, nonché le discussioni sulla gramatica presenti nel primo libro del De vulgari eloquentia.torna su
39 Riguardo alle dichiarazioni della lingua usata per tradurre, uno spoglio dei frontespizi (condotto su Spini, Bibliografia cit., passim) delle opere di Brucioli, dove tali dichiarazioni compaiono (volgarizzamenti integri o parziali della Bibbia e di altri testi minori), ha fornito i seguenti dati: in «lingua toscana», 28; in «vulgare italiano», 7; in «lingua italiana», 5; in «vulgare toscano», 1; in «lingua volgare», 1.torna su
40 I. Paccagnella, La «Bibbia Brucioli». Note linguistiche sulla versione del «Nuovo Testamento» del 1530, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, tomo ii, pp. 1075-1087. Paccagnella si era già interessato a Brucioli nel suo volume Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 146-151.torna su
41 Una ‘sfumatura’ che, secondo il pensiero di Paccagnella, è da intendersi come una conseguenza della perdita d’incisività dei dibattiti linguistici attraverso gli anni: «Ma che ormai si sia fatta più sfumata la categoricità delle posizioni del dibattito linguistico fra Epistola trissiniana e Prose bembiane [...]» (cfr. I. Paccagnella, La «Bibbia Brucioli» cit., p. 1079). Tuttavia, qualche anno prima, lo stesso Paccagnella sembra avere a tal proposito un’altra opinione, dettata questa volta da ragioni di tipo diafasico: «[...] ancora a ridosso delle Prose o dell’Epistola trissiniana [la diversità delle dichiarazioni linguistiche del Brucioli] rivela come, spostandosi il dibattito dal piano meramente letterario, le posizioni si facciano più sfumate e perdano la perentorietà che avevano finito per assumere nelle diatribe strette» (cfr. I. Paccagnella, Il fasto delle lingue cit., p. 147). Da notare che, in entrambi i casi, Paccagnella fa soprattutto riferimento alle dichiarazioni presenti nella dedicatoria della Bibbia giuntina del ’32.torna su
42 Un esempio, fra i numerosi che potremmo citare, di un atteggiamento che solo il rapporto sinonimico appena ipotizzato potrebbe giustificare è il seguente: nel 1537, un anno prima dell’edizione decameroniana, Brucioli pubblica a Venezia, per i tipi dello Zanetti, un commento al libro di Isaia recante in frontespizio la dichiarazione di un volgarizzamento «in lingua Italiana» (Libro di Iesaia propheta, tradotto dalla ebraica verità, in lingua italiana e con nuovo commento dichiarato per Antonio Brucioli, Venezia, Bartolomeo Zanetti, 1537).torna su
43 Paccagnella, Il fasto delle lingue cit., p. 149.torna su
44 Citato da ibidem.torna su
45 Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, a cura di P. S. Allen e H. M. Allen, vol. v, 1522-1524, Oxonii, 1924, pp. 176-78; per un commento cfr. C. Ossola, Tradizione classica e tradizione volgare, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. II (Dal Cinquecento alla metà del Settecento), Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 5 (da cui abbiamo attinto anche i riferimenti bibliografici del brano erasmiano).torna su
46 Lo stesso Brucioli così parla della sua traduzione biblica nella dedica a Giovanmaria Giunta che apre l’edizione del suo volgarizzamento del ciceroniano Somnium Scipionis: «[...] alla quale divina opera, bisognandomi havere cognitione della ebraica lingua, fui non tanto essortato da voi a impararla, essendo mossi da pia e cristiana carità, quanto ancora aiutato in tutte le cose che di mistieri facieno a recare a perfettione tanta opera, in modo che i vulgari cristiani posson tenere questo per certo, che per vostro caritatevole e cristianissimo impulso sia venuta in luce, a•lloro grandissima utilità, tuta essa scrittura sacra, vecchia e nuova, e in tale perfettione, con lo aiuto di Iddio e vostro, per me ridotta, che né gli ebrei haranno più ardire, per diffesa della loro perfidia, a accusarla di scorretione, né i cristiani difficultà a intendere il contesto delle parole» (si cita da Brambilla, Antonio Brucioli traduttore cit., p. 104).torna su
47 Basti pensare al giudizio dell’anonimo autore della dedicatoria premessa alla traduzione biblica pubblicata a Ginevra nel 1562 dallo stampatore François Du Ron: «Non resta hora se non di notare et avertire alcune cose intorno a questa nostra tradutione de la Bibia ne la volgar lingua e la cagione che ci ha mossi a tradurla di nuovo. Imperoché, tra gli altri che in ciò si sono insino a qui affaticati, l’ultimo è stato il Bruccioli, il quale s’è portato talmente in questo affare che la sua fatica è degna di gran laude. E se in qualche luogo è stato ritrovato oscuro e difficile, non è da meravigliarsi percioché, havendo egli per le mani la Bibia piena di hebraismi, cioè di sentenze e detti oscuri e come imperfetti (essendo ella stata scritta in lingua hebrea, la qual ricerca e si diletta di un tal modo di scrivere) e volendola ridur finalmente e puramente ne la nostra lingua quasi di parola in parola secondo che sta nel testo hebreo, come si vede che egli ha fatto, ha lasciato quasi tutti i medesimi hebraismi senza risolvergli con diverse parole, o con l’aiuto di altre aggiunte»; oppure alle accuse più velate mosse dal benedettino Massimo Teofilo, anch’egli autore di una traduzione del Nuovo Testamento, pubblicata nel 1551 a Lione: «I più moderni, non meno pii e dotti, hanno tradotto dal greco sì, ma in più luoghi […] furono troppo scrupolosi. La onde hebber talvolta tanta cura di non mutare o parola o ordine di parole, di non turbare, anzi schiarire i turbati periodi e hiperbati, […] io ho hauta grandissima riverenza, e ho a la Sacra Scrittura, ma però più al sentimento che a le parole sue, più a la segnificazione che al suono» (M. Teofilo, Apologia overo difesa di Massimo Theofilo Fiorentino, sopra la tradozzione del Nuovo Testamento in Volgare, e di tutte l’altre sacrosante scritture volgarezate, al Christiano lettore, p. 4; l’Apologia fa parte dell’opera Le semenze de l’intelligenza del Nuovo Testamento, per Massimo Theophilo Fiorentino composte e adunate con la loro tavola dietro, Lione, [s. n.], 1551).torna su
48 P. Bembo, Prose della volgar lingua, I 18 (si cita dall’edizione seguente: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano Latino 3210, edizione critica di Claudio Vela, Bologna, CLUEB, 2001, p. 45).torna su
49 Brucioli, Dialogi, p. 12. Spini, invece, preferisce definizioni meno lusinghiere: alla già ricordata «operaio della penna» si possono aggiungere «giornalista dell’erudizione» e «frettoloso giornalista della cultura» (cfr. Spini, Tra Rinascimento e Riforma cit., rispettivamente pp. 92, 122, 228).torna su