9, 2015
 
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Il Duodecimo libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1603)

a cura di Anna Laura Puliafito



Il Duodecimo libro di lettere dedicatorie di diversi raccoglie 12 dediche su un totale di 22 carte. Su carte non numerate compaiono in apertura la dedica complessiva del libro, e, in calce, gli elenchi degli Autori da' quali sono tolte le Dedicationi e dei Personaggi a' quali sono dedicate le lettere. Nell'aprire questo nuovo libro, Comino dichiara di agire in parte in deroga rispetto al piano generale della sua strategia dedicatoria, ribadita in apertura al libro Undicesimo, lì dove affermava di volersi rivolgere nei numeri successivi a personaggi illustri anche nel «maneggio dell'armi», così da far confluire nel piano dell'opera l'«antico consiglio» di Mercurio e la «forza» di Ercole. Per questo, a partire dall'Undecimo, Comino aveva immaginato dedicatari di nobile stirpe che spiccassero per virtù, onore e forza. Il Dodicesimo libro viene tuttavia offerto a padre Girolamo Capugnani, quel Girolamo Giovannini da Capugnano, Maestro generale dell'Ordine dei Predicatori, dal 1596 Inquisitore di Vicenza, il cui nome già più volte è comparso nella raccolta, sia come dedicatario sia come autore (cfr. «Margini», 6, 2012). La scelta viene giustificata non soltanto dalla 'materia' del volume, ma anche dall'intervento del Reverendo Padre Pio da Lugo, Inquisitore della città di Bergamo. Di fronte alla titubanza del Comino riguardo ai possibili dedicatari, presto convertita nella certezza che il volumetto «per molti misterij, che ne i libri Sacri abbraccia, sacro, e divino» fosse «dovuto a persona di professione, et ordine, sacra», Comino afferma che l'intervento dell'Inquisitore ha svolto un ruolo decisivo. La dedica, datata «Di Bergamo, l'ottavo d'Agosto 1603», riporta nelle forme del discorso diretto − pur senza indicatori grafico-interpuntivi − la cornice di un dialogo presentato come effettivamente avvenuto tra Comino e il Padre Da Lugo. In una sorta di incrocio a tre, la dedica al Capugnani diviene così omaggio all'Inquisitore vicentino («mi rammento d'haverlo più volte udito da diversi intendenti commendare a lungo, dal saper alto, dal dir terso, dallo scriver limato, dal disputar acuto, dal governar prudente, dal giudicar incorrotto, dal conversar affabile, dal viver irreprensibile»), ma, per altro verso, omaggio anche all'Inquisitore bergamasco («hor che nel valor, affetto, a voce della Paternità vostra lo miro [i.e. Capugnani]; farò ver quello parte del molto che ver lei, a cui sentomi dovuto del meglio che ho, son tenuto fare»). L'incrocio è ancora più stretto se si considera che la dedica si offre in primo luogo come «rinovellato memoriale della cordiale affetione, che il molto R.P.M. Pio da Lugo le porta [i.e. al Capugnani]», prima che come «un testimonio perpetuo della propria servitù, che Comin Ventura, già molt'anni alla gloriosa fama, et hora alla più esatta cognitione de' meriti di lei obligato, le dedica». Presentato come lettura di «ricreazione» per la varietà degli argomenti e l'«honore» dei personaggi coinvolti, la dedica si chiude con l'augurio di Ventura che se non dalla lettura, il piacere giunga al dedicatario almeno dal vedere come il suo «sacro nome [...] chiuda in quest'opra quel numero de' volumi, che mi fè cangiar pensiero, et incontrar un Pio, che un Girolamo mi presentasse». I testi da cui le dediche sono tratte sono effettivamente di argomento 'vario': ai cinque titoli di materia ecclesiastica e di elevazione, si affiancano due testi di argomento biografico e storico, un testo di retorica, uno di poesia, uno di musica, e uno di matematica. La prima dedica (c. 1r-v) è dello stesso Capugnani a donna Scolastica Boncompagni, che «con animo heroico» ha messo «in bando li piaceri del mondo» e si è «rivolta a' servigi del Sommo re dei Cieli» nel Convento di San Paolo delle Angeliche di Milano. Per come è impostata, la dedica è un omaggio indiretto al padre di Scolastica, Jacopo Boncompagni, figlio di papa Gregorio XIII e duca di Sora. La dedica è riferita a dei non meglio identificati Discorsi ecclesiastici del Capugnani (da non confondere con i Pensieri cristiani dello stesso, Vicenza, Greco, 1600). Ancora a un membro della famiglia Boncompagni è offerto il Discorso Spirituale sopra il Miserere (In Bologna, per Giovanni Rossi, 1579) che l'autore, il reverendo padre Federico Pellegrini, minore conventuale, offre a Cecilia Boncompagni, «Di Bologna il di 8. Gennaio 1579» (cc.4v-5v). Cecilia, nata Bargellini, era andata in sposa al fratello di Gregorio XIII, Boncompagno Boncompagni, e dalla loro unione erano nati, tra gli altri, Cristoforo, poi arcivescovo di Ravenna, e Filippo, futuro cardinale di S.R.E. Rimasta vedova nel 1587, Cecilia commissionava a Ludovico Carracci la celebre Madonna dei Bargellini per la cappella Boncompagni della Chiesa delle Monache Convertite di Bologna (oggi conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna). È invece Comino Ventura che offre a Ginevra Bonelli (c. 7r-v) la Gemma pretiosa d'affettuosi pensieri fregiata secondo la Mistica Theologia: et prima delle Meditazioni sopra le sette hore canoniche, poi delle Vie di Christo, e del Mondo: fatta apparir in luce dal M. R. Padre F. Paolo Francesco Rossi da Cento, dell'Ordine dei Predicatori, Lettore, et Vicario del Sant'Officio di Bergamo (In Bergamo, per Comin Ventura, 1603). Anche in questo caso, però, l'offerta «di giudicioso stampatore» a Ginevra è un modo per omaggiare indirettamente il consorte di lei, Ludovico Bonelli, gentiluomo onorato del patriziato bergamasco, che fu, tra le altre cose, tesoriere e priore del Consiglio del Monte di Pietà di Bergamo, rispettivamente nel 1593 e nel 1600. Ancora a una donna è destinata la Ghirlanda in lode della santissima Vergine, madre di Dio contesta da F. Aurelio Corbellini di San Germano, agostiniano osservante della Congregatione di Lombardia, nell'Academia de gl'Intenti detto l'Ammirante (Pavia, per Andrea Viani, 1598). Si tratta di Eleonora de' Medici, sposa di Vincenzo Gonzaga e duchessa di Mantova. La dedica del Corbellini (cc. 17r-19r), datata «Di Pavia l'ultimo Genaio 1598», è improntata sulla metafora floreale e riunisce in sé le caratteristiche più significative della dedica cinquecentesca: la presentazione del testo; i cenni biografici sull'autore; la lode e il profilo storico del personaggio cui è rivolta e della sua famiglia, allo scopo di estendere la protezione così ottenuta di fronte al pubblico malevolo dei possibili detrattori. Al Corbellini era stato dedicato tutto il Settimo libro (cfr. «Margini», 6, 2012). La Ghirlanda ripropone la serie di prediche da lui tenute nel 1597 nei «giorni solenni della Madonna», oltre a riflessioni che sono frutto di «ricreazione spirituale nel tempo delle vacanze, ridotto a Caorso nel Piacentino, Contea dell'Illustrissimo Sig. Bernardino Mandelli» (c. 17v). Fatta dei «fiori» della devozione del Corbellini, e «contesta in lode della maggior donna del Cielo», la Ghirlanda «a chi deve essere consecrata - si chiede l'autore -, se non a quella che, fiorita d'ogni virtù, rende non solo a quelle parti del mondo, da cui è uscita, et a cui signoreggia, ma al mondo tutto reffragranza inestimabile? […] et chi la dee havere, se non una delle maggiori donne del mondo?» (ibid.); poiché «raccolta dal delitioso giardino della scrittura», a chi può «essere dedicata, se non a quella, che spirituale è intendentissima della scrittura e ne prende un singular contento nell'udirne a ragionare?». Eleonora potrà farsi in tal modo «diligente» e «sicura protrettrice», proteggendo l'opera dalla «fortuna, a cui soggiacciono tutte l'opere, che si danno alla stampa» e sono perciò stesso esposte ad essere «o lacerate, o spulzate col fango delle loro maledittioni» dagli «invidiosi» (ibid.). La completa dedizione che il Corbellini proclama verso la casa Gonzaga è per altro verso occasione di importanti cenni biografici sulla propria formazione e di correlativa lode della grande casata mantovana. Entrato da poco nell'ordine, Corbellini afferma infatti di aver svolto gli studi giovanili «nel famoso Convento di S. Agnese, in Mantoa antica, e famosa città dell'antichissima, e Serenissima Casa Gonzaga»; aggiunge di avere insegnato nello stesso monastero, con l'appoggio del vescovo di Casale, Monsignor Marc'Antonio Gonzaga, che per due anni consecutivi lo aveva voluto anche nella veste di «essaminatore sinodale». Dunque, afferma il Corbellini, «non devrò offerire non solo me, ma ogni cosa, che da me, e dall'intelletto mio provenga, alla Serenissima Casa Gonzaga, od a quella ch'è moglie del maggior Duca, e Madre de' più leggiadri Prencipi di tal casa Serenissima»? (c. 18r). Sulla lode delle virtù proprie di Eleonora e dei Gonzaga, si può così innestare quella dello zio di Eleonora, il Granduca Ferdinando de' Medici, per ribadire come Toscana, Mantova e Monferrato siano terre di grande fede cristiana e di particolare diffusione «della Religione mia Agostiniana». Corbellini ricorda anzi il nobile intervento del duca Vincenzo Gonzaga «inimico degli heretici, e sicurissimo defensore di santa fede», che proprio nel 1597 aveva portato a termine la sua seconda spedizione contro i Turchi in Ungheria (la prima aveva avuto luogo due anni prima e una terza seguirà nel 1601). La dedica si conclude nel segno, topico, della sproporzione tra la piccolezza del dono e la grandezza di colei cui esso viene offerto, richiamando l'episodio biblico dell'obolo della vedova al tempio di Gerusalemme (Mc 12, 41-44; Lc 21, 1-4) e quello dell'acqua offerta ad Artaserse «nel vaso delle mani» dal povero Sineta (Plutarco, Vita di Artaserse): forte della gloria e virtù di colei cui è dedicata, la Ghirlanda potrà prendere da Eleonora lo splendore di cui il sole riesce a dotare tutte le altre stelle. L'ultimo dei testi di argomento religioso è la Declamazione di Tomaso Gatto Allievo, e Secondo Maestro nel Seminario di Bergamo: nella quale si invita i chierici del medesimo Collegio a pregar'Iddio per il felice successo della Sinodo intimata per i 3. di Settembre 1603 (In Bergamo, Per Comino Ventura, 1603). Si tratta dunque di un evento ancora di grande attualità, che il Gatto dedica a Bartolomeo Pighetto, «Gentilhuomo di nobiltà anticamente Privilegiata», «dottore, canonico e primicerio della Cattedrale di Bergamo» (cc.10r-12r). Nell'epistola Gatto accenna al carattere didattico della Declamazione, rivolta in prima istanza ai discepoli del Collegio, aggiungendo di essere stato «da fidi amici invitato ad accompagnar alla stampa con questa volgare un'altra Latina d'un condiscepolo, e sempre padrone». Con molta probabilità questo testo latino va individuato nel Poema in Laudem Synodi II. Non. Septembris Bergomi coactae (Bergomi, Typis Comini Venturae, 1603) di Pietro Genzio, alunno del Seminario episcopale (Savoldelli, nr. 324). Al Pighetto, Gatti afferma di dovere tutto «tal che se fisso gli occhi nel mio nulla, (poiché la Fortuna mi fu non troppo amica, la Natura scarsa matrigna, la Vertù dificil padrona) conoscomi a punto soggetto degno della gratia di V.S. la quale imitando il sovrano Padrone, attende a giovar i poveri, et innalzar i bassi, non altri mirando, che se stesso nato, et intento più a favorire, che ricever favori» (c. 11r). E conclude non senza avere sottolineato come «humanità, e amicitie» siano tra gli elementi più rilevanti di cui l'uomo possa fregiarsi (c. 11v). Venendo ora alle opere storico-biografiche, andrà citata la Historia dei personaggi illustri religiosi del padre Paolo Morigia, offerta (cc. 2r-4r) da Comino Ventura a Ludovica Rivola («Dalla Stampa mia di Bergamo li 15 di Luglio 1603»). Ludovica era la vedova di Annibale Rivola, appartenente a un potente casato bergamasco di nobiltà feudale, e a lei, «innesto, che in se brevemente raccoglie il bello, et buono, e della Stirpe, e del sesso», lo stampatore sembra voler offrire in particolare il quarto libro, Delle Imperatrici, Regine, Duchesse, et altre Donne illustri, che spregiarono le grandezze humane, et si fecero Monache. La dedica compare tuttavia in testa al volume e sostituisce quella del Morigia (cfr. «Margini», 1, 2007; 2, 2008; 3, 2009) a padre Stefano Bareggi, priore della Certosa di Pavia, che compariva nella prima edizione dell'opera (In Bergamo 1593, cfr. Salvoldelli, nr. 151); in alcune varianti della stampa dell'anno successivo (Salvoldelli, nr. 181), alla dedica dell'autore è premessa la dedica di Ventura a Emilia Roncalli («Dalla Stampa nostra 14 gennaio 1594»). Nel volume del 1602 dell'Historia de gli Huomini illustri che furono religiosi (Savoldelli, nr. 310), testo che, dai titoli dei singoli libri, sembra corrispondere ampiamente all'Historia dei personaggi, la dedica dell'autore («Di Milano questo dì 2 marzo 1602») è invece al Cardinale Camillo Borghese, «titolare della Chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo». Nella stampa del 1603, offerta appunto alla Rivola, la dedica dell'autore viene cassata. La nuova dedica insiste sull'immagine della rinascita della natura dopo i rigori dell'inverno, ed è proprio ai rigori della stagione non propizia che Ventura paragona la sorte di «queste carte […] le quali, uscite dalle mie stampe già men infelice recorno agli occhi eruditi, e divoti affetti, che mirar, e goder nelle parole, et essempi». Ma come spesso nelle sue dediche Ventura sottolinea come la sua «ria sorte con liti, et oppressioni le assalì e scosse, che perdero a vista de gli huomini, e vaghezza, e vista; sì che, quando non gli fusse comparsa avanti la luce del nome, et aura della fama dell'Ill. Sig. Ludovica Rivola non si sariano mai dalle brine e nevi scosse» (c. 2v). Ventura parla esplicitamente dei «dodici anni» in cui il «giardino» delle sue delizie tipografiche è stato «per sinistro accidente […] sterile, et alpestre», e solo grazie ai meriti e all'illustrissimo «ceppo» dei Rivola egli può ora godere di una rinnovata reputazione, e uscire «con questo […] volume dalle borrasche, e tempeste del Verno di mia disavventura» (c. 3v). La vicenda potrebbe riallacciarsi forse alla querela presentata contro Comino «dai tipografi veneziani, per aver pubblicato un'opera - non meglio specificata - protetta dal privilegio di stampa» (Savoldelli, p. xliii, dove lo studioso, sulla base di una lettera del 1591 degli Anziani di Bergamo identifica l'opera con un «Sommario illustrato del Vecchio Testamento»). Ma sulla questione bisognerà certamente tornare in altra sede. Di rilevante argomento storico è il volume che Giovanni Pietro Contarini offre a Giovanni Grimani, Patriarca di Aquileia (cc. 14r-16v). Si tratta della Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano a' Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra Turchi descritta […] fedelmente da M. Gio. Pietro Contarini venetiano (Venetia, Rampazetto, 1572), opera che ebbe una grande diffusione, sulla scia dell'ampia risonanza dei successi della battaglia di Lepanto. Uscita nello stesso 1572 anche a Milano (per Pietro e Francesco Tini), l'Historia venne tradotta in latino da Giovanni Nicolò Stupani (Basilea, Perna, 1573) e solo un anno dopo anche in tedesco da Georg Henisch (Basilea, Perna, 1574). Una seconda traduzione tedesca vede la luce nel 1599 a Dresda ad opera di Heinrich Habermehl (Historische vnd gruendliche Beschreibung der letzten grossen Schlacht so zwischen den Venediern vnd dem Tuercken […] Erstlichen von einem Venetianer Fuerstliches Stammes in Wellische Sprach darnach von Herrn Johan Nicolao Stupano […] ins Latein Jetzo aber durch Heinricum Habermehl [...] in die Deutsche Sprach transferirt. Dresden, Hieronymus Schütz, 1599). La dedica originale al Grimani potrebbe essere anch'essa ascritta al novero delle celebrazioni della nota vittoria navale. Il Contarini inizia infatti con l'affermare che sebbene la fama offra sempre agli uomini le cose «con maggior grido, di quello ch'esse in effetto son seguite», tuttavia «non è dubio alcuno, che nel raccontar la giornata Navale fatta l'anno 1571, alli scogli Cruzzolari, tra le due potenti armate, Christiana, & Turchesca, ella non sij rappresentata minore assai del vero»; come nella migliore propaganda veneziana essa è infatti evocata come «la maggiore et più famosa di quante se n'habbia fin qui havuto cognitione: né alcuna guerra navale per grande et memorabile che sij successa in diversi tempi, può di gran lunga paragonarsi co'l fatto presente» (c. 14v). Nessun fatto d'arme, e vittoria, dell'antichità (e il Contarini ne elenca diversi, tra cui la vittoria degli Ateniesi a Salamina su Serse e i Persiani, quella dei Romani sui Cartaginesi alle Egadi, quella di Ottaviano Augusto su Marc'Antonio e Cleopatra ad Azio) può infatti essere paragonata a quanto successo presso le Isole Curzolari (le antiche Isole Echinade), distanti una trentina di miglia da Lepanto. Quella, afferma il Contarini, «è stata tanto maggiore di quelle, quanto in questa si trattava di tutta la Christianità, et che l'arte del guerreggiare in mare era ridotta a somma perfettione, et diversità d'instrumenti bellici, che mai non conobbero le altre etadi, il gran numero delle nove machine navali, l'infinito essercito guidato da tanti eccelsi principi, et per il successo del fatto pieno di tanta meraviglia, et sì gran stupore, che tutte le età de posteri haveranno sempre più che contemplarvi» (c.15r). La scelta di dedicare l'opera al Patriarca di Aquileia, personaggio pur molto discusso per le sue posizioni dottrinali, viene presentata da Contarini come logica conseguenza della natura della vicenda bellica: solo alla massima carica ecclesiastica veneziana pare infatti adeguato offrire «questa sacra vittoria piena più dell'immensa forza et miracoloso misterio di Christo figliuol di Dio a favore dei suoi Christiani, che per forze humane […] si potesse mai un tanto grande esterminio dei Turchi nimici del suo nome condur a fine con sì poco, anzi niun danno dell'armata fedele». Il mito della vittoria viene qui declinato secondo i paradigmi della percezione e della propaganda contemporanea: pur non riuscendo a garantire la conquista di Cipro, finalità espressa della guerra intrapresa dalla Lega cristiana contro i Turchi, i fatti di Lepanto segnano il declino della supremazia turca sul Mediterraneo e vengono celebrati come effettivo trionfo del mondo cristiano. Nel consegnare la sua opera al Grimani, Contarini fornisce anche alcune interessanti indicazioni sulle sue fonti e sul metodo seguito nello scritto. Per narrare «le meraviglie di questa gloriosa et sacra Vittoria contra Turchi», ripete ancora una volta, dice di avere innanzi tutto narrato «origine et cause di questa guerra, usando in ciò ogni diligentia et fatica» per riuscire a interpretare correttamente «gli avisi particolari» e descrivere al mondo «quanto Dio N.S. sia meraviglioso nelle sue operationi» (c. 16r). Tra le grandi imprese legate alla battaglia c'è la liberazione degli schiavi cristiani obbligati a remare nelle galere turche: proprio nella testimonianza di alcuni di loro Contarini sottolinea di aver trovato informazioni e conferma di quanto letto poi nei minuziosi resoconti delle singole vicende di guerra. Sono dunque «Principi, gentilhuomini e soldati» che hanno permesso di dare alle stampe un'opera che mostrasse al mondo «l'immenso della loro prudentia et bravura» e permettesse «a tutti quelli altri che non furono mai in Levante, di veder distesamente il successo di questa guerra, come vi fussero stati presenti», e «ai più dotti spiriti, che dopo di me scriveranno» di avere «argomento et suggetto» per poter più agevolmente «spiegare la vivacità del loro intelletto» (c. 16v). La dedica contiene inoltre un'accuratissima lode della casa Grimani, con l'elenco di alcuni dei personaggi di maggiore rilievo e l'indicazione delle cariche da essi ricoperte (tra questi i tanti Procuratori di San Marco; il doge Antonio; il cardinal Domenico, promotore della grande «libraria» di San Marco; e, naturalmente, Marino, prima cardinale, poi anch'egli elevato a Patriarca di Aquileia», cc. 15v-16r), accanto alla celebrazione della virtù e delle opere del Patriarca attuale dedicatario. Di Giovanni, il Contarini sottolinea come grazie alla sua «pietà Christiana» e «all'intelligentia di tante scientie» egli si sia adoperato tanto a sostenere «l'armata di mare» quanto ad aiutare «il gran numero di gente» oppressa sulla terraferma dalla grave carestia di quegli anni (c. 15r). Alla grandezza dei suoi interventi come ministro di Dio, Contarini aggiunge poi la grandiosità nel promuovere l'arte, come nel caso della decorazione della facciata e della Cappella Grimani della celebre chiesa veneziana di San Francesco della Vigna, o della costruzione e allestimento delle collezioni d'arte (poi donate alla Repubblica) di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa (c. 16r). Due dediche d'autore accompagnano le due opere di argomento 'letterario' citate nella raccolta. La prima raccoglie le Compositioni Latine, et Volgari raccolte fra un numero infinito di diverse che sono state composte da molti elevati spiriti. In lode dell'Illustr. Sig. Gio. Andrea Veniero nel suo felicissimo reggimento di Bergamo (In Bergamo, Per Comino Ventura, 1602). Si tratta di una silloge composta in occasione della partenza del Venier (cfr. «Margini», 5, 2011), alla scadenza del suo mandato come Capitano della città. L'opera viene offerta «Di Bergamo li 20. di Giugno. 1602» (cc. 19v-20v) dall'autore, Matteo Bordonia (cfr. «Margini», 7, 2013) al vescovo di Bergamo, Giovanbattista Milani, molto vicino al Venier negli anni del Capitanato e «tanto più per la simetria, et conformità, ch'hanno le attioni, et operationi loro così dalla natura, come dalla virtuosa elettione, onde in ambidoi si scuopre fervente zelo dell'amor divino, beneficenza, benignità, mansuetudine, clemenza, quieti, sicuri, et saggi consigli» (c. 20r). Anche in questo caso dunque, sia per la natura dell'opera, sia per le affermazioni contenute nel testo di dedica, questa è in realtà diretta sì all'esplicito dedicatario, ma anche ad un secondo personaggio a lui strettamente connesso. Datata «Alli xxv. Agosto 1562» (così andrà corretto l'anno 1552 indicato nel volume delle Lettere) è la dedica di Anton Francesco Doni al signor Giovambattista Saraco (c. 6r-v) de Il Cancellieri del Doni, libro dell'eloquenza, nel qual si vede per similitudine, la virtù del dire de gli antichi saui, & de moderni uirtuosi, in ogni impresa honorata; di guerra, di stato, & potenza. Risoluendo con le vere sentenze, tratte da greci, da latini, et da gli huomini mirabili della lingua nostra (In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1562). Come sottolineato nell'epistola, Saraco è un personaggio molto vicino agli Estensi e molto noto nell'ambito della nobiltà ferrarese, notaio e consigliere segreto di Ercole ii, archivista e segretario ducale tra il 1530 e il 1557, autore anche di versi latini. La dedica non presenta tratti caratteristici, se non per la conclusione, in cui Doni riflette, pur in termini convenzionali, sulle motivazioni che spingono lui stesso e gli scrittori in genere a dedicare le loro opere: non per ricavare attraverso l'«adulazione» dei «molti soprabondanti di tesori» premi materiali, ma «tenendo per molto havere il nome in fronte al libro» di «spiriti Celesti ricchi di virtù», che «per essere magnifico, et degno, adorna per sempre l'Autore, et l'honora» (c. 6v; cfr. «Margini», 7, 2013). Alcune brevi considerazioni sull'opera e il desiderio di trovare un degno protettore sono affidate dal Doni ad una dedicatoria Ai lettori (cc. 21r-22v) in forma di epistola, che si conclude con la formula topica del bacio della mano (c. 22v). Una raccolta di madrigali (Nova scelta di Madrigali) è il volume che Giovanni Andrea Lupati Ferrari offre, «In Milano il 30. Gennaio 1602» a donna Orsina Peretti Sforza, Marchesa di Caravaggio (cc. 8r-9v). Il giovane era nipote di Cherubino Ferrari, teologo presso il duca Vincenzo Gonzaga e dedicatario dell'intero Nono libro della nostra silloge («Margini», 7, 2013). Anche Giovanni Andrea compariva dal canto suo nel Nono libro. Se in quel caso (forse attraverso la penna dello zio) dedicava ad Alessandra Francesca Sforza Il Gaudio di Maria Vergine nella natività di Cristo e il Pianto della sua morte, ora il richiamo alla semplicità del fanciullo e alla purezza della sua offerta servono a dar voce agli autori dei diversi componimenti, «Madrigali, Dialoghi, Canzonette» il cui oggetto principale sono le lodi di Orsina, accompagnate da quelle di altre nobildonne milanesi, che «come tante lucidissime Stelle le fanno bellissima corona» (c. 9v): per loro un dono «triplicato» che unisce «Poesia», «Canto» e «Suono». L'ultima dedica da menzionare è ancora una volta di Girolamo Giovannini da Capugnano, che offre a Leonardo Neri (cc. 12v-13v) un volume da lui curato, come si desume proprio dalla dedica, che nell'edizione originaria è firmata e datata «Di Capugnano all'ultimo d'Ottobre 1591». Si tratta della Prima parte (ll. 1-7) della raccolta delle opere di Niccolò Tartaglia (Tutte l'opere d'arithmetica del famosissimo Nicolò Tartaglia. Nelle quali in 17. libri con varie proue, & ragioni, mostrasi ogni prattica naturale, & artificiale; i modi, & le regole da gli antichi, & moderni vsate nell'arte mercantile; & oue interuiene calcolo, pesi, denari, tariffe, calmeri, baratti, cambi di banchieri, e di fiere, saldi, sconti, giuochi, traffico di compagnie, compre, vendite, portar mercantie da un paese all'altro, conuertir monete, congiungimento di metalli, & opere de' zecchieri […]. Parte prima \-seconda, In Venetia, all'insegna del Leone [eredi di Curzio Navò], 1592-1593). Va segnalato che in alcuni esemplari dell'opera la Prima parte viene dedicata a Ieronimo Ott («Di Capugnano ai xx di novembre 1591», come segnalato dai cataloghi). La Seconda parte (ll. 8-17) sembra in ogni caso offerta a Giovanni Arcieri («Di Capugnano il xvii. di Decembre 1592»). La dedica a Leonardo Neri (qui confrontata con l'esemplare della Biblioteca dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia) è una dichiarazione di profonda gratitudine per tutti i benefici ricevuti («sonmi veduto con atti di soverchia cortesia amato, et favorito; di dove in me medesimo è nato gioia, et contento, difficile ad esprimersi», c. 13r), e le lodi di Leonardo vengono estese a tutta la famiglia Neri, «famiglia tanto antica di Fiorenza», e in particolare ai suoi fratelli, Neri e Meo. Capugnani dichiara di aver «cavato dall'oscurità dell'oblivione, e dell'antichitade» l'opera intera del Tartaglia, giudicata «piena d'intiera perfettione e bellezza». La scelta del dedicatario viene motivata dal carattere applicativo di molta della materia trattata, «che tiene ancora Simbolo con gli affari gravi, nei quali essa [i.e. Vostra Signoria Leonardo Neri] vive in cotesta città di Ferrara». Non per questo il Capugnani sottovaluta il significato mistico e conoscitivo dei numeri, e, nel concludere l'epistola, sottolinea come essi «di tanta stima furo ne gli antichi giorni, che i maggiori savi del mondo, vollero che sotto quei fossero i princípi de le cose, gli occulti misterij, l'introduttione alla sapienza, i simboli, gli altissimi pensieri, la cognitione della natura, et il principio delle scienze. Come si vede ancor tra noi, mentre la Cabala, o la Geometria, o l'Astrologia, o la Medicina, o la Musica vogliamo apprendere per non far parola delle arti mercantili» (c. 13r-v).



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Bibliografia

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A. L. P.