6, 2012
 
Wunderkammer    
 


Cosetta Veronese

Dedica al busto di Raffaello,
scritta da Giacomo Leopardi per Niccolò Puccini



Raffaele D'Urbino
Principe de' pittori
E miracolo d'ingegno
Inventore di bellezze ineffabili
Felice per la gloria in che visse
Più felice per l'amore fortunato in che arse
Felicissimo per la morte ottenuta
nel fiore degli anni
Niccolò Puccini questi lauri questi fiori
Sospirando per la memoria di tanta felicità
MDCCCXXXII1

È questa l'epigrafe dedicatoria composta da Giacomo Leopardi per il busto di Raffaello, che il patriota e filantropo pistoiese Niccolò Puccini (1799-1852) volle erigere nella sua villa di Scornio.2 Terminata nel primo quarto del Settecento per commissione del padre di Niccolò, Tommaso Puccini (1749-1811), grande appassionato d'arte e di pittura, nonché direttore della Galleria degli Uffizi, Villa Puccini sorge a pochi chilometri da Pistoia. Per volontà di Niccolò, nel ventennio 1825-1845 fu estesa e abbellita con la costruzione di un grandissimo parco, seguendo un gusto tipicamente ottocentesco, che combinava stile classico e gotico. In mezzo a due laghetti artificiali sorgevano costruzioni varie, come una chiesa, un tempio gotico, un castello in miniatura e un Panteon in memoria degli italiani illustri, che ospitava quadri e statue di glorie patrie: oltre a Raffaello, Michelangelo e Galileo, si poteva rendere omaggio ai simulacri di Dante, Colombo, Tasso, Ariosto e Alfieri, le stesse figure che Leopardi aveva ricordato nella canzone Ad Angelo Mai. Alla Villa di Scornio si teneva annualmente la "Festa delle spighe", che coinvolgeva i contadini della zona in una celebrazione, a scopi filantropici, della produttività agricola. L'intero progetto architettonico e artistico corrispondeva a un preciso programma estetico ed etico, sulla falsariga degli obiettivi di promozione sociale e culturale cari al Risorgimento: celebrazione delle glorie del popolo italico a partire dalla romanità, e rinnovamento economico e sociale a beneficio delle cosiddette "masse".3 Purtroppo le costruzioni e le statue del parco di Villa Puccini, dilapidate e adibite ad altri usi, non sopravvissero a lungo alla morte del loro patrocinatore; ben poche tracce rimangono oggi delle costruzioni originali. Del busto di Raffaello sopravvive solo un disegno nel volume Monumenti del giardino Puccini pubblicato nel 1845 da Pietro Contrucci, seguito dall'epigrafe leopardiana trascritta qui in apertura.4 Grande ammiratore di Giordani al quale fu legato d'amicizia,5 Puccini si avvicinò a Leopardi grazie alla mediazione del comune amico Pietro Brighenti.6 Definito «molto ricco ed amico dei letterati» in una lettera di Leopardi al cugino Melchiorri,7 Niccolò Puccini era in particolare vicino agli ambienti progressisti fiorentini del circolo di Vieusseux, anche se la sua conoscenza del recanatese precede il suo primo soggiorno fiorentino.8 Dalla loro breve corrispondenza, e dalle poche testimonianze indirette nell'epistolario, trapelano simpatia e apprezzamento reciproci. I due si incontrarono certamente a Firenze, anche se poco sicura risulta la visita di Leopardi alla Villa di Scornio, sollecitata da Puccini in una lettera del 23 settembre 1827.9 A Leopardi e Giordani Puccini chiese di comporre un'epigrafe dedicatoria per due busti in marmo, uno di Raffaello e l'altro di Canova, da erigere in memoria dei grandi italiani (Figura 1). Leopardi era solitamente schivo nei confronti di simili richieste; si pensi alla risposta data al cugino Melchiorri, che lo aveva pregato di comporre una poesia in memoria di Orazio Carnevalini, «giovane di grandi speranze, e di molta virtù», il quale, proprio come Raffaello, era scomparso prematuramente:10 «se l'ispirazione non mi nasce da sè, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello».11 Il fatto dunque che Leopardi acconsentisse al desiderio di Puccini sembra confermare la particolare stima e affinità che nutriva per il mecenate pistoiese. L'epigrafe leopardiana a Raffaello è una dedica piuttosto anomala. Scritta "su commissione" per una statua scolpita da altri che il dedicante (che così risulta il beneficiario tanto delle parole quanto dell'oggetto della dedica), il suo testo è quasi la trama di una fiaba a rovescio. Il titolo di «principe», pur indicando anzitutto la sua supremazia tra i colleghi (da princeps, primo), può evocare infatti anche la tipica figura delle fiabe, legate strettamente alle creazioni dell'immaginazione e quindi al tema tipicamente leopardiano delle nobili illusioni. In quanto «miracolo d'ingegno», il principe, chiamato con forma latineggiante Raffaele, è quasi incarnazione dell'immaginazione e dell'invenzione stessa, «inventore di bellezze ineffabili»,12 quindi anche artefice della favola della propria vita. In questo modo Leopardi sembra insinuare nella dedica anche un implicito riferimento alla posizione di fabbro del proprio destino che l'uomo rinascimentale, rappresentato dal pittore urbinate, occupa nell'universo, una volta spodestata la divinità: al centro, ma solo. Questa celata implicazione inizia a incrinare le attese create dalla fiaba. L'aspettativa dell'incontro del principe con la fanciulla, modello di grazia e bellezza, è rispettato, ma il paradigma dell'amore fortunato, coronato dalla formula "e vissero per sempre felici e contenti" viene ribaltato. L'amore è «fortunato» ma di breve durata, interrotto dalla morte: al "per sempre" subentra implicitamente un "fu", non dissimile da quello che ha stroncato l'esistenza di celebri figure tragiche leopardiane, come per esempio Silvia e Nerina. Diversamente dalle fanciulle evocate nei Canti, la cui vita termina alla soglia, e quindi prima della felicità promessa dalla giovinezza, Raffaello è detto tre volte felice: «felice», «più felice», «felicissimo». Quest'anafora in climax, che coincide proprio con la fine precoce, evoca a livello strutturale e semantico alcuni versi dei Sepolcri foscoliani: «Te beata [...] per le felici / Aure pregne di vita, [...] / Ma piú beata chè in un tempio accolte / Serbi l'Itale glorie».13 Nell'apostrofe di Foscolo a Firenze, il poeta motiva la crescente beatitudine della città («beata», «più beata») con la presenza all'interno dello spazio cittadino di un tempio consacrato alle glorie italiche: Santa Croce. Nel passaggio all'epigrafe leopardiana a Raffaello i referenti di beatitudine e felicità sono invertiti: la felicità di vita portata dall'aria («felici / aure pregne di vita») si trasforma in felicità di morte («Felicissimo per la morte ottenuta / nel fiore degli anni»). Il tema foscoliano dell'importanza del luogo consacrato alla memoria dei grandi, è filtrato, come ora vedremo, dal contesto in cui è nata l'epigrafe. Oltre a quella sui versi dei Sepolcri, la dedica leopardiana a Raffaello attua infatti una seconda operazione di rovesciamento, questa volta sul significato del distico latino scritto da Pietro Bembo per la tomba del pittore nel Panteon a Roma: «Hic ille est Raphael, metuit quo sospite vinci / Rerum magna parens, et moriendo mori».14 Leopardi aveva certamente visto e letto questa epigrafe durante il suo primo soggiorno romano, tra l'inverno e la primavera 1822-1823. Quale migliore occasione che la richiesta di Puccini per reinterpretare il valore della testimonianza culturale e umana di Raffaello, secondo la propria visione, lontana anche cronologicamente da quella di Bembo? Tanto più che il busto del pittore urbinate sarebbe stato accolto in un altro Panteon, quello di Villa Puccini appunto, anch'esso, come Santa Croce, con funzione memoriale e celebrativa delle glorie patrie.15 Leopardi avrebbe così potuto integrare il numero dei gloriosi personaggi italiani già ricordati nella citata canzone Ad Angelo Mai, scritta nel 1820 certamente sul modello dei Sepolcri letti nel 1817,16 e che attua in poesia una funzione commemorativa non diversa da quella delle sculture e pitture raccolte nel Panteon in miniatura della Villa di Scornio. Nel distico bembiano l'immagine di madre natura, «Rerum magna parens», è il termine di paragone della grandezza di Raffaello: la 'grande madre delle cose' teme di morire con la morte di colui dal quale, in vita, temeva di essere superata in forza creativa. Nella dedica leopardiana qualsiasi termine di paragone scompare, e il giovane pittore domina la breve storia della sua vita, fatta di gloria, amore e morte. Nella lettura leopardiana, come si vedrà, la massima felicità di Raffaello, coincidendo con la morte prematura, suggerisce un rafforzamento del ruolo oppressivo esercitato dalla natura sull'uomo. La gelosia della natura per la forza creativa di Raffaello, appena allusa da Bembo, «metuit quo sospite vinci», è certamente per Leopardi tra i motivi che ne rendono la precoce morte «felicissima», liberandolo per sempre da invide rivincite della «dura nutrice».17 Per Silvia e Nerina il mancato avverarsi della promessa di gioventù corrisponde anche al fatto che l'amore appena intuito - attraverso gli «sguardi innamorati e schivi»,18 e gli omaggi degli ammiratori «a radunanze, a feste» -19 non fa in tempo a manifestarsi: arriva troppo tardi. Per Raffaello, invece, come per il ventiseienne Enrico Lenzoni, figlio della nobildonna fiorentina Carlotta Lenzoni de' Medici, e la cui morte precoce Leopardi comunica a Pietro Giordani il 6 settembre 1832, la vita si è troncata dopo aver affondato felicemente a piene mani nei piaceri dei sensi: Il povero, come altri dice, o, come dico io, il felicissimo Enrico terminò il dì 26 del passato la sua corta vita. Studiare, bere, fumare e usar con donne l'hanno prestamente consumato, e ridotto a perire dopo due mesi di malattia non penosa. Savissimo nella pratica, e fortunatissimo fra mille giovani! Non parlerò mai della sua sorte senza un'infinita invidia: se bene sono certissimo che, avvedutosi della morte vicina, egli volentieri avrebbe cangiato il suo stato col mio: tale essendo la pietosa dispensazione della Provvidenza, che i veri e massimi beni non toccano se non a quelli che li credono mali e gli aborrono.20 Questa parole, insieme con il verso di Menandro posto a epigrafe di Amore e morte Muor giovane colui ch'al cielo è caro»),21 e ricordato anche nel Dialogo di Tristano e di un amico («uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza»),22 sono solitamente citate per contestualizzare la dedica leopardiana al busto di Raffaello.23 Si tratta di scritti che rispecchiano una fase potente e devastante della vita emotiva di Leopardi, culminata con il perire dell'«inganno estremo» dell'amore,24 a cui segue, come unico superstite desiderio, quello della morte, chiamata per voce di Tristano: Oggi non invidio più nè stolti nè savi, nè grandi nè piccoli, nè deboli nè potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell'avvenire, ch'io fo, [...] consiste nella morte, e di là non sa uscire. [...] Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato nè desiderato al mondo. [...] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.25 In questo ultimo periodo della produzione leopardiana l'anelito alla morte, pur nel rifiuto del suicidio,26 si fa violenta protesta contro il destino, e, come dichiarato in un famoso pensiero dello Zibaldone, si esprime attraverso il riso disperato e quasi folle di «chi ha il coraggio di morire»: Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentiss., con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.27 Questo terribile ghigno appare chiaramente tra le righe della descrizione di Enrico Lenzoni, detto antifrasticamente «savissimo» per non aver posto freno all'assaporamento dei piaceri: dall'otium («studiare») agli appetiti («bere, fumare e usar con donne»). Felicissimo è il giovane Lenzoni che ha vissuto ed esaurito il tempo dell'esistenza nell'edonismo, lontano dalla noia e dal dolore. Se dall'amore nasce il godimento massimo a cui può aspirare l'uomo («il piacer maggiore / Che per lo mar dell'essere si trova»),28 la morte previene l'avvento del dolore. Morire nel piacere (dell'amore) è quindi supremo bene e suprema felicità. Eppure, sebbene l'alto ideale di amore cantato da Leopardi in Amore e morte sembri piuttosto lontano dalla «pratica» amorosa che ha condotto Enrico e, prima di lui, Raffaello, a malattia mortale «non penosa» - almeno per il primo - l'accento sulla brevità della sua esistenza («corta vita», «prestamente consumato»), non è che una paradossale conferma della ineluttabile transitorietà del piacere, della sua essenza effimera e sfuggente. Nella prospettiva della morte, il piacere si rovescia precipitosamente da bene in male. Agli occhi del morente, la vita rimarrà sempre un bene, anche se dolorosa, e la morte un male: beffarda presa in giro da parte di crudele madre natura che impone all'uomo un repentino ribaltamento di punti di vista e aspettative proprio quando si prospetta, per chi è felice, il troncamento di qualsiasi possibile male futuro, e per chi invece soffre, la cessazione del male presente. Si tratta quasi di un grottesco camuffamento, di un gioco di maschere. Questo tragico e ironico rovesciamento di percezioni della vita e della morte è per Leopardi un'acquisizione di lunga data, attestata da due famose pagine dello Zibaldone. Nella prima Leopardi descrive come il pensiero del suicidio dentro la vasca del suo giardino lo spaventò al punto da indurlo ad attaccarsi, almeno temporaneamente, alla vita, fino allora detestata per la sua noia. Nel secondo egli ricorda come l'esortazione di Giordani a confidare nella morte, rimedio di tutte le sventure, funse immediatamente da antidoto contro lo stesso desiderio di morire. Leggiamo di seguito i testi: Io era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole.29

Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m'avea sempre confortato a sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e gran fama, ch'io diverrei grande, e glorioso all'Italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure, (Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte l'accettassi come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente dalla vita, mi riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio amico, che ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di quella grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le belle viste e le occupaz. dell'adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch'io non sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava?30
Nell'uomo sofferente, la visione della vita e della morte è in continua, iterata metamorfosi. Chi desidera la morte la osserva cambiare aspetto a mano a mano che si avvicina, vedendola trasformarsi in uno spaventoso spettro da cui fuggire. Questo incantesimo che si rovescia ininterrottamente sottende certo il significato ultimo della stessa dedica a Raffaello. Nella Palinodia al marchese Gino Capponi, composta poco dopo, tra il 1833 e il 1835, Leopardi riformula in sintesi il fenomeno, descrivendo ironicamente come l'«alma / Felicità», da tutti inseguita a gara, può solo essere sfiorata «per le chiome fluttuanti» o «Per l'estremo del boa»,31 rimanendo quindi eternamente inafferrata. Comunque e sempre, la felicità non è di chi vive, secondo Leopardi; la felicità cioè non esiste, è mera illusione. Lo stesso, a ben guardare, suggerisce l'epigrafe a Raffaello, se il colmo della felicità («felicissimo») coincide appunto con la morte, che al suo manifestarsi, spaventa. Sembrano così accorciarsi le distanze tra la fine tragica delle fanciulle cantate in A Silvia e nelle Ricordanze, e quella detta «felicissima» e invidiata di Raffaello ed Enrico Lenzoni. Se da un lato la differenza tra il tono commosso della morte delle prime, e quello quasi compiaciuto dei secondi potrebbe ricondursi anche a esigenze di genere letterario - il codice della poesia elegiaca - dall'altro non è escluso che nella seconda posizione riaffiori, quasi involontaria e tragica parodia, il pensiero della madre di Leopardi, Adelaide Antici, riportato nella famosissima pagina dello Zibaldone del 25 novembre 1820. Qui Giacomo ricorda «una madre di famiglia» che, interpretando letteralmente i dettami del cristianesimo, gioisce per le morti precoci, anche quando si tratta di propri figli: Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, [...] gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene.32 Leopardi sembra far proprio il pensiero "barbaro" della madre («il giorno della loro morte [...] era [...] allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene»),33 ricontestualizzandolo in una prospettiva ben diversa, laica e materialista. Non il desiderio di evitare il pericolo del peccato, bensì la caduta dal piacere nel dolore che, secondo Leopardi, accompagna la fine della giovinezza, delle sue speranze e illusioni, e perché no, degli appetiti che essa alimenta, è ciò che lo induce a considerare felicissima e fortunata la morte di Raffaello e di Enrico Lenzoni. Si ricordi, a contrasto, l'agghiacciante descrizione della vecchiezza nella penultima strofa del Tramonto della luna: «Incolume il desio, la speme estinta, / Secche le fonti del piacer, le pene / Maggiori sempre, e non più dato il bene».34 Appunto perché scomparsi prima di assaporare il gusto amaro della vecchiezza, e delle pene non solo fisiche a essa legate (tra cui lo spegnersi dell'amore), Leopardi si rallegra paradossalmente per il destino di Raffaello e di Enrico. Egli ripropone così in chiave laica il pensiero della madre, secondo una prospettiva che affonda comunque le sue radici in una concezione radicalmente pessimistica della vita mondana, mutuata soprattutto dal Vecchio Testamento, pieno di suggestioni gnostiche. Il sospiro indotto dal ricordo della felicità di Raffaello nell'epigrafe scritta da Leopardi per Puccini («Niccolò Puccini questi lauri questi fiori / Sospirando per la memoria di tanta felicità») esprime il rimpianto per una trascorsa, e quindi, perduta, finita, conclusa felicità. Possiamo immaginare che il dedicante "ufficiale" considerasse il sentimento di nostalgia per la gioia passata molto più condivisibile e accettabile, rispetto all'ironico compiacimento per la liberazione dal male futuro, che pur si evince dall'epigrafe. Il compianto si iscrive tuttavia in quel tono elegiaco e lacrimevole che ha fatto di Leopardi il poeta idillico, oltre che patriottico del Risorgimento, garantendo la popolarità ottocentesca dei suoi versi a scapito della produzione in prosa. La memoria della felicità denota una felicità non solo passata, registrata nel ricordo, ma che, in quanto ricordo, è divenuta relitto e rovina, fredda tomba, come letteralmente nell'ultima strofa di A Silvia,35 oppure lapide, testimonianza di una vita che fu, come suggeriscono i versi su Nerina nelle Ricordanze: «I giorni tuoi / Furo, mio dolce amor. Passasti».36 La felicità ricordata e sospirata è quindi non solo quella della vita di Raffaello, ma anche quella di chi, come Leopardi e Puccini, sognando la felicità, anelandovi, l'ha proiettata in Raffaello, credendo di vederla in lui vissuta e perduta. Non a caso l'epigrafe, che si apre in tono sereno, si chiude conferendo al ricordo di Puccini per la gloria del grande pittore un tono elegiaco tutto leopardiano, che va al di là delle formule codificate dell'epigrafe funebre: il «lauro», che fa onore alla gloria artistica di Raffaello, è infatti accompagnato da «fiori», sostantivo che nella sua ambigua indefinitezza, può tanto simboleggiare la giovinezza del pittore quanto indicare un tributo funebre alla sua tomba. Forse casuale ma interessante è ricordare che il più commosso canto leopardiano alla giovinezza e alla felicità svanita porta anch'esso un titolo dedicatorio: A Silvia, appunto.

C. V.



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Note

1 I testi leopardiani sono citati da G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, Milano, Mondadori, 1988, vol. ii, p. 1016 (abbreviato con PP). Si segnala un'incongruenza con il testo di riferimento citato in PP, ossia il volume di P. Contrucci, Monumenti del Giardino Puccini, Pistoia, Cino, 1845, p. 354, dove appare l'aggettivo «fortunato» al v. 6 (come qui riportato), mancante invece in PP. Deve trattarsi di un errore di PP dato che l'aggettivo è presente anche in altre attestazioni, precedenti (G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni ed E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, vol. i, p. 994) e successive (G. Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici ed E. Trevi, Roma, Newton, 1997, p. 1033).torna su
2 Per un ritratto complessivo di Puccini, progressista, filantropo e mecenate, si veda Niccolò Puccini: un intellettuale pistoiese nell'Europa del primo Ottocento, a cura di E. Boretti, C. D'Afflitto e C. Vicoli, Firenze, Edifir, 2001.torna su
3 Il termine, che riprende il senso polemico conferitogli da Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni», PP, ii, p. 217, corsivo dell'autore) indica coloro che, nelle intenzioni dell'establishment progressista (soprattutto in Toscana e nel Regno di Napoli) avrebbero dovuto beneficiare delle iniziative socio-economiche promosse negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento. Si veda, per esempio U. Carpi, Egemonia moderata e intellettuali nel Risorgimento, in Storia d'Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 431-71.torna su
4 Contrucci, Monumenti del Giardino Puccini cit., pp. 353-54.torna su
5 Si veda a proposito L. Melosi, Storia di un'amicizia: Pietro Giordani al nobil uomo cavaliere Niccolò Puccini, in «La rassegna della letteratura italiana», xcvii, 1993, 1-2, pp. 159-82.torna su
6 L'intenzione di Leopardi di conoscere Puccini si legge in una brevissima nota indirizzata a Brighenti da Bologna nel marzo 1826, dove si allude a un programmato incontro: «Mio caro, Sono in casa vra alle 5 secondo il convenuto, e non vi trovo. Venite o no, e dove potrei veder Puccini?». In mancanza di sicure attestazioni, la risposta di Brighenti, «Stasera alle 7 ¼ siate al Caffè della Barchetta e troverete Puccini. Vi sarò anch'io circa le sette e un quarto, ora che è fissata dal sudd.o», non garantisce che l'incontro sia effettivamente avvenuto in quell'occasione, tanto più a giudicare dal tono della lettera di Leopardi al cugino Giuseppe Melchiorri (vedi nota successiva). Tutte le citazioni dall'epistolario sono tratte da G. Leopardi Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, vol. i, lett. 881, p. 1124 (abbreviato con Ep).torna su
7 Nella lettera, datata 19 aprile 1826, Leopardi chiede al cugino, allora a Parigi, se per caso ha incontrato Puccini: «Hai tu veduto costì un cav. Puccini di Pistoia, molto ricco ed amico dei letterati?» (Ep, i, lett. 899, p. 1143).torna su
8 Una lettera ad Antonio Strozzi da Bologna, del 4 settembre 1826, in cui Leopardi si compiace delle notizie positive sul Puccini («Godo assai delle buone notizie del Cav. Puccini», Ep, i, lett. 985, p. 1232), induce a supporre già avvenuto il primo incontro tra i due.torna su
9 Ep, ii, lett. 1144, pp. 1385-86.torna su
10 Ep, i, lett. 615, p. 789.torna su
11 Ep, i, lett. 618, p. 793.torna su
12 Per Leopardi l'immaginazione «è la sola facoltà umana capace del bello, e produttrice del bello» (Zib. 2426, G. Leopardi Zibaldone, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 1997, vol. ii, p. 1567).torna su
13 U. Foscolo, Poesie e carmi. Poesie, Dei Sepolcri, Poesie postume, Le Grazie, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Edizione Nazionale delle Opere di U. Foscolo, Firenze, Le Monnier, 1985, vol. i, pp. 129-30.torna su
14 «RAFFAELLIS SANCTII / Urbinatis Pictoris / Epitaphium», in Carmina Quinque Illustrorum Poetarum, Bergamo, s. n., 1753, p. 45.torna su
15 Per la presenza nascosta, di vera e propria angoscia dell'influenza, di Foscolo in Leopardi si veda il saggio di M. A. Terzoli, Un lettore dei Sepolcri ostinato e d'eccezione, in Ead., Nell'atelier dello scrittore. Innovazione e norma in Giacomo Leopardi, Roma, Carocci, 2010, pp. 155-75.torna su
16 Si veda in proposito ivi, p. 160.torna su
17 La ginestra, v. 44, PP, i, p. 125.torna su
18 A Silvia, v. 46, PP, i, p. 78.torna su
19 Le ricordanze, vv. 160-63, PP, i, p. 83.torna su
20 Ep, ii, lett. 1785, p. 1949. Interessante notare che il giovane Lenzoni era conosciuto per le sue qualità di pittore, come ricorda Pietro Giordani nell'epigrafe per lui scritta che si legge in Scritti editi e postumi di Pietro Giordani, a cura di P. Gussalli, Milano, Sansovito, 1858, vol. vi, p. 222.torna su
21 PP, i, p. 98.torna su
22 PP, ii, p. 214.torna su
23 Si vedano, a titolo di esempio, E. Peruzzi, Raffaele D'Urbino, in Id., Studi leopardiani II, Firenze, Olschki, 1987, pp. 139-56; F. Ceragioli, I canti fiorentini di Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki, 1981, pp. 150-53.torna su
24 «Perì l'inganno estremo, / Ch'eterno io mi credei» (A se stesso, vv. 2-3, PP, i, p. 102). Il riferimento è al noto episodio dell'innamoramento di Leopardi per la bella Fanny Targioni Tozzetti, infatuata invece di Antonio Ranieri, che proprio all'inizio degli anni Trenta era divenuto inseparabile amico di Giacomo. Per una ricostruzione della vicenda si veda R. Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 2002, pp. 402-11 e 426-40; E. Benucci, Per un profilo di Aspasia. Dal carteggio Fanny Targioni Tozzetti - Antonio Ranieri, in «La rassegna della Letteratura Italiana», xcxix, 1995, 3, pp. 136-62.torna su
25 PP, ii, pp. 220-21.torna su
26 Si veda il Dialogo di Plotino e Porfirio, scritto nel 1827.torna su
27 Zib. 4391, ii, p. 2956, corsivi dell'autore.torna su
28 Amore e morte, vv. 6-7, PP, i, p. 98.torna su
29 Zib. 82, i, p. 118.torna su
30 Zib. 137, i, p. 168.torna su
31 Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 30-34, PP, i, p. 114.torna su
32 Zib. 353-54, i, p. 332.torna su
33 Alla fine di questo pensiero, Leopardi condanna i principi razionali e meramente calcolatori della religione, con la domanda retorica: «Ora questo che altro è se non barbarie?» (Zib. 355, i, p. 333).torna su
34 Tramonto della luna, vv. 48-50, PP, i, p. 122.torna su
35 «All'apparir del vero / Tu, misera, cadesti: e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda / Mostravi di lontano» (A Silvia, vv. 61-63, PP, i, p. 78).torna su
36 Ricordanze, vv. 148-49, PP, i, p. 83.torna su